L’ETICA DELLA LIBERTA’ SECONDO LA TRADIZIONE OCCIDENTALE E ORIENTALE
ALLEGORIA DELLA LIBERTA’
L’ETICA DELLA LIBERTA’ SECONDO LA TRADIZIONE OCCIDENTALE E ORIENTALE
L’essere umano è creatura incompiuta; è questo il senso trascendente del dono divino della libertà.
La Sophia Perennis dimora immobile nel Centro, in cui tutto si conforma nella sintesi unitaria del Principio. E’ il luogo dove tutti i dualismi, i punti di vista e le distinzioni, contingenti, particolari, personali e individuali, svaniscono e si fondono nell’Origine e nella sintesi dei complementari, nella Conoscenza universale. Qui dimora, immobile e immanifestata la Verità, Origine dell’essere mobile manifestato:
“Il suo punto di vista è un punto da cui questo e quello, si e no, appaiono ancora non distinti. Questo è il cardine della norma, è il centro immobile di un cerchio sulla cui circonferenza ruotano tutte le contingenze, le distinzioni, le individualità, da cui non si vede se non un infinito, che non è né questo né quello, né si né no. Vedere tutto nell’Unità primordiale, non ancora differenziata, o da una tale distanza che tutto si fonde in Uno: questa è la vera intelligenza” (Tchoang-tseu)
Saggio è colui che compie il percorso di ritorno verso questo Centro immobile e immanifestato.
Il concetto di libertà secondo il cabalista Rabbi Loew (il Maharal) è lo stesso che troviamo nel De Hominis dignitate di Pico della Mirandola e nelle enunciazioni del Veda nella dottrina induista. Nel testo della Genesi non è scritto che l’essere umano è migliore di altri esseri, poiché tutti gli altri esseri sono stati creati perfetti nella loro natura. Solo l’uomo non è creatura compiuta, ma è una sintesi instabile e oscillante tra il finito e l’eterno. La compiutezza dell’uomo consiste nel movimento verso la produzione in permanenza della propria perfezione. Così come nel cosmo gli astri si muovono perpetuamente e il loro movimento è la loro perfezione, così è per l’essere umano, che non è stato creato all’inizio come un essere in riposo, perfetto nel suo compimento. Lo sforzo perpetuo verso la perfezione e verso il riposo consiste nel permanente passaggio dalla potenza all’atto. E’ proprio l’imperfezione dell’essere umano, dice il Maharal, e il suo inquieto movimento a farlo simile ai cieli e infine a renderlo libero, capace di decisione e di mutamento. Oggi sentiamo parlare di libertà molto più frequentemente che nel passato e con grande enfasi, benché se domandassimo all’uomo della strada come ne intenda il significato, non saprebbe darci una chiara definizione, né saprebbe dirci cosa stia realmente cercando. In definitiva egli tenterebbe di chiarirne il significato sotto un aspetto condizionato e dipendente da fattori contingenti, esteriori e materiali, quindi quantitativi, scollegati completamente da una realtà spirituale interiorizzata, la cui determinazione non può che essere qualitativa. Uno dei fattori determinanti di questo smarrimento spirituale è l’ascesa arrembante della scienza moderna e della tecnologia. La cosiddetta globalizzazione riflette solo un’apparente unità, che non ha portato ad una connessione intima tra spirito e ragione. Ha deluso ogni aspettativa di felicità e di cooperazione e non è mai stata capace di ridurre gli antagonismi e i conflitti sociali. A tal proposito il russo Maksim Gork’ij, considerato il fondatore del realismo socialista, ci racconta che mentre magnificava le meraviglie della scienza e delle invenzioni tecniche di fronte a una folla di contadini, venne rintuzzato con le seguenti parole:
«Sì, siamo stati capaci di volare in aria come gli uccelli, e di nuotare nell’acqua come pesci, ma non sappiamo come vivere sulla terra…»
Il concetto di libertà per i moderni ha assunto significati sempre differenti che hanno subito adattamenti, spesso opportunistici, e condizionamenti di carattere storico culturali e contingenti. In questo contesto il concetto di libertà, nel suo concretizzarsi e porsi in atto, non può mai definirsi attuale, in quanto si presenta sempre inadeguato a soddisfare pienamente perfino le esigenze materiali. Paradosso, questo, che viene chiaramente messo in risalto in un aforisma di Oscar Wilde, il quale recita in questo modo:
“Al mondo vi sono due tragedie: la prima è quella di non ottenere ciò che si desidera, la seconda è quella di ottenere ciò che si desidera”.
