La via della conoscenza e della salvezza nel darœana SāÉkhya
Introduzione
La pragmatica correlazione tra esistenza e tempo (e di converso tra immortalità ed eternità) ha da sempre portato alla ricerca di un modo per svincolare il tempo da mutamento (riscontro pragmatico nella percezione degli esseri). Tra le molteplici dottrine sorte nei secoli, l’accento è spesso caduto su diversi fattori quali la devozione personale, il potere delle prescrizioni rituali o la prerogativa salvifica della conoscenza. In quest’ultimo paradigma, ovvero nello sviluppo di una conoscenza dotata di un’essenziale prerogativa soteriologica (per ottenere appunta la salvezza dal tempo tiranno), ricade la millenaria sapienza del Samkhya. Traducibile letteralmente come “Enumerazione” , Samkhya va ad indicare uno dei sei darœana (lett. “visione”, ovvero “corrente, orientamento filosofico”) tradizionali nati in seno al brahmanesimo. L’ Enumerazione a cui fa riferimento è quella dei 25 tattva (“Questità”) ovvero principi della realtà, la cui conoscenza per l’appunto costituisce un sistema rispondente a una propria cosmologia, epistemologia e soteriologia. A differenza dello Yoga, in cui svolgono un ruolo fondamentale sia una rigorosa disciplina fisica sia la sentita pratica devozionale verso un’ Ishṭadevata (Dio personale) chiamato Ishvara (Signore), il Samkhya ripone tutte le sue aspettative soltanto sul potere della Viveka Jnana (conoscenza discriminativa), rifiutando qualsiasi possibile ruolo di divinità o delle azioni all’interno del processo costruttivo del mondo e dell’iter di liberazione dell’essere – pur non negando comunque la loro possibile esistenza al di fuori del suo ambito. Diverse innovazioni e meriti sono riconducibili a questa branca dell’ anvikshiki (Ricerca della conoscenza), ma indubbiamente una costruzione tanto imponente si è consolidata nel tempo e vanta precedenti molto più antichi rispetto alla canonica data d’inizio. In quella che Mircea Eliade non esita a definire una “Gnosi Indiana”[i], l’eminente studioso rumeno scorge l’ampliamento sistematico di una terminologia che ricorre a partire dalla Katha Upanishad (IV a.C.)[ii], e altre ricorrenti concezioni appaiono in più punti del Mahabharata (d’ora in poi MBh). Il Samkhya non risponde a questioni metafisiche, un po’ come il Buddha nell’apologo dell’uomo colpito da una freccia avvelenata[iii]: non cerca di capire se c’è una divinità oltre o no (cosa che farà lo Yoga innestandosi proprio sui presupposti teorici del Samkhya), ma si propone come mezzo per rimuovere la sofferenza dell’esistenza. Le Samkhyakarika (“Strofe del Samkhya” , d’ora in poi SK[iv]), testo chiave del darshana composto da un certo Ishvarakrishna attorno al IV sec. d.C., esplicitano lo scopo della dottrina fin dai primi versi[v]. Il samsara (trasmigrazione) è fonte di sofferenza, non è un perpetrarsi felice dell’esistenza ma un eterno ripetersi della sofferenza. L’ avidya (Ignoranza) è fonte di errore, e l’errore è causa del legame con il mondo e con il fluire delle esistenza; per contro il Samkhya è lo strumento unico dello Jnana-marga, il “cammino della conoscenza” la cui meta finale è il MokÈa (Liberazione). In questo senso, l’identificazione con la gnosi ha un grosso margine di validità, pur articolandosi in modi diversi. A differenza di quel completo mutamento ontologico propugnato da altre credenze (l’Apocalisse, per dirne una), il Samkhya propugna si fa alfiere di un processo che riscrive il tempo e la realtà intera tramite una rivoluzione copernicana che fa dell’anima non più un soggetto passivo ma un fautore attivo della propria esperienza e della sua eterna esistenza.
