IGNORANZA
Il palese distacco di alcuni scienziati per le pericolose ultra-semplificazioni della scienza commercializzata mi ha incoraggiato a sperare che tale disillusione possa compiersi in modo completo. C’è la speranza che questi scienziati non si limitino a tentativi di ‘correzione’ semplicemente tecnica o teorica, ma che si affaccino a un nuovo, o meglio a un rinnovato, approccio allo studio e alla comprensione del mondo vivente.
Nessun cambiamento di questo tipo è prevedibile nei termini delle comuni spiegazioni meccanicistiche delle cose. Tale cambiamento è immaginabile solo se abbiamo voglia di rischiare di far ricorso alla nostra cultura tradizionale, considerata ormai fuori moda. Si può dire che la speranza umana sia sempre considerata nella nostra abilità, in tempi di necessità, di ritornare ai nostri punti di riferimento culturali, per trovare di nuovo un orientamento.
Uno di questi punti di riferimento, nel corso della mia vita, è stata la tragedia shakespeariana di Re Lear.[1] Negli ultimi quarantacinque anni sono ritornato più volte sul Re Lear. Tra gli effetti di quest’opera teatrale che si sono manifestati in me – come, credo, in chiunque la legga con attenzione – c’è il riconoscimento che in ogni tentativo volto a rinnovarci o a correggerci, a scuoterci dalla disperazione, e a trovar speranza, il punto di partenza è sempre e soltanto la nostra esperienza. Possiamo cominciare (e dobbiamo sempre essere in procinto di farlo) solo laddove la nostra storia ci ha condotto finora, con quel che abbiamo fatto.
Recentemente i miei pensieri riguardo alle manipolazioni genetiche, che finiranno inevitabilmente con l’essere commercializzate – come peraltro sta già accadendo, se non altro a livello teorico – mi hanno riportato di nuovo al Re Lear. L’intera opera riguarda la giustezza, sia nel senso comune della parola, che nella sua accezione di veridicità, naturalezza, ovvero conoscenza dei limiti della nostra specifica natura umana. Ma tale questione viene trattata in modo più esplicito in un episodio della trama secondaria, in cui il Duca di Gloucester viene sottratto alla disperazione, e gli viene consentito di morire nella piena dignità umana.
Il vecchio duca è stato accecato per la sua lealtà al re, e in tale fato egli vede una sorta di giustizia dal momento che, come egli afferma, “quando vedevo inciampavo” (Re Lear, IV/1). Come Lear, anch’egli è colpevole di hybris, ovvero di presunzione, di trattare la vita come un qualcosa di conoscibile, prevedibile, e sotto il proprio controllo. Egli ha falsamente accusato Edgar, il figlio fedele, e lo ha allontanato da sé. Esiliato a pena di morte, Edgar si è mascherato da folle mendicante. In tale veste, farà da guida al padre accecato, che gli chiede di condurlo presso Dover, dove intende uccidersi gettandosi da una scogliera. Il compito di Edgar è quello di salvare il padre dalla disperazione, e riesce nel suo intento, tanto che il padre infine muore “tra i due estremi della passione: tra gioia e dolore” (V/3). Muore, cioè, nell’ambito dei vincoli propri allo stato umano. Edgar non vuole che suo padre rinunci alla vita. Rinunciare alla vita significa passare al di là della possibilità del cambiamento, ovvero della redenzione. Quindi non conduce affatto il padre sulla cima della scogliera, ma gli dice di aver eseguito quel suo desiderio. Gloucester rinuncia dunque al mondo, benedice Edgar, figlio che egli crede essere altrove, e secondo le indicazioni scenografiche, “cade in avanti e sviene” (IV/4).
Quando ritorna alla coscienza. Edgar ora si rivolge a lui simulando di essere di un passante che da sotto la scogliera aveva assistito alla caduta di Gloucester. È qui che in modo esplicito emerge il suo ruolo di guida spirituale del padre.
Gloucester, incredulo d’essere ancora in vita, tenta di rifiutare un qualsiasi aiuto, dicendo “lasciatemi morire!” (IV/4).
Ma ecco che Edgar, dopo una breve introduzione in cui si presenta quale estraneo, pronuncia quella strofa filiale (nonché paterna) su cui s’è soffermato il mio pensiero:
La tua vita è un miracolo. Ma parla ancora! (IV/4)
È questa la strofa che richiama Gloucester – dalla hybris, e dal danno e dalla disperazione che inevitabilmente ne segue – alla vita umana subordinata alla gioia e al dolore, dove cambiamento e redenzione sono possibili.