Questo tipo di concezione pone la libertà come oggetto di conquista, da realizzarsi progressivamente secondo un disegno fondato su un certo tipo di moderna concezione meritocratica. Il risultato, in questo modo, è strettamente connesso a fattori il cui valore intrinseco è prevalentemente quantitativo. In questo contesto la libertà può essere definita come una conquista sociale, ma al contempo e per le stesse ragioni, può subire limitazioni o essere perduta del tutto. Una simile visione proietta l’uomo verso una esistenza antagonista e concorrenziale, basata esclusivamente su un progetto di vita materiale ed esteriore. Il risultato è che il rapporto uomo-società-divinità assume caratteri di tipo conflittuale, creando una contrapposizione fra autodeterminazione ed oggettivazione, fra particolare ed universale e, pertanto, un antagonismo dell’uomo contro l’uomo, del singolo contro la società e della società contro il singolo.
“Dov’è la vita che abbiamo perso, vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?
I cicli del paradiso in venti secoli
ci hanno portato lontano da Dio e più vicini alla polvere”
(T.S. Eliot, The Rock, 1934)
Nella concezione che emerge dalla Tradizione, sia orientale che occidentale, la libertà non si realizza attraverso un percorso del singolo fatto di conquiste sociali, ma si fonda su un valore trascendente che pone il suo essere come un dono, di ascendenza divina. A questa condizione essa non può fondarsi da sé e non vi è necessità di conquista, ma è fondamentale che dal quel singolo venga riconosciuta nella sua intima connessione e nel suo radicamento nella dignità di una fede, anch’essa di ascendenza divina. Il libero arbitrio, allora, consiste nel riconoscere e nell’accogliere la libertà come un dono divino, nel senso che essa, quando è concepita e assunta come tale, diviene il legame inscindibile dell’uomo con la sua Origine e gli indica il giusto percorso del Ritorno. Tuttavia questo rapporto non distoglie l’uomo dalla sua responsabilità che, anzi, ne viene rafforzata e diviene doppiamente impegnativa: verso l’Origine divina ad un tempo e nel rispetto della dignità altrui, all’interno della famiglia e della società, nell’altro. Da un punto di vista esistenziale ne consegue un differente concetto di meritocrazia, ovvero che l’individuo e la società vengano intesi non come valori antagonisti ma complementari, gerarchizzabili tra loro solo da un punto di vista spirituale. La libertà è, infatti, un dono che riguarda tutti, nel senso che nessuno viene escluso ed è, per questo, universale; ma non è infrapponibile, in quanto per potersi realizzare deve essere riconosciuta e accolta individualmente. Solamente attraverso queste coordinate tradizionali si può comprendere e accogliere il vero senso e la grandezza del dono trascendente, esistenziale e spirituale della libertà. Pertanto essa non può essere influenzata da fattori provenienti dal mondo esterno, quantitativo e profano, ma deve essere presente originariamente nella propria coscienza e deve costituirsi e rafforzarsi con l’azione della ricerca, che vuol dire desiderio e tensione continui verso la Luce spirituale, la quale rappresenta la Saggezza e la Verità. Non è libero, anche se eticamente irreprensibile, colui che rinuncia alla ricerca, dispensando se stesso da tale fatica e, soprattutto, dalla responsabilità che tale impegno richiede ed impone. Dunque la vera libertà nasce e si attua in correlazione con la responsabilità della scelta, della decisione e della verifica nelle acquisizioni dei concetti, in vista degli obbiettivi armonizzanti che ciascun uomo veramente libero deve porsi nella sua risalita verso la qualità della Conoscenza. Da questo punto di vista, un tentativo di definizione del concetto non può prescindere dall’essere considerato su un piano ontologico, astratto ed universale, ovvero ideale in senso platonico.
“La Tradizione non si può ereditare, e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica“
(T.S. Eliot)
La libertà nel mondo classico
Per Platone la libertà, come la giustizia, la virtù ecc., è un ideale e, pertanto, non è mai raggiungibile in assoluto ma è tensione continua verso la sua conquista, compiuta coscientemente dal soggetto pensante attraverso la fatica della ricerca e dell’apprendimento. Ciò che muove e stimola la ricerca e il desiderio della libertà, è amore: il tipico concetto platonico dell’Eros. La felicità, infatti, non consiste nel raggiungimento della meta, ma piuttosto nello sforzo continuo e cosciente della ricerca, compiuta dal ricercatore. La coscienza, in questa forma di tensione, è un fattore determinante nell’attuazione del libero processo conoscitivo: essa viene definita in etica come la capacità soggettiva di distinguere il bene dal male; in psicologia è l’attenzione sulle percezioni, sui pensieri e sui sentimenti in atto; in filosofia è la consapevolezza che l’uomo ha di sé e della propria identità, del rapporto di sé col mondo esterno. Il rapporto che si stabilisce tra l’uomo e l’essere in sé e tra gli uomini associati nella comune ricerca, è un rapporto che non è solamente intellettuale, in quanto impegna la totalità dell’uomo e quindi anche la sua volontà: solo chi ama si pone in una dimensione di ricerca, in quanto desidera conoscere. Uno dei caratteri fondamentali dell’Eros è l’insufficienza: da questo prende lo spunto Socrate in uno dei Dialoghi platonici, e sentenzia che l’amore desidera ciò che non possiede; è quindi mancanza e insufficienza (penìa). Il mito, infatti, lo dice figlio di Penìa (Povertà) e di Poros (Espediente); come tale esso non è un dio, ma un demone; perciò non possiede la bellezza e il bene, ma li desidera, non ha la sapienza, ma aspira a possederla. Nel Simposio Platone fa dire a Socrate per bocca di Diotima:
Socrate: “Ma chi sono dunque, Diotima, quelli che si impegnano nella ricerca e nella sapienza, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?”