“L’architettura” Samkhya
Il Samkhya consta di un’architettura di venticinque tattva (principi), di cui i due basilari sono 1)Il purusha comunemente inteso come ‘l’anima’ (il principio individuale) e 2) la mula-prakrti (Natura Radice), e da quest’ultima sono derivati – in virtù dello squilibrio tra i tre guna (qualità) che la caratterizzano, ossia Sattva (purezza, essenza, luminosità), Rajas (passione, dinamismo) e Tamas (inerzia, oscurità) – gli altri ventitre principi: 3) Buddhi (‘intelletto’, luogo in cui si formano le idee, legato a otto Bhava o modi di essere), 4) Ahamkara (‘senso dell’io o egoità’, generato dalla Buddhi) che raccolto in sé vede il predominio del Rajas, mentre sotto il predominio del Sattva produce 5) Manas (mente), 6-10) i cinque Buddhindriya (‘organi di senso’ cioè occhi, orecchie, naso, lingua, pelle) e 11-15) i cinque Karmendriya (‘organi d’azione’; cioè voce, mani, piedi, ano e genitali), e sotto il predominio del Tamas produce 16-20) i cinque Tanmatra (‘elementi sottili’; cioè colore, suono, odore, sapore e tatto.) Da questi cinque si producono i cinque Mahabhuta (‘elementi grossolani’; cioè etere, aria, fuoco, acqua e terra).[vi] Questi venticinque principi della realtà servono a dare ragione del funzionamento dell’universo secondo una stringente logica di causa ed effetto che riesca a ricostruire il funzionamento e lo scopo dei diversi corpi (ad ogni livello, dal Brahman sino ad un tronco d’albero[vii], secondo SK 54). Sembra strano fornire una lista simile senza giustificazioni, ma così fanno le SK, provvedendo poi ad appianare ogni perplessità mano a mano che l’esposizione sulle singole parti avanza. Il dualismo originario tra purusha e prakrti presenta i due poli basilari dell’intero sistema con caratteristiche opposte, in una divergenza tale da renderli di per sé quasi non comunicanti.
1) Il Purusha è il centro conoscitivo e ha le seguenti caratteristiche: “a) pura presenza passiva (sakshitva), b) separazione dal processo tripartito (kaivalya), c) non coinvolgimento nello squilibrio dei tre guõa tranne che per la sua presenza (madhyasthya), d) fondazione della soggettività o pura coscienza, e) incapacità di azione (akartrbhava)[viii]. Per queste sue caratteristiche, R. Guenon non esita ad accostarlo a un principio eterno come il “Primo motore Immobile” di Aristotele[ix]
2) La Prakrti è la Natura che genera tutto tranne il purusha. Inizialmente essa è raccolta in sé stessa, unica, ma quando i principio senziente giunge nella sua prossimità, le tre qualità di essa (sattva, rajas e tamas) giungono in uno stato di squilibrio e questo squilibrio la porta a generare il resto dei tattva. Le sue caratteristiche sono l’esatto opposto di quelle del Purusha.
3) La buddhi è il primo tattva generato dalla prakrti e genera a sua volta il ‘Senso dell’io’ (vedi prossimo punto). La sua funzione, oltre alla mediazione tra purusha e prakrti (come vedremo a breve) è quella di referente della conoscenza, essendo essenzialmente determinazione, inteso come “quella facoltà che permette di dire «questo è un vaso» oppure «questo è un vestito»” [x].
4) L’ahamkara (Senso dell’Io, letteralmente ‘io facente’) è il quarto tattva, generato dalla buddhi e generativo degli altri 11 (mente, organi di senso e organi d’azione) nel suo stadio relativo al sattva e dei cinque elementi sottili nel suo stadio relativo al tamas. Dalla K XXIV leggiamo: “Il senso dell’io consiste nella presunzione; da esso si dipartono due creazioni: quella degli undici e quella dei cinque”[xi]. Il senso dell’Io è associato al termine abhimana, che implica nozioni come ‘presunzione’, ‘orgoglio’ o ‘concezione erronea’[xii]. La sua funzione è di asserzione del Sé, cioè di centro unificatore delle percezioni con il soggetto che le percepisce, base di una ‘propriocezione’ ante-litteram. Lo snodo della creazione del mondo fenomenologico risiede proprio in questo tattva, che nelle sue condizioni alterate genera gli undici e i cinque; significativamente viene attribuito proprio a questo tattva uno stato isolato caratterizzato dal rajas e non dal sattva, sostenendo che il senso dell’io sia per l’appunto essenzialmente energia passionale e dinamismo.