La forza di tale strofa letta nel mare d’innovazione e speculazione della bioingegneria risulterà sicuramente ovvia. Ci si accorge immediatamente che il suicidio non è l’unico modo di rinunciare alla vita. Sappiamo che creature di ogni tipo possono essere uccisi, deliberatamente o inavvertitamente. La maggior parte degli allevatori sa che a qualsiasi creatura che viene venduta si è in un certo senso rinunciato; c’è una grande differenza tra vendere agnelli annualmente, che di per sé, è un qualcosa di relativo, e vendere l’intero gregge, o meglio tutta la fattoria, che contiene invece l’immanenza di una promessa illimitata.
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Un po’ più difficile da individuare è il pericolo di poter anche rinunciare alla vita presumendo di ‘conoscerla’ – ovvero riducendola ai termini della nostra conoscenza e trattandola in termini meccanicistici di prevedibilità. L’influenza più radicale della scienza riduttiva è stata l’adozione, virtualmente universale, dell’idea che il mondo, le sue creature, e ogni parte delle sue creature siano macchine – cioè, che non vi sia alcuna differenza tra una creatura e una cosa artificiale, tra nascita e manifattura, tra pensiero e computo. Il nostro linguaggio, laddove viene usato, è ora quasi invariabilmente condizionato dalla presunzione che i corpi di carne siano macchine piene di meccanismi, pienamente compatibili coi meccanismi della medicina, dell’industria, e del commercio; e che le menti siano dei computer pienamente compatibili con la tecnologia elettronica.
Tale presunzione potrebbe avere avuto origine come metafora, ma nel linguaggio così come viene usato (e così come influenza la pratica industriale) è evoluta, attraverso una strana equazione, dalla metafora all’identificazione. E tale uso istituzionalizza il desiderio umano, ovvero il peccato di desiderare, che la vita possa essere prevedibile, o che possa essere resa tale.
Ho letto del principio di Werner Heisenberg che “Chiunque tratti organismi viventi come sistemi chimico-fisici allora devono necessariamente, per lui, comportarsi come tali.” Non è nelle mie competenze avere un’opinione se ciò sia vero o meno. Mi sento solo di dire che ogniqualvolta organismi viventi vengono trattati come macchine, ecco che vengono necessariamente ad essere percepiti, nel loro comportamento, come tali. Inoltre si può notare che la proposizione è reversibile: ogniqualvolta organismi animali vengono percepiti come macchine, essi devono necessariamente essere trattati come tali. William Blake colse la medesima intuizione nella sua epoca afflitta di riduzionismo:
Quel che sembra essere, è, per coloro a quali ciò sembra essere, e produce le più terribili conseguenze a coloro ai quali sembra essere così[2]
Per qualche tempo è stato possibile per una persona libera e coscienziosa capire che trattare la vita come una cosa meccanica, prevedibile, o comprensibile, significa ridurla. Ora, quasi improvvisamente, sta diventando chiaro che ridurre la vita nell’ambito della nostra comprensione (qualsiasi ‘modello’ usiamo) significa inevitabilmente renderla schiava, ridurla a un oggetto di proprietà, per poi metterla in vendita.
Questo significa rinunciare alla vita, portarla al di là del cambiamento e della redenzione, e avvicinarsi sempre più alla disperazione.
La clonazione – per usare uno degli esempi più ovvi – non è il modo per migliorare la pecora. Al contrario, è un modo per fissare il lignaggio della pecora, rendendolo definitivamente non migliorabile. Nessun autentico allevatore lo consentirebbe, dal momento che i veri allevatori hanno in mente la loro fattoria e il loro mercato e cercano sempre di allevare una pecora migliore. La clonazione, oltre ad essere un nuovo metodo per rubare le pecore, è solo un patetico tentativo di rendere prevedibili le pecore, Ma questo è un affronto alla realtà. Come ogni pastore sa bene, lo scienziato che pensa di aver fatto una pecora prevedibile non fa che rendersi ridicolo.
Lo stesso tipo di limitazione e di deprecazione la troviamo nella proposta clonazione dei feti per ottenere parti del corpo umano, e in altre misure estreme volte a prolungare vite individuali. Nessuna singola vita è un fine in se stessa. Si può vivere pienamente soltanto partecipando pienamente nella successione delle generazioni, in morte come in vita. C’è chi direbbe (e io sono uno di quelli) che possiamo vivere pienamente soltanto rendendoci reattivi alle sollecitazioni dell’eternità, allo stesso modo in cui lo siamo riguardo a quelle del tempo.