Diotima: “Sono quelli che si trovano a metà strada tra questi due estremi, tra i quali deve trovarsi anche Eros. La sapienza infatti si colloca nel novero delle cose più belle ed è al bello che Eros si volge; da ciò deriva, di necessità, che amore è amante della sapienza, è una via di mezzo tra l’uomo sapiente e quello ignorante. La causa della presenza in lui di questi due diversi aspetti va ricercata ancora nella sua nascita: suo padre infatti è sapiente e abbonda di risorse intellettuali; sua madre invece non è sapiente ed è sprovvista di risorse. Ecco dunque caro Socrate qual è la natura di questo demone.”
Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l’uomo può elevarsi solo attraverso un lungo e lento percorso. Il primo grado è esteriore ed appartiene al corpo che alletta e attrae l’uomo; poi egli si accorge del carattere effimero, così impara ad amare la bellezza corporea in quanto tale. Ma al di sopra di questa c’è la bellezza dell’anima; ancora più in alto la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze; infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, l’idea eterna e immutabile, perfetta, superiore al divenire e alla morte e origine di ogni altra bellezza. Essa funge da mediatrice fra l’uomo decaduto e il mondo delle Idee; e ad essa l’uomo risponde con l’amore, che è desiderio. Quando l’uomo risponde al richiamo della bellezza allora questo si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere. In questo modo diviene nello stesso tempo ricerca dell’essere in sé e unione amorosa delle anime nell’apprendere e nell’insegnare. E’, quindi, psicagogia, guida dell’anima attraverso la mediazione della bellezza, verso il suo vero destino. E’ arte della persuasione e vera retorica, che non è, come sostenevano i Sofisti, una tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto, ma è conoscenza dell’essere in sé e, nello stesso tempo, conoscenza dell’anima. Come tale distingue le specie differenti delle anime trovando per ognuna di esse la via giusta per persuaderla e condurla all’essere:
“Quando l’anima affissa i suoi sguardi su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, subito comprende, conosce e sembra che possegga intelligenza: ma quando si rivolge a ciò che è pieno d’ombra, su ciò che nasce e muore, altro non ha se non opinioni e vede oscuro e tira a indovinare, e somiglia a chi non abbia intelligenza. Ciò che, dunque, spande la luce della verità sulle conoscenze acquisite, ciò che da all’anima la facoltà di conoscere, di pure che è l’idea del Bene. Essa è il principio della scienza e della verità, in quanto appartengono all’intelligenza, ma per quanto belle siano – la scienza e la verità – l’idea del Bene ne è distinta e sarai nel giusto se la riterrai di gran lunga più bella. E come nel mondo visibile è giusto credere che la luce e la vista abbiano una qualche analogia col sole, ma sbaglieremmo se le prendessimo per il sole stesso, così nel mondo intelligibile è giusto credere che la conoscenza e la verità siano simili al sole, ma sbaglieremmo se le credessimo lo stesso Bene: ancor più in alto è da porsi il Bene.” (Platone, Repubblica)
Dunque per i Greci libertà è sinonimo di ricerca. L’uomo è “animale ragionevole” e possiede la capacità razionale, che vuol dire cercare in modo autonomo. Il fine della ragione è la libera ricerca della Verità; ma in questo senso, a sostanziale differenza dei moderni, essi attribuiscono alla ragione una potenza superiore, capace di indagare e riconoscere le “cose ultime”. Il riconoscere non è però inteso come conoscenza inconfutabile, in quanto non si pretende di conoscere l’inconoscibile attraverso un atto di supremazia razionale e intellettuale, ma lo si pone come “ciò che è necessario, ciò che è e non può non essere”.
Eraclito è il primo vero filosofo della ricerca: la natura dell’uomo, in quanto dotato di ragione, impone la ricerca della verità, infatti questa “ama nascondersi” e aggiunge: “i cercatori d’oro scavano molta terra, ma ne trovano molto poco”. Ma nonostante la consapevolezza dei propri limiti egli vede ampliarsi davanti a se un vasto orizzonte di aspettative:
“Se non speri non troverai l’insperato, introvabile essendo questo inaccessibile.”
La prima condizione della ricerca è che l’uomo “indaghi se stesso”, che guardi dentro di sé e nel proprio infinito mondo interiore:
“Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda la sua ragione” .