5) Il manas (mente/pensiero), che costituisce l’ultimo dei sensi interni, svolge la funzione di mediatore finale tra organi di senso e azione e il senso dell’io. Essa sveglia la consapevolezza dell’esperienza e svolge un primo coordinamento dei sensi, prima che i dati da loro raccolti giungano all’ahamkara e alla buddhi.
6-15) I cinque buddhindriya (organi di senso), cioè occhi, orecchie, naso, lingua e pelle; e i cinque karmendriya (organi di azione), cioè voce, mani, piedi, ano e genitali sono i restanti dieci degli undici generati dal senso dell’io caratterizzato dal sattva. Mentre i primi cinque hanno una funzione meramente percettiva, gli altri 5 invece sono responsabili del mantenimento delle funzioni del ‘corpo grosso’ (che vedremo tra poco) assieme ai cinque respiri (pancavayu).
16-25) I cinque tanmatra (elementi sottili) cioè suono, tatto, colore, sapore e odore, sono generati, ma a differenza dei dieci organi precedenti essi possono generare, e lo fanno nei 5 Elementi Grossolani (mahabhuta cioè etere, aria, fuoco, acqua e terra). I cinque elementi sottili non sono oggetto di percezione diretta, essi possono solo essere inferiti dai comuni mortali o percepiti dai deva o dagli yogin che conoscono.
Sorge spontaneo chiedersi, una volta conosciuti i principi, in quale modo essi riescono a rappresentare la totalità della realtà e a dare una via di salvezza?
La struttura della realtà
Punto di partenza è il dualismo tra un principio senziente passivo, non agente, a sé stante, e una Natura agente, matrice di ogni cosa attraverso un sistema di generazione progressivo dei suoi elementi. Questi due principi sono separati sempre, tuttavia quando il primo si accosta all’altra, quest’ultima comincia ad evolversi e a generare. Come o perché resta un enigma pure per i maestri del Samkhya, ma il suo rapporto con la prakrti è quello di una “goccia d’acqua dentro un loto” (MBh XII, 180, 23), poiché egli è il “conoscitore del campo” (Kshetrajna.) e il “testimone” della natura (sakshin). I tattva tuttavia non agiscono mai da soli, al contrario ognuno ha un suo ruolo ben preciso e forma una serie di organi complessi:
- Lo sthulasharira (corpo grosso): è l’insieme delle varie componenti che generano il corpo umano così come noi lo percepiamo. La sua struttura è composta dagli elementi grossi e quelli sottili più, elementi “di padre e madre” (ovvero liquidi seminali). Questa combinazione porta a maturazione dagli elementi un aggregato organico che cresce in tessuti sovrapposti (come riportato da Gaudapaça[xiii], i sei involucri”, uno sovrapposto all’altro sono: midollo, ossa, tendini, carne, sangue e peli ).
- Il Lingasharira (Corpo Sottile): ), composto di diciotto principi (dal terzo al ventesimo tattva dei venticinque elencati dal SÀÉkhya, cioè: buddhi, ahamkara, manas, i cinque buddhindriya, i cinque karmendriya e i cinque tanmatra). Al contrario dei corpi grossi, che essendo composti di elementi nati da padre e madre risultano essere defettibili e come tali condannati alla dissoluzione (pralaya), gli elementi sottili del Lingasharira sono fissi e come tali indistruttibili.
La funzione precipua della differenza tra i due è spiegata nel commento alla K XXXIX:
“E in mezzo a questi gli elementi che sono detti “sottili” sono immobili e permanenti. Il corpo composto da questi, essendo soggetto al Karman, trasmigra in questo modo dentro animali come belve, volatili esseri striscianti, ecc. Invece il corpo sottile, immobile, trasmigra finché non insorge la conoscenza. Giunto alla conoscenza, il saggio, abbandonato il corpo, giunge alla liberazione.”