Il problema, così come appare, è che stiamo usando il linguaggio sbagliato. Il linguaggio che usiamo per parlare del mondo e delle sue creature, inclusi noi stessi, ha raggiunto una certa forza analitica (assieme a un vistoso alone da esperti) ma ha perso molto della sua forza nel designare quel che viene analizzato o nell’esprimere qualsiasi rispetto, attenzione, affetto, o devozione, nei suoi confronti. Come risultato abbiamo molte persone in perfetta buona fede che ci chiamano a salvare un mondo che il loro linguaggio simultaneamente riduce a un assemblaggio di ‘ecosistemi’, di ‘organismi’ di ‘ambienti’, di ‘meccanismi’, o di elementi consimili, del tutto privi di spirito o di una qualsiasi caratteristica. È impossibile prefigurare la salvezza del mondo utilizzando lo stesso linguaggio con cui il mondo è stato smembrato e sconvolto.
Mi sembra che attraverso quasi ogni standard, la riclassificazione del mondo dalla creatura alla macchina, implichi quantomeno una pericolosa riduzione della complessità morale. Altrettanto deve accadere nello spostamento del nostro atteggiamento nei confronti della creazione, dalla riverenza alla comprensione. Non di meno deve avvenire in quella che è la relazione tra la nostra percezione della natura da quella di amministratore a quella di proprietario assoluto, manager, e ingegnere. E deve verificarsi anche un passaggio dal ‘santo’ all’‘olistico’.
A questo punto mi preme affermare che la poetessa e filosofa Kathleen Raine aveva ragione quando ricordava che la vita, la santità, può essere conosciuta solo avendola vissuta attraverso l’esperienza.[3] Sperimentarla non significa ‘immaginarla’ o comprenderla, ma soffrirla e riconciliarsi in essa così com’è. Nel soffrirla e nel riconciliarsi in essa così com’è, sappiamo poi di non capirla, né di poterlo fare, in modo completo. Sappiamo inoltre di non desiderare di appropriarcene attraverso le affermazioni di qualcuno che ritiene di averla compresa. Sebbene abbiamo vita, essa è al di là di noi. Non sappiamo come l’abbiamo, o perché. Non sappiamo cosa le accadrà, né cosa ci succederà; non è prevedibile. Sebbene siamo in grado di distruggerla, non possiamo costruirla. Non può essere controllata, se non per riduzione, e a serio rischio di provocarle danni. È santa, come disse Blake. Considerare la vita in modo diverso, significa renderla schiava, e fare, non dell’umanità, ma di pochi umani i suoi inetti padroni.
. Abbiamo bisogno di una nuova Proclamazione di Emancipazione, non per una specifica specie o razza, ma per la vita stessa, e ciò credo sia proprio quello che Edgar tende ad esprimere al suo già presuntuoso, ma ora disperato, padre:
La tua vita è un miracolo. Parla ancora
Il tentato suicidio di Gloucester è proprio un tentativo di recuperare il controllo sulla sua vita – un controllo che egli crede (erroneamente) di aver avuto una volta e che ora ha perso:
O voi potenti divinità!
A questo mondo rinuncio, e al vostro cospetto
Scuoto tranquillamente dalle spalle il mio fardello d’afflizioni. (IV/6)
La natura della sua disperazione è delineata nella fede di poter controllare la vita uccidendosi, che è un paradosso che incontreremo ancora trecento cinquanta anni dopo all’estremo dello scontro bellico industriale, quando credevamo di poterci ‘salvare’ attraverso la distruzione.
In seguito, sotto la guida del figlio, Gloucester reciterà una preghiera che è l’esatto opposto delle parole da lui precedentemente pronunciate -
O Dei benigni, fate che io esali l’ultimo respiro.
Ma non fate che il mio angelo cattivo mi tenti ancora
A morire innanzi che l’accordi il piacer vostro. (IV/6)
- in cui rinuncia al controllo sulla propria vita. Ha abbandonato la sua vita quale possesso comprensibile, e l’ha ripresa quale miracolo e mistero. Inoltre la sua dichiarazione di essere umano viene riconosciuta nella risposta di Egdar: “Questa sì che è una bella preghiera, padre!” (IV/6).
Sembra chiaro che gli umani non possano ridurre o attenuare in modo significativo i pericoli inerenti al loro uso della vita accumulando più informazioni o teorie migliori, o realizzando maggiore capacità di predizione o di attenzione nel loro lavoro scientifico e industriale. Trattare la vita come meno di un miracolo significa rinunciarvi.
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Sono consapevole di quanto possa sembrare invadente questo commento, da parte di uno, che come me, non ha alcuna competenza o erudizione nella scienza. La questione che sto cercando di trattare, tuttavia, non è relativa alla conoscenza, ma all’ignoranza. Nell’ignoranza credo di potermi pronunciare come esperto.