La seconda condizione è la comunicazione fra gli uomini: ciò che accomuna gli uni agli altri e, nello stesso tempo, costituisce la più intima essenza dell’uomo singolo è il “Logos”, il pensiero. Il logos rappresenta il filo comune che unisce gli uomini “desti”, aperti alla comunicazione tramite la ricerca; la stessa che determina l’indole dell’uomo (ethos) e, conseguentemente, il proprio destino. Il cercare qui assume un doppio significato nel suo volgere verso la conoscenza, in quanto non ha solamente valore contemplativo (noesis), ma diviene anche saggezza di vita e di comportamento (fronesis). Anassimandro si pone per primo il problema di cercare una risposta razionale sul modo in cui avviene il processo di derivazione dall’origine e lo indica nella “separazione”. L’atto della separazione si realizza nella nascita, la quale attuandosi implica la separazione dall’Essere Originario. Essa dunque è una rottura dell’Unità e dell’armonia, dalla quale si separano gli opposti che in essa si compongono: caldo e freddo, secco e umido, finito e infinito, ecc.. Questa separazione, o nascita, secondo Anassimandro, è dovuta ad una colpa che si dovrà espiare vivendo. Tale colpa consiste proprio nell’atto della separazione, inteso come rottura dall’Unità, che solo con la pena del vivere potrà essere espiata, per concludersi infine con la morte ed il conseguente ritorno ad essa. Il ritorno al Principio creatore è, perciò, opposizione, lotta, discordia, bisogno di ricongiungere il dissonante all’armonico, il discorde al concorde, l’incompleto al completo, poiché solamente dalla riunificazione degli opposti scaturisce l’Unità, mentre dall’Unità scaturiscono gli opposti. La teoria sulla realtà fisica di Parmenide di derivazione pitagorica, si basa anch’essa su un dualismo, quello del limite e dell’illimitato, che egli converte nel prodotto della mescolanza e della lotta della luce e delle tenebre. Altro interessante contrasto che viene posto nella filosofia di Parmenide è quello tra Verità e apparenza. Due sole vie di ricerca si possono concepire:
“L’una dice che l’essere è e non può non essere, e questa è la via della persuasione perché è accompagnata dalla verità. L’altra dice che l’essere non è ed è necessario che non sia; e questo, ti dico, è un sentiero del quale nessuno può persuaderci di nulla. Perciò un solo cammino resta al discorso, che l’essere è”.
Dal pitagorismo deriva anche la convinzione di Parmenide che solo con il rigore della ricerca l’uomo può pervenire alla Verità. I versi con cui si apre il poema “Il viaggio verso la verità”, evidenziano in tutta la loro forza la propria convinzione iniziatica, la quale trova la via della persuasione solo nella potenza indagatrice della ragione, dal momento che i sensi si fermano all’apparenza:
“Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere/ mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose/ che appartiene alla divinità e che porta in tutti i luoghi l’uomo che sa./ La fui portato. Infatti la mi portarono accorte cavalle/ tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via…”
E poi continua:
“…E la dea di buon animo mi accolse e con la sua mano la mia mano destra/ Prese, e incominciò a parlare così e mi disse:/ – O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,/ rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere/ questo cammino (infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini)/ ma legge divina e giustizia./ Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della ben rotonda verità/ e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza./ Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono/ Bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.”
Cattolicesimo e libero arbitrio
Il Cattolicesimo apparentemente sembra escludere il principio della libera ricerca, tipico della tradizione greca, in quanto insiste nell’accettazione di una rivelazione o di una verità testimoniata dall’alto di una autorità. Ma la realtà, per chi voglia approfondirne il senso è differente: il Cristianesimo, a nostro modo di vedere, non si contrappone affatto alla tradizione greca, ma la completa nel suo percorso di determinazione, ovvero nel principio conclusivo della verità cercata. Tale percorso è stato evidente nei primi secoli dell’era cristiana. I primi padri della chiesa, denominati apologisti, cercarono di sistematizzare la dottrina cristiana attingendo ampiamente dalla speculazione greca e pagana molti dei concetti su cui basare i propri capisaldi. Essi tennero ad affermare e a giustificare la continuità del Cristianesimo con il pensiero greco ed in particolar modo con l’ultimo periodo di quella speculazione, improntata prevalentemente sul problema spirituale e religioso. In primo luogo si sostenne l’universalità divina del Logos o della Ragione, attingibile da tutti gli uomini e si affermò, per conseguenza, la necessità di unità tra filosofia e religione. La ragione sarebbe inutile se