Il Simbolismo della Guerra Santa
IL SIMBOLISMO DELLA GUERRA SANTA
Quanto vogliamo significare in questo articolo ha lo scopo di farci distinguere i due tipi di guerra che sul piano umano possono essere condotte, ovvero la grande e la piccola guerra santa. Questo dovrebbe portarci a meglio valutare, in maniera più approfondita e appropriata, quale sia la vera e giusta guerra santa per la quale valga la pena combattere. Il fine di ogni guerra, a qualsiasi livello la si voglia considerare, sia di ordine metafisico, sia di ordine terreno, ha lo scopo di ricondurre verso la pace, ovvero di ristabilire un ordine precostituito nel disordine e nel caos. Benché a prima vista questo possa sembrare contraddittorio, dal momento che anche la guerra, di per se, rappresenta disordine e caos, si tratta, tuttavia, di un disordine momentaneo. Lo scopo infatti, (e qui vogliamo evidenziare l’importanza del concetto di intenzionalità nel condurre tale battaglia) è quello di ristabilire quell’ordine e quella pace di cui prima abbiamo fatto cenno. Il termine “ricondurre ad un ordine precostituito”, da un punto di vista metafisico, sta per ritornare all’Origine, ovvero a quel Centro metafisico che nella simbologia induista viene rappresentato come “i due che sono entrati nella caverna”. La caverna rappresenta la cavità del cuore e i due di cui si parla sono il Se e l’Io, ovvero il luogo dell’unione tra il particolare e l’universale, tra l’individualità e la Personalità. Ciò che si allontana dal Centro e dall’Unità metafisica, quale luogo di armonia e di pace, separandosi crea dispersione, contrapposizione e, dunque, caos e disordine. Ricondurre all’originaria Unità e al Centro metafisico, pertanto, non significa annullare la particolarità e l’individualità di ciascuna parte e di ciascun essere, bensì annullarne la dispersione e renderle complementari e non contrapposte, valorizzandone in questo modo le differenze. Solo attraverso la complementarietà, infatti, si possono esaltare le individualità e le diversità di ciascun essere. Detto questo dobbiamo ulteriormente distinguere tra “piccola guerra santa” e “grande guerra santa”, suddividendole in due ordini, anch’essi non contrapposti ma complementari. Parleremo di piccola guerra santa quando questa venga condotta attraverso una azione e a livello umano, nell’ambito della sfera dell’immanenza tangibile e manifestata; dunque si tratta di una azione condotta dall’uomo verso il mondo esteriore a se stesso. Parleremo invece di grande guerra santa quando questa venga condotta non con l’azione e il dinamismo verso il mondo esteriore all’essere, bensì attraverso una riflessione introspettiva di confronto e di lotta interiore tra il Se universale e l’io individuale. Si tratta, pertanto, di un processo interamente interiore e spirituale. La differenza sostanziale tra i due tipi di “guerra” è che la prima agisce in una sfera in cui le parti contrapposte possono essere considerate allo stesso livello, mentre nella seconda le parti in conflitto sono, con tutta evidenza, di livelli la cui differenza è abissale. Nel simbolismo geometrico, infatti, il campo d’azione della piccola guerra santa è rappresentato su un piano orizzontale, mentre quello della grande su un piano verticale. Questa concezione la ritroviamo parimenti sia nella dottrina induista come in quella cristiana e islamica. La battaglia simboleggiata nella Bhagavad-Gita è condotta da Krishna che rappresenta il Se, ovvero la Personalità e l’universale, e da Arjuna che rappresenta l’io, ovvero l’individualità e il particolare. I due stanno sullo stesso carro da guerra, ma mentre Arjuna combatte attivamente, Krishna guida il carro e non partecipa in alcun modo al combattimento e all’azione fisica di battaglia. Un esempio di guerra interiore e della sua drammaticità lo troviamo parimenti nella vita di Gesù all’interno della comunità ebraica. Esso racconta di un conflitto riguardante la scelta di condividere il destino terreno del suo popolo combattendo i propri nemici al suo fianco, ma rinnegando così la sua natura divina, oppure quella di abbandonarlo al suo destino riunificandosi al Dio Padre, operando in questo modo il Ritorno e ristabilendo la sua natura divina. Gesù scelse la seconda ipotesi, passando attraverso un momento sublime di lotta tra sacro e profano, nella consapevolezza della disperazione in cui sarebbe caduto il suo popolo, ma anche dell’orrore