Il corpo grosso, essendo deperibile, si sfalda, mentre il corpo sottile è quello che risente del Karma e che quindi trasmigra fino a quando non sovviene la conoscenza liberatoria. Il perché è dato proprio da alcune delle sue componenti. La Buddhi difatti ha una funzione particolare, risente anche essa dei tre guõa ed è il ponte tra la conoscenza del puruÈa e l’evoluzione della natura, è “come uno specchio a due facce, di cui l’una accoglie il riflesso dell’oggetto e l’altra invece accoglie il riflesso dell’anima”[xiv]. Come tale, la Buddhi possiede otto determinazioni (bhava), delle quali quattro legate al Sattva (Dharma ‘comportamento meritevole’, Jnana ‘conoscenza’, Vairagya ‘non-attaccamento’ e Aishvarya ‘potere’) e quattro legate al Tamas (opposte alle prime quattro, cioè comportamento immeritevole, ignoranza, attaccamento e impotenza). Essa segue le diverse direzioni a seconda della lucidità che possiede nella scelta, tenendo conto che questa lucidità di scelta viene viziata dagli eventuali semi karmici negativi che il corpo sottile si porta dietro dalla vita precedente. Come tale quindi, ciò che trasmigra è un aggregato ben preciso appunto, e lo fa in virtù del fatto che appunto è “viziato” dal karman negativo che agisce come ignoranza, impedendogli di seguire le disposizioni più consone. Il Lingasharira quindi è il “veicolo delle disposizioni acquisite (samskara) che fornisce forma alla personalità del nuovo individuo”[xv].
Ma il corpo sottile non è completamente adibito alla conoscenza, solo una parte di esso lo è, ovvero quello che è chiamato Trayodashakarana (Strumento dalle 13 parti), che corrisponde ai 3 sensi interni (buddhi, ahamkara e manas) e ai 10 sensi esterni (gli organi di senso e di azione). Questo è il vero mezzo fisico attraverso il quale avviene la percezione e l’elaborazione dei dati psico-fisici, in rapporto gerarchico perché mentre gli ultimi sono Dvara (porte), i primi tre sono Dvarin (Guardiani) di ciò che passa per gli altri. .
A partire da questi corpi e funzioni, la Natura manifesta tutte le sfaccettature che noi vediamo, ma le leggi per cui ciò accade e le modalità risiedono nei meccanismi che regolano il processo conoscitivo e quello dell’evoluzione naturale.
A) Il meccanismo della struttura conoscitiva è precisamente scandito nello “strumento dalle 13 diramazioni”, assieme alle occasioni che regolano l’insorgere dell’errore e la sua rimozione: 1) organi di azione comunicano agli organi di senso à 2) organi di senso comunicano al manasà 3) il manas unifica i dati e li riporta all’ahamkara à 4) l’ahamkara fornisce il tutto alla buddhià 5) La buddhi riflette verso il Purusha. Ma tale struttura, vista al contrario, mostra subito la causa dell’errore: (tralasciando un momento il Purusha senziente passivo, unico e immobile) L’Intelletto conosce il vaso presente, passato e futuro. Il Senso dell’Io induce a presumere l’esistenza di presente, passato e futuro, e così la Mente produce l’ideazione nel presente, passato e futuro[xvi] (in cui sono appunto suddivisi i dati dei sensi). Emerge con chiarezza che l’intera struttura conoscitiva è viziata da un errore progressivo, quello che porta dall’isolata condizione del puruÈa alla sua “identificazione” con la buddhi (che è solo un prodotto della prakrti), da questa alla fondazione della soggettività e conseguentemente alla creazione dei tre tempi (come modalità dell’esperienza) a cui sono soggetti sia la mente che il resto dei sensi. Ma la conoscenza della reale struttura delle cose, dell’originaria condizione dei due principi base della “natura” e dello “spirito” (legate con un rapporto in parte simile a quello che lega il mondo fisico e l’iperuranio delle idee in Platone), diventa in tal senso strumento di liberazione, poiché rimuove l’errore della conoscenza che porta a ritenersi come frutto esclusivo dei “2 corpi” e quindi destinati al decadimento fisico e alla trasmigrazione eterna. Quando la viveka jðāna insorge, tutto ha un senso, come fa notare SK 44:
“Dal Dharma sorge la risalita, dalla mancanza di Dharma la discesa. Dalla conoscenza la liberazione, dal suo opposto l’insorgere del legame”.