l’uomo non potesse scegliere tra il bene e il male e, dunque, non appena egli si ponesse il problema e si domandasse in che modo vada inteso il significato della Verità (intendendola come Verità nel suo valore assoluto) per giungere ad esserne veramente e interamente coinvolto nel significato della propria esistenza, l’esigenza della ricerca si ripresenterebbe in tutta la sua forza. La ricerca, pertanto, nasce e viene rafforzata dal bisogno di religiosità dell’uomo, dalla necessità di indirizzare la propria vita spirituale verso la Verità assoluta, fosse anche quella rivelata. Si sostenne, pertanto, la superiorità della conoscenza sulla fede, in quanto la conoscenza ricomprende in sé anche quest’ultima. Le Sacre Scritture contengono soltanto degli elementi minimi sui quali porre le basi di un percorso conoscitivo, che si trova ben al di sopra del Vangelo storico e conduce verso un Evangelo spirituale ed eterno, posto al di la del tempo e dello spazio, in grado di abbracciare non solo tutta l’umanità, ma l’universo intero, ma che soltanto a pochi è dato di intuire e di conoscere. L’atteggiamento speculativo è rivolto a chiarire il significato autentico della propria vita interiore; ovvero si intende chiarire il significato del rapporto del proprio io e della propria anima con il Trascendente. Ne “Le confessioni” di Sant’Agostino la tematica centrale è il rapporto diretto tra Dio e l’uomo e in particolare di come l’uomo, che cerca la felicità e dunque la Verità, (secondo quanto insegnato dalla filosofia greca) per conoscere Dio non si possa ricorrere alla sola ragione ma si abbia bisogno anche del sostegno della grazia divina e, quindi, della fede. La dottrina e la scuola di pensiero a cui Agostino fa riferimento è quella neoplatonica ed in particolare si basa sulla personalità e sull’insegnamento mistico di Plotino. Agostino viene chiamato il Platone cristiano, non tanto per motivi di affinità dottrinali, ma in quanto intende richiamarsi all’esigenza della ricerca, che fu tipica del pensiero platonico e neoplatonico, ponendola come presupposto e rinnovandola nello spirito cristiano. La ricerca non è unicamente esigenza della ragione, ma è esigenza introspettiva, di conoscenza interiore, che nella ragione deve fondare la sua disciplina e il suo rigore. Dunque la fede è il frutto e il fine della ricerca, e come tale è libertà che al di fuori del suo presupposto non sarebbe in grado di scorgere alcuna Luce. Nella fede la libertà trova il suo rafforzamento e il suo arricchimento ed allo stesso tempo ne è la sua condizione. Per Agostino, come per gli antichi greci, la ricerca implica un impegno totale dell’uomo, non solo intellettuale, ma anche di volontà (noesis e fronesis). Essa impone il rigore della verifica dei concetti da acquisire, non li elude e non li evita, ma li affronta e li considera incessantemente nella loro difficoltà, tendendo verso il loro chiarimento e verso la Verità, che anche secondo la parola evangelica è: “la Via e la vita”. Tuttavia si tratta di una scelta e, dunque, di una condizione di libertà di colui che la attua. La ricerca di Agostino viene condotta con il riconoscimento dei limiti imposti dal divino alla ragione stessa, ma egli non si arrende e non si ferma di fronte al dubbio e al mistero, ma pone questi limiti come base e punto di riferimento, fortificandoli con la persuasione della fede, per spostare sempre in avanti i limiti della conoscenza. Questo presupposto è già, dal punto di vista di Agostino, un primo fondamento di libertà e di certezza: la Verità è trascendente ma allo stesso tempo è presente nella dimensione interiore e introspettiva dell’uomo che la cerca liberamente. Lo sforzo intellettuale e filosofico si trasforma in umiltà religiosa e giunge alla fede. La libertà e il bisogno della ricerca appaiono come grazia, come una concessione e un dono di Dio. Nel libro “La città di Dio” l’uomo singolo viene posto di fronte ad un’alternativa: indirizzare la propria esistenza verso una dimensione introspettiva e spirituale, ovvero impostando la propria vita nella ricerca di Dio, oppure scegliere di vivere nella cosi detta “città terrena”, raffigurata come il regno della carne. La città terrena ospita coloro che sono dominati dalla sete di dominio verso il prossimo, mentre nella città celeste si vive nell’armonia dello spirito di solidarietà e nel rispetto dei doveri sociali. A distinguere l’esistenza e la differenza tra le due città non vi è alcun segno caratteristico esteriore. Esse sono invisibilmente accessibili e fanno parte della storia dell’umanità fin dal suo inizio e lo saranno fino alla fine. Solo attraverso una riflessione spirituale, umile e sincera, ognuno potrà individuarle e potrà scegliere di quale città essere dimorante.
Dignità e libertà nell’Umanesimo
La concezione del mondo, nella cultura tipica dell’Umanesimo, sta nella ricerca dei valori umani permanenti, mediante lo studio e la riscoperta degli antichi saggi.