Uno dei nostri problemi è che noi esseri umani non possiamo vivere senza agire; dobbiamo agire. Inoltre, dobbiamo agire sulla base di quel che conosciamo, e quel che conosciamo è incompleto. Quel che siamo arrivati a capire finora è palesemente incompleto, dal momento che continuiamo a imparare sempre più, e non abbiamo il minimo dubbio che la nostra conoscenza diventerà assai più completa. Il mistero che circonda la nostra vita probabilmente non è riducibile in modo significativo. Dunque la questione di come agire nell’ignoranza è d’importanza fondamentale.
La nostra storia ci fa supporre che possa essere giusto agire sulla base di una conoscenza incompleta se la nostra cultura riesce efficacemente a dirci che la nostra conoscenza è incompleta, e anche a dirci come agire in tale stato d’ignoranza. Possiamo procedere sino a dire che sia giusto agire sulla base di una sicura conoscenza, dal momento che i nostri studi e le nostre esperienze ci hanno dato una conoscenza che sembra essere alquanto affidabile. Tuttavia, appare pericoloso agire sulla presunzione che la conoscenza certa sia conoscenza completa – ovvero sulla presunzione che la nostra conoscenza aumenterà così velocemente da affrontare le deleterie conseguenze dell’uso arrogante di una conoscenza incompleta. Fidarsi del ‘progresso’ o del nostro ‘genio’ putativo per risolvere tutti i problemi che causiamo è cosa peggiore di una scienza cattiva; è una cattiva religione.
Un secondo problema umano è che il male esiste ed è una possibilità reattiva e onnipresente Sappiamo che la malevolenza è sempre pronta ad appropriarsi di mezzi che abbiamo inteso per il bene. Ad esempio, i mezzi tecnici in possesso dell’agricoltura industrializzata. Rendendola (attraverso standard molto limitati) più efficiente, facile, e produttiva, l’ha anche resa più tossica, più violenta, e più vulnerabile – l’ha di fatto resa sempre meno affidabile, se non addirittura meno prevedibile, di quanto era una volta.
Un tipo di male certamente è la volontà di distruggere ciò che non riusciamo a costruire – la vita ad esempio – ed abbiamo enormemente aumentato i mezzi per poterlo fare. E cosa dobbiamo fare? Dobbiamo forse permettere al male e alle sue implicazioni su di noi di portarci alla disperazione?
Questa tendenza alla scienza riduttiva – quando permettiamo all’agricoltura di essere invasa dalla tecnologia della guerra e dall’economia dell’industrialismo – ci sta portando alla disperazione, come testimonia l’incidenza di suicidi tra gli agricoltori.
Se ci mancano i mezzi culturali che mantengono la conoscenza incompleta, impedendole peraltro di divenire la base di un comportamento arrogante e pericoloso, allora le stesse discipline intellettuali diventano pericolose. A che serve un ulteriore studio della natura se porta a un ulteriore distruzione della natura? Studiare lo ‘scopo’ dell’organo all’interno dell’organismo o dell’organismo all’interno dell’ecosistema è ancora riduttivo se lo facciamo con la presunzione di poter prima o poi riuscire a trarne conclusioni definitive. Ciò serve solo a catturare il mondo come soggetto di una ‘comprensione’ presente o futura, che diventerà la base di un ulteriore ottimismo industriale e commerciale, che farà poi da fondamento per un ulteriore sfruttamento e distruzione delle comunità, degli ecosistemi, e delle culture locali.
Naturalmente non sto proponendo la fine della scienza e d’altre dottrine intellettive, quanto un cambiamento di standard e di finalità. Gli standard del nostro comportamento devono essere derivati, non dalla capacità della tecnologia, ma dalla natura dei luoghi e delle comunità. Dobbiamo spostare la priorità dalla produzione all’adattamento locale, dall’innovazione alla familiarità, dalla forza all’eleganza, dall’esosità alla frugalità. Dobbiamo imparare a pensare alla proprietà sia nella progettazione che nelle dimensioni, in termini di salute umana ed ecologica. Con questi cambiamenti potremmo ancora dare con la nostra opera una risposta alla disperazione.
Wendel Berry tradotto da Eduado Ciampi
[1] Nota del curatore: per una lettura tradizionale di questa tragedia shakespeariana, rimandiamo il lettore all’omonimo saggio di Martin Lings, contenuto nella raccolta Miti Shakespeariani (Terre Sommerse, 2010) della medesima collana T&T.
[2] William Blake, Complete writings (Oxford, 1966), pag. 663.
[3] Kathleen Raine, The inner journey of the poet (Braziller, 1982).