B) Pur apparendo in menzione esplicita solo in SKBh 22, la Prakṛti assume in sé tutti i caratteri della Maya divina, ovvero di quella “grande illusione” posseduta dalle divinità e addetta a perpetrare il corso delle cose per gli orientamenti devozionali. Ciò che emerge con l’acquisizione della conoscenza è che nulla ha mai afflitto l’eterno e immobile principio spirituale: la natura matrice si è evoluta in sua prossimità, differenziata ed espansa, al solo fine di poter fare insorgere la conoscenza; quando ciò è avvenuto improvvisamente si ritira “come una ballerina a spettacolo concluso”[xvii] . Come è possibile tuttavia che la natura si ritiri, che tutto “imploda” nuovamente nella sua forma indifferenziata? Sotto questo aspetto i dotti del Samkhya innalzano una costruzione concettuale dotata di una forza inaudita. Tre sono i principi che regolano la “fisica” Samkhya:
1) Tripartizione “Manifesto/Immanifesto/Conoscente”: recita SK II “Il (mezzo di conoscenza) migliore è quello che discende dal discernere ciò che è manifesto, ciò che è non-manifesto e l’agente della conoscenza”. Echeggiando le parole di Krishna in Bhagavad Gita. II, 16 per cui “non si crea ciò che non è e non si distrugge ciò che è”, il Samkhya pone come condizione base che le componenti della realtà siano o manifeste o non-manifeste, con la sola esclusione del Purusha, che è il testimone dell’intera manifestazione della natura. Non c’è nascita o estinzione delle cose, vi è solo un passaggio da una forma non manifesta a una manifesta e viceversa, ciò che scompare non è distrutto ma è solo celato.
2) Dottrina della “Pre-esistenza dell’effetto” (Satkarya): inquadra il perché e il come della tripartizione suddetta, poiché i due ordini sono visti in relazione come “causa” ed “effetto”. Recita la K 9: “Poiché l’inesistente non può essere una causa, poiché il sostrato materiale può essere scelto, per l’inesistenza della possibilità di esistere di tutto, poiché la causa è resa possibile da parte di ciò che ha la possibilità di esserlo, e perché la condizione [dell’effetto] è quella di una causa, dunque l’effetto [pre]esiste [nella causa].”. Poiché non è possibile che le cose vengano a essere dal nulla o tornare ad esso (una sorta di legge di Lavoisier ante-litteram), le cose possono soltanto divenire manifeste o non manifeste, e nel farlo rispondono a una causalità precisa: l’effetto sgorga dalla causa poiché era già contenuto in essa in forma occulta. L’importanza di questo principio, come legge universale, ha una portata incredibile. Per la stessa legge, la natura radice si sviluppa appunto in una serie di effetti che, all’insorgere della conoscenza salvifica, si comprende come in realtà siano sempre stati all’interno della natura, sempre presenti seppure non manifesti. Qualsiasi samskara (aggregato di fattori condizionati, ovvero di elementi riconducibili ai tattva inferiori) implode in sé, inclusi il tempo, lo spazio: l’estensione e il fluire del tempo sono difatti il dispiegarsi di segmenti e istanti già contenuti fin dall’inizio in un unico punto/istante originario. Sorge spontaneo un dubbio: il Samkhya intende allora suggerire che lo spazio, il tempo e la struttura delle cose è illusione, pura maya? In realtà no, è esattamente l’opposto.
3) Dottrina dell’Evoluzione (Parinama) della Prakrti: “Il mondo fenomenico, nei suoi due aspetti fisico e psichico, non è altro che il frutto di un’evoluzione (parinama) di questa prakrti o natura originale, la quale, in virtù di una forza intrinseca, divorzia dal suo stato di tensione equilibrata e si evolve in una serie di stati intermedi”[xviii]. A differenza dell’altro grande pensiero della filosofia indiana che sostiene la necessità del Satkarya, ovvero l’Advaita Vedanta di Shankara, il Samkhya non ricade nella “dottrina dell’Illusione” (Vivartavada) che valse al vedantin l’accusa di “cripto-buddhismo” da parte di altri maestri. Se si ammettesse difatti che la pluralità di mutamenti che ci circonda è pura illusione e che in realtà vi è solo un essere unico (una posizione molto simile all’Eleatismo di Parmenide e Zenone), tutto il castello del Samkhya crollerebbe, assieme alla via di salvezza propugnata. L’illusione sussiste solo nel fatto che, sotto l’errore della conoscenza, il Purusha si riflette nella buddhi e conosce quel che deriva dal dispiegarsi della natura. La prakrti per l’appunto, dotata per sua essenza di una componente attiva tramite i tre guõa, non si dispiega illusoriamente ma lo fa per davvero. In tal senso si “dispiega”, da adito alla serie di generazioni che portano alla costituzione dei corpi e della realtà tutta, e persiste fino a quando non sorge la conoscenza salvifica. Sempre realmente, quando ciò accade, il processo opposto è alla stessa maniera una serie di passaggi di forma manifesta e non-manifesta, fino a tornare alla Mula-Prakrti (come riportato con la metafora della danzatrice).