Al centro di questa nuova concezione vi è un progetto di ricostruzione dell’uomo, di natura prevalentemente spirituale e religiosa, tendente a stabilire il suo ruolo e con esso il determinarsi del suo rapporto con il mondo e con il divino. Significa, altresì, definire la sua collocazione al cospetto del cosmo, divenendo un rapporto agente in una posizione intermedia tra il mondo materiale e la perfezione divina. In altri termini l’uomo, riprendendo l’antica tradizione ermetica, è in grado di stabilire la propria identità, ovvero la propria essenza, ponendosi in rapporto tra ciò che è “fuori da sé” e ciò che è “dentro di sé”; divenendo egli stesso un rapporto nell’ambito di tali rapporti. Stabilire la propria collocazione rispetto al cosmo, pertanto, significa determinare anche il proprio ruolo e il proprio ambito di libertà e di movimento nella ricerca e nella conoscenza. Marsilio Ficino occupò gran parte della propria breve esistenza nella traduzione di testi classici proprio nel tentativo di dimostrare, attraverso un arcaico percorso che va da Zarathustra fino a Ermete Trismegisto a Pitagora e fino a Platone, per confluire infine nella religione ebraico cristiana e nel misticismo neoplatonico, che non vi è, in linea di massima, disaccordo fra Platonismo e Cristianesimo, fra magia e religione. Al contrario, in queste tradizioni così apparentemente diverse tra loro, vi è un comune nucleo di verità, che Ficino riassume nella formula “homo copula mundi”, rappresentato dalla dignità cosmica dell’uomo. L’uomo è il centro (copula), un’entità intermedia nel creato a metà strada tra l’animale e l’angelo. Per questo egli si trova perennemente di fronte alla sua responsabilità di scegliere, alla sua libertà di autodeterminarsi, tendendo verso la perfezione angelica o verso il degrado animalesco. Nella “Teologia Platonica” di Ficino, leggiamo:
“ L’anima è tale che afferra le cose superiori senza lasciare le inferiori; e così in essa si collegano le cose superiori con le inferiori. Essa infatti è immortale e mobile, e perciò da un lato concorda con le cose superiori, dall’altro con le inferiori. E se concorda con entrambe, desidera entrambe… E mentre aderisce al divino, poiché è spiritualmente unita ad esso e l’unione spirituale genera la cognizione, conosce il divino. Mentre riempie i corpi, li muove intrinsecamente e li vivifica; essa è dunque specchio delle cose divine, vita delle cose mortali e connessione delle une e delle altre… Affinché dopo Dio e l’angelo al di sopra del corpo e delle qualità che nel tempo e nello spazio si dissipano, faccia da termine medio adeguato: che sia in un certo modo diviso dal decorso del tempo e tuttavia non diviso dallo spazio. E’ essa che si inserisce fra le cose mortali senza essere mortale, perché si inserisce integra e non spartita, e così anche integra e non spartita se ne ritrae. E poiché mentre regge i corpi aderisce anche al divino, è signora dei corpi, non compagna. Questo è il massimo miracolo della natura.”
Il ruolo di mediazione recuperato dalla tradizione platonica e neoplatonica, appartenente al mondo classico, determina di fatto la fine dell’egemonia assoluta del dogma ecclesiale e, per il tramite di questa, del dominio assoluto della Chiesa. Viene pertanto a costituirsi una sorta di Platonismo Cristiano incentrato sulla figura del Demiurgo. La direzione in cui procede questa sorta di liberazione porta al ribaltamento delle certezze originarie e possiede l’indole di sostituirsi alle credenze dogmatiche con il libero amore per la divinità. Una esperienza spirituale di tale portata che, rinunciando all’imposizione dogmatica, dirige verso l’amore della libera ricerca, implica che la condizione umana sia dominata dall’incertezza, dall’indecisione, dal senso di responsabilità e di equilibrio sulle possibili scelte. Nel privilegiare la libera ricerca e la conoscenza, l’umanesimo afferma e compie una reale modificazione nel considerare la vita stessa, ovvero concepisce l’esistenza come riflessione e studio in luogo di una vita improntata come semplice preparazione passiva in attesa della vita futura. Nella ricerca dell’unica Verità che propende verso Dio, attraverso la conoscenza e l’esplorazione della natura nella quale Egli si manifesta, si può esaltare la libertà e la dignità dell’uomo. Ma, benché siano tante le vie che si possono intraprendere e percorrere nella ricerca della Verità, questa è e rimane una e immutabile. Pico della Mirandola mette in risalto, come Ficino, il ruolo di intermediazione dell’uomo. Dio, ha dotato l’uomo di una qualità essenziale di cui sono prive tutte le altre creature: la libertà. Egli possiede la libertà e la responsabilità di autodeterminarsi ed essendo posto in una posizione intermedia del cosmo può scegliere tra l’elevarsi verso le cose celesti o il degradarsi fino alle cose inferiori. L’utilizzo di questa facoltà viene esaltata nella ricerca e nella conoscenza, poiché procedendo in essa l’uomo apprende al contempo le leggi che regolano l’universo e vi individua la posizione da lui stesso occupata, che è posizione indeterminata tra rischio e pericolo, coscienza e incoscienza, libertà e responsabilità.