e della distruzione che ciò avrebbe comportato: “Con il loglio viene distrutto anche il frumento…”. Ma Gesù, pur nella perfetta consapevolezza delle conseguenze che la sua scelta avrebbe comportato, non si preoccupò minimamente di consolare il suo popolo e di raddolcirne il proprio destino: “Io non sono venuto a portare pace sulla terra, ma per portare la spada; io sono venuto per opporre il figlio al padre, la figlia alla madre, lo sposo alla sposa”. Perciò Egli chiese ai suoi discepoli di seguirlo in questa scelta e li ammonì: “Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”. La scelta di Gesù, la sua guerra santa interiore, non lascia dubbi di sorta e ci lancia chiaro il messaggio che nessuno può esimersi dal condurre la propria guerra o di rimandarla, poiché il rimando stesso equivale alla negazione della divinità e del sacro, la cui essenza è insita nella natura umana. Anche nella dottrina islamica è necessario distinguere tra le due tipologie di Jihad. Nel Corano il Profeta Maometto ha definito “Maggiore” il Jihad spirituale e interiore, mentre ha definito “Minore” il Jihad militare. Il Jihad maggiore consiste in uno sforzo teso verso il miglioramento e la crescita individuale “Sulla via di Dio”. Pertanto si parla di lotta interiore e di conflitto verso il proprio io e i suoi limiti e verso le debolezze del peccato. Tornando al concetto di complementarietà di cui abbiamo qui sopra accennato, sorge il problema di come si possa giungere a considerare complementari due tipologie di guerra così marcatamente diverse e contrapposte, apparentemente inconciliabili tra loro. Rimanendo nell’ambito dell’Islam, ma precisiamo che questo esempio vale per tutto il contesto dell’argomento trattato, la Jihad minore o militare è l’aspetto più violento della guerra santa e l’interpretazione che la storia moderna ha dato di questo concetto è in tutta evidenza strumentale e fuorviante. Parafrasando Max Weber, nell’età del disincanto il fare leva su motivi religiosi per mobilitare le masse è la quintessenza del secolarismo. E’ del tutto evidente che si tratta di una strategia ideologica attuata da una élite di potere avvezza ad ogni astuzia e ben lontana dal principio di ossequio e devozione spirituale. ll jihad minore originariamente consisteva in una guerra esclusivamente difensiva; se per esempio l’Islam o la società musulmana fossero stati minacciati o aggrediti, ogni musulmano aveva il diritto e il dovere di difendere la propria fede, se stesso e la sua comunità, con le stesse armi dell’aggressore. La complementarietà, dunque, consiste nell’intenzionalità; concetto anch’esso già accennato precedentemente. Se consideriamo, infatti, quali siano le regole dettate dal Corano affinché una Jihad minore possa essere iniziata, il problema assumerà una dimensione ben diversa da come ci appare oggi:
- Deve essere proclamata da un leader religioso;
- Deve essere sempre difensiva;
- Prima di giungere al conflitto va tentata qualsiasi azione conciliativa;
- Gli innocenti non devono essere uccisi
- Donne, bambini e anziani non devono essere feriti o uccisi
- Le donne non devono essere violentate;
- È vietato avvelenare i pozzi d’acqua;
- Non devono essere recati danni alle proprietà dei nemici;
- I prigionieri devono essere trattati con giustizia;
Tenendo presente la definizione di Jihad come “lotta spirituale al fine di vivere nel migliore dei modi la fede islamica” e prendendo in considerazione i punti precedentemente esposti, appare assolutamente evidente quale differenza abissale scorra tra il Jihad minore inteso dal Corano e dalle parole di Maometto e l’azione militare dei tempi moderni. Dunque tutto potrebbe ridursi a un mero problema di interpretazione, ma anche qui il Corano qualcosa di importante lo dice. Nella dottrina islamica il termine “At-Ta’wil” in origine aveva il significato di “Ritorno”, o “Luogo a cui si fa ritorno”, ma è anche sinonimo di esegesi, ovvero è l’interpretazione dei testi finalizzata alla comprensione del senso delle parole. Pertanto il Versetto: “..cercano di darne (del Sacro Corano) la propria interpretazione, ma nessuno tranne Allah la conosce..” ci ammonisce sul fatto che la Parola non sarebbe accessibile a chiunque tranne a Dio (o forse a pochi che sono ispirati da Lui), ma il significato originario del termine “At-Ta’wil” è sicuramente in grado di indicarci la giusta Via da intraprendere.
Sandro Secci