Con questi elementi e leggi il Samkhya intesse un sistema compatto che da adito di una fisica basilare, di una cosmologia “ateistica” (ma non per questo profana, anzi…), di una teoria della conoscenza e di una teodicea sorprendente matura (a partire dai presupposti del samsara e del brahman/atman alla base di ogni speculazione nata in seno al brahmanesimo). Ma qual è lo scopo ultimo e la via di salvezza che sorgono da questa visione del mondo?
Samsara e Moksha
La prima impressione, dopo tutto quello che è stato scritto, è che l’’intero sistema sia in realtà un enorme ciclo pleonastico. Se già in principio natura e spirito sono separati, a che pro la loro prossimità (improvabile poi) e tutto quel che ne segue, per poi ritornare alla loro separazione ontologica? Scrive R. Gnoli:
Se le anime sono tuttavia già libere, qual è lo scopo del darshana stesso? E il fine atteso, cioè la liberazione, dell’anima dalla natura, non è già realizzata? Verissimo. Ma quest’obiezione non tiene conto di un fatto fondamentale, vale a dire di un’illusione che non ha principio nel tempo e che consiste nel fatto che noi attribuiamo erroneamente all’anima qualità che sono in realtà della natura, o dell’intelletto. La liberazione consiste nell’eliminazione di questa confusione illusoria… Ciò che è imprigionato, e si libera non è in realtà se non la natura, la quale a un certo punto si annichila di per sé medesima… Tale ritirarsi della natura dalla scena non interessa tutte le anime ma solo l’asceta, che questo vuole e desidera. Tale anima d’ora in poi è liberata dalla legge del Karman, tutta conclusa, di là dal tempo e dallo spazio, nella sua ineffabile e totale solitudine.[xix]
Il sistema Samkhya quindi non si accontenta di ribadire una mera condizione iniziale ma, al contrario, sviluppa una conoscenza che renda conto delle due direzioni in cui il soggetto senziente, il Purusha, può conoscere la realtà e i risultati a cui portano rispettivamente la conoscenza e l’errore. Lungi dall’essere solo un pleonastico percorso di una diade già separata, il Samkhya è la conoscenza dell’ineluttabilità dell’esistenza e della sofferenza che essa comporta, se manca la conoscenza salvifica. Affinché questa conoscenza tuttavia possa svilupparsi, il Purusha è costretto a servirsi passivamente del corpo sottile (sede della trasmigrazione), del corpo grosso (veicolo di questo) e dello Strumento dai 13 volti (struttura conoscitiva). L’accostamento alla struttura della prakrti è inevitabile, così come lo è la sofferenza che questo causa quando la stessa attività dei corpi e dello strumento porta a concepire la trasmigrazione; eppure da questa stessa discesa nell’esistenza sorgono i presupposti di una conoscenza discriminativa che comporta un duplice risultato: il Parinama della Prakrti e il Kaivalya (Isolamento) definitivo del Purusha.
Letto in maniera discendente, secondo il “sentiero del Samsara”, il Purusha si approssima alla Prakrti e da questa sorgono gli altri tattva e i corpi; il corpo sottile è affetto dai residui Karmici negativi conseguenza dell’azione (negli otto bhava della Buddhi) e ciò influisce anche sullo strumento a 13 volti. Da questo, nel passaggio dalla buddhi all’ahamkara si forma la soggettività e la definizione dei tre tempi e tali fattori condizionano a loro volta, lo strumento, il corpo sottile e quello grosso fino al deperimento di quest’ultimo e alla trasmigrazione. Tramite il riflesso della buddhi nella sua componente sattva, il Purusha “conosce” la trasmigrazione e la sua sofferenza, cadendo nell’errore e nel suo rinnovarsi ciclico.