Libertà e divinità secondo la tradizione orientale
L’atteggiamento del pensiero tradizionale occidentale, a partire dal greco Parmenide, si fonde e forma un unicum con la posizione dell’induismo e del pensiero orientale in generale. Il divenire che non esiste e il non essere che non è, per Parmenide sono la stessa faccia della medaglia; dunque rappresentano il mondo dell’illusione e della doxa. Uno dei grandi temi delle dottrine orientali, del Veda, delle Upanishad, del Bramanesimo e del Buddismo, è proprio questo: tutto ciò che di orribile e doloroso si manifesta e si presenta come reale, altro non è che illusione. L’uomo è infelice per il semplice fatto che non sa di essere felice, in quanto non riesce a distinguere la Realtà e la Verità dall’illusione e dall’opinione. Così accade nella ricerca della Verità, che è una e immutabile, dove le strade per giungervi possono essere infinite e di infinite forme. Il Divino è Uno, benché centinaia siano le divinità del Pantheon indù. Ogni uomo può perseguire una strada differente da ogni altro e giungere alla stessa meta, al medesimo Principio, ovvero alla realizzazione dell’Unità nella diversità. L’atteggiamento nel concepire il senso di libertà, che accomuna la Tradizione, sia essa orientale che occidentale, è proprio questo ed è di natura spirituale e metafisica.
“Il Principio è Uno, ma i saggi lo chiamano con nomi diversi…Vedi l’unità nella diversità, l’Uno divino appare nelle molte forme, immensa è la sua vastità. Accesa in varie forme, l’eterna fiamma è Una. Illuminando il mondo con i raggi dorati all’alba, dipingendo le nubi della sera con cangianti colori, il sole è Uno.” (Rig Veda)
Nell’induismo sono comprese molte tradizioni spirituali, le quali rappresentano le innumerevoli e differenti strade che conducono tutte alla stessa meta: Dio è Uno e appare in molte forme, ma ogni forma è Egli stesso.
“Conosce la verità chi conosce questo Dio come Uno. Né secondo, né terzo, né quarto Egli è chiamato; né quinto, né sesto, né settimo Egli è chiamato; né ottavo, né nono, né decimo Egli è chiamato; Egli sopravvive a tutto ciò che respira e non respira; egli possiede il potere supremo. Egli è Uno, Uno solo, in Lui tutti i poteri divini diventano Uno soltanto.” (Atharva Veda)
L’Induismo si basa sull’autorità del Veda e, tuttavia, questa autorità non riveste carattere dogmatico tale da poter parlare di ortodossia. Ma è anche vero il contrario, cioè che non si può parlare di sincretismi o contrapposizioni. Per questo motivo l’Induismo non è una religione, nel senso che le attribuiamo noi occidentali, bensì può essere definita “Principio eterno e Luce di riferimento”, la cui Verità basata sulla Tradizione non determina un asservimento della ragione e della libera ricerca, ma al contrario, li stimola nel desiderio di conoscenza ed esalta la libertà spirituale, testimoniata dalle differenti e innumerevoli dottrine o “punti di vista”, dove la conoscenza è paragonata a una “visione interiore”. Abbiamo già visto, citando Guenon in un nostro precedente articolo, come:
“La dottrina del Veda, vale a dire la Scienza Sacra tradizionale per eccellenza, poiché tale è il senso proprio di questa parola, è il principio e il fondamento comune di tutti i rami, più o meno secondari e derivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni hanno fatto, a torto, altrettanti sistemi rivali e contrapposti. In realtà, queste concezioni, fintanto che sono in accordo con il loro principio, non possono evidentemente contraddirsi fra loro e, al contrario, non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda.”
Dunque riconoscere l’auctorictas del Veda diventa un’esigenza interiore, basata sulla comprensione del linguaggio spirituale dei suoi enunciati. In questo senso non può mai assumere carattere impositivo, dal momento che la strada della ricerca della Verità è frutto di una libera scelta e, dunque, frutto della persuasione. Come tale si tratta di una verità intuitiva, ma interamente da comprendere e da realizzarsi attraverso lo studio e la fede. Swami Vivekananda ci insegna che:
«Per Veda si intende la ricchezza accumulata di leggi spirituali da persone differenti in epoche differenti. Ogni anima è potenzialmente divina. Lo scopo è manifestare questa divinità interiore, controllando la natura, esterna ed interna […] in questo modo sarai libero”
Questo si può ottenere con il lavoro, con la venerazione, con il controllo psichico, con la filosofia, con uno o più di essi, o con tutti. Questo è il concetto e il senso di ogni religione. Dottrine, dogmi, rituali, libri, templi, strutture, esistono, ma sono dettagli secondari, servono per indicare una via o un percorso. Acquisendo questa consapevolezza e la conseguente conoscenza della Realtà vera, l’esistenza fenomenica, il divenire, ci appariranno come uno stato di schiavitù, come illusione e apparenza. La liberazione da questo stato esistenziale consiste nella ricerca e nello sviluppo della propria personalità, che è increata e incompiuta. La libertà dell’uomo consiste nella ricerca del Brahman o della Divinità, di cui è parte inscindibile. Pertanto il sé individuale è divino, ma questa divinità rimarrà in potenza fintanto che l’uomo non spezzerà le catene della schiavitù di un’esistenza effimera. Lo scopo del Vedanta è quello di raggiungere la libertà spirituale e la consapevolezza della propria divinità. In questo modo ci si rivolge al Divino attraverso la preghiera:
«Guidami dall’irreale al reale, dall’oscurità alla luce, dalla morte all’immortalità» (Brihadaranyaka Upanishad, 1-3.27)
Il versetto di apertura del Dhammapada, il testo più noto del Buddismo Theravada, afferma come l’influenza del pensiero e della mente siano all’origine della creatività:
“La vita di ogni uomo è modellata dalla sua mente, noi siamo (diventiamo) ciò che pensiamo”.