In maniera ascendente, secondo la “via del Moksha (Liberazione)”, la conoscenza salvifica porta a intuire la diversità basilare tra i due poli principali del sistema. SK LXIV riporta significativamente “quando dirà <Io non sono, Io non posseggo nulla>.” Ma come vi si arriva? L’insorgere della conoscenza porta a risalire la scala: gli elementi del corpo grosso sono perituri, quelli del corpo sottile no ma sono comunque limitati, sussunti in uno dal manas e dipendenti da un senso dell’io che li assimila secondo criteri infondati. Tramite le leggi del Satkarya e del Parinama, tutti i corpi sono solo dispiegamenti destinati a essere riassorbiti nella natura matrice, indistintamente, non appena si percorra lo stesso sentiero già accennato però a ritroso. I tattva non cessano di esistere, semplicemente tornano ad essere non manifesti, lasciando come unica manifestazione la Natura Radice.
L’intero percorso del Samkhya è un itinerario complesso, una forma di conoscenza tanto potente quanto raffinata che, al di là di quanto potrebbe sembrare a prima vista, non può e non deve essere ridotta a una mera sistematizzazione del sapere. Il Samkhya è uno strumento, un potente strumento di salvezza che sorge dalla più intima necessità di spiegare le assurdità del ciclo delle esistenze, comprenderne e giustificarne sia le dinamiche che vi portano al suo interno sia quelle che consentono di fuoriuscirne, e lo fa partendo da un’urgenza pressante per l’anima umana: come è possibile giungere all’Isolamento totale, alla pace eterna, lontano dalle sofferenze che porta con sé la materialità? Non a caso, nell’indicare il motivo per cui Purusha e Prakrti si trovano a cooperare nonostante la assoluta incomunicabilità, i maestri del Samkhya si affidano a una suggestiva metafora. La K 21 recita:
“ L’unione ha per scopo la visione da parte del PuruÈa, così pure ha per scopo l’isolamento della Natura originaria, ed è come [l’ unione] di un cieco ed uno zoppo: da qui nasce la creazione”.
Purusha e Prakrti sono come un cieco e uno zoppo che si trovano soli e dispersi in una foresta minacciata dai briganti: decidono di unire le forze per uscire assieme dall’ambiente infausto, e lo zoppo sale sulle spalle del cieco, indicando a questo la strada per uscire dalla foresta. Una volta raggiunto lo scopo i due si separano per non rivedersi mai più. Quale metafora meglio di una foresta fitta e piena di pericoli può rendere meglio l’idea di un mondo in cui, se si ignora la via, si è dannati a vagare in eterno, mentre se si uniscono gli sforzi si riesce ad abbandonare definitivamente il pericolo?
[i] Eliade, M. “Storia delle Credenze e delle dottrine religiose” (vol. 2), BUR, Milano, 2006, p. 57.
[ii] Ibid.
[iii] Majjhima Nikaya, 63 in “La rivelazione del Buddha” (2 voll.), I meridiani Mondadori, 2001.
[iv] Si abbrevierà di seguito SK per Sāṃkhyakārikā e SKBh per SaṃkhyakarikaBhaÈya (Commentario redatto da Gauçapada). Nonostante le citazioni da queste opere fondamentali siano frutto di traduzione libera dell’autore dall’originale in sanscrito, per il testo originale si fa riferimento (anche per le citazioni successive) a “Strofe del Saṃkhya”, a cura di R. Gnoli, Ashram Vidya, Roma, 1994.
[v] SK 1 enuclea che la sofferenza è un dato costante e può avere tre cause: interne, esterne, divine.
[vi] Rizzi, C. “Introduzione al Samkhya”, Emi, Bologna, 1988.
[vii] SK 54
[viii] Larson, G.J./ Bhattacharya, R.S. “Samkhya: a dualist Tradition in Indian Philosophy”, p. 81 in “The Encyclopedia of Indian Philosophies” (a cura di K.H. Potter), Princeton Legacy Library, 2001. ;
[ix] R. Guenon, “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”, Adelphi, 1992, p. 65.
[x] SKBh 23.
[xi] SK 24.
[xii] Chenchulakshmi, K. “The Concept of Parinama in Indian Philosophy”, Sundeep Prakashan, 2005, p. 64.
[xiii] SKBh 39.
[xiv] Torella, R. “Il Pensiero dell’India”, Carocci, 2007, p. 71.
[xv]Hulin, M. ”Samkhya Literature”, O. Harrassowitz, 1978. p. 165
[xvi] SKBh 30
[xvii] SK 59
[xviii] Gnoli, R. , Introduzione alle SK , p. 18.
[xix] Gnoli, R. ,“Introduzione alle SK , p. 21-22.