Conclusioni
Il concetto di libertà, per quanto suesposto, si misura sul concetto di Verità; in altre parole la libertà si può definire solo in relazione alla Verità: se per essa s’intende la Verità assoluta, allora sarà assoluta anche la libertà, se si intende una Verità relativa, allora sarà relativa anche la libertà. Da un punto di vista speculativo possiamo considerare tre ambiti entro i quali si evolve il nostro agire conoscitivo: il primo stadio, quello più in basso, è soggetto al dominio della volontà dell’uomo, riguarda il contingente e nasce dall’elaborazione legislativa e istitutiva della società, il cui campo di applicabilità è la morale. In questo ambito dobbiamo sottoporci all’osservanza di tutto ciò che si presenta come un dovere. In esso risiede la verità relativa e il pericolo maggiore è quello di incorrere nell’errore di voler collocare qualcosa di sacro e di illimitato in un ambito essenzialmente profano e finito. Il secondo stadio, il cui campo di applicabilità è l’etica, è quello entro il quale non tutto dipende dalla volontà divina, ma vi sono degli spazi accessibili e rappresentabili dalle facoltà umane, quali sono la scienza e l’intelligenza. In questo ambito subiamo dei condizionamenti più o meno influenti da parte del Divino e l’accostarci allo stato di perfezione consiste nella misura in cui li accettiamo e li meritiamo. Qui possiamo scegliere di esercitare la nostra libertà verso la Verità Assoluta o verso una Verità relativa. Il terzo stadio ha attinenza con tutto ciò che rimane al di fuori della nostra portata e riguarda gli eventi cosmici che sono avvenuti, che stanno avvenendo e avverranno nell’universo e che non sono dipesi dall’intervento dell’uomo e dalla sua volontà. In questa sfera risiede la Verità assoluta e opera la volontà di una Mente Divina. L’ambito del nostro conoscere risiede nella metafisica, nel simbolismo, nell’intuizione e non può che confluire nella fede. Dunque esistono due tipi di libertà, una esteriore e l’altra interiore: la prima ha a che fare con il contingente nel rapporto con gli uomini e con la società ed è la falsa libertà. Questa tende a soddisfare il presente e, in quanto tale, si manifesta come un evento storico relativo: l’uomo tende a conquistarsi degli spazi nell’ambito dei rapporti con il mondo terreno e con gli altri uomini; spazi che riguardano la politica e il sociale in generale. La seconda ha a che fare con la coscienza e con lo spirito nel suo rapporto con il mondo e con il Divino. Questa riguarda il singolo individuo in particolare ed è la vera libertà: l’uomo tende ad autodeterminarsi, attraverso la ricerca e la conoscenza, in vista di una maturazione spirituale. Questo tipo di libertà, nella sua tensione e nel suo sforzo continuo di ricerca della Verità, pur riconoscendosi entro i limiti razionali imposti dal Divino, è capace, attraverso uno slancio intellettuale che va oltre quegli stessi limiti, di produrre l’atto supremo ed ultimo e di pervenire alla Fede. Questa è la vera Fede, determinata dal desiderio e dalla tensione verso la Verità assoluta e da questa fermamente persuasa e non più passivamente basata sull’imposizione dogmatica.
Sandro Secci
Bibliografia di riferimento:
F. Adorno, Platone Dialoghi Politici, Utet, Torino 1988;
G. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, F.S. Pignagnoli, Sandron, Bologna 1970;
La libertà religiosa tra tradizione e moderni diritti dell’uomo, Ed. fondazione Agnelli, Torino 2002;
Marsilio Ficino, Teologia Platonica, Il pensiero Occidentale, Editrice Bompiani, Milano 2011;
Parmenide, Poema sulla natura, Bompiani, Milano 2003;
Platone, Simposio, Einaudi, Torino 2009.
René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi edizioni, Milano, 2011; Sant’Agostino, La città di Dio, Mondadori, Milano 2011;