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Il Respiro Cosmico
Il “Respiro cosmico” fa musica.
“la geometria delle forme è musica solidificata“
Pitagora
Possiamo considerare il cosmo come un grande sistema armonico? Come una specie di grande orchestra che esegue perennemente la sua opera? Il suono è in grado di dare origine alla forma? L’astrologia esoterica ritiene di si, e afferma che esiste una corrispondenza fra i pianeti e le note musicali. I sette pianeti (esclusa la terra) Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno, vengono messi in corrispondenza con le sette note della scala diatonica maggiore secondo lo schema redatto da Rudolf Stainer (filosofo, esoterista e pedagogista austriaco) : Do – Marte, Re – Mercurio, Mi – Giove, Fa – Venere, Sol – Saturno, La – Sole, Si – Luna. Sappiamo che in numerose religioni la genesi del mondo è frutto della creazione di un Dio che si avvale di luce e suono (vibrazione) un Dio che genera per mezzo della Parola (dal Vangelo di Giovanni “In principio era la Parola. Per mezzo di essa furono fatte tutte le cose” ). La divinità, dunque, per mezzo della Voce (allo stesso modo di una potente vibrazione) ha creato tutti i mondi e tutti gli esseri in sei “giorni” e il settimo “giorno” si è riposata, sette giorni proprio come le sette note musicali. Inoltre, così come a ogni pianeta corrisponde una nota, se ne può assegnare una anche per le 12 costellazioni zodiacali. Ma in che modo questi “accordi celesti” hanno creato e creano l’universo fisico? Le ricerche del musicista e fisico tedesco Ernst Florens Friedrich Chladni, possono aiutarci nella comprensione del fenomeno della vibrazione che sembra essere la matrice generativa del cosmo. Lo studioso dimostrò come il suono abbia capacità plasmanti, facendo vibrare con un archetto di violino delle lastre di vetro cosparse di un sottile strato di polvere (o sabbia), vide che in base alla vibrazione conferita, la polvere si disponeva secondo chiare definite e ripetibili linee di forza che originavano forme, e che a ogni suono-vibrazione- nota, corrispondeva una forma.
In seguito lo studioso Hans Jenny, sulla base delle teorie di Chladni, perfeziona nella Cimatica la teoria dell’effetto morfogenetico delle onde sonore. Con la Cimatica si ha la prova che la vibrazione – il suono, crea e influenza la materia.
Ora, pensiamo alla tradizione esoterica, essa afferma che la struttura dell’universo deve la sua conformazione proprio alla vibrazione, al “Respiro cosmico” della divinità, sostiene che l’universo è regolato dall’armonia e che in esso ogni elemento possiede la propria nota-vibrazione. La fisica contemporanea sembra confermare in pieno queste visioni, pensiamo appunto alla teoria delle stringhe, alla cimatica, agli studi sul DNA. In questa prospettiva le teorie di Pitagora vengono rinsaldate e rese ancora più attuali. Ricordiamo che la musica nell’antica Grecia assumeva valenze curative oltre che contemplative e veniva insegnata insieme alla geometria, all’astronomia e all’aritmetica (le arti del quadrivio) e vi si faceva ricorso per curare le persone al fine di armonizzarne corpo e spirito. Nel VI secolo a.C, Pitagora precisò i rapporti armonici tra le note e con l’ausilio di monocorde (uno strumento composto da una cassa armonica in legno sulla quale era fissata una sola corda) e dimostrava che le note corrispondono a quote della corda e che gli armonici seguono rapporti numerici ben precisi, propri anche dello spazio che ci circonda. Ricordiamo che la nostra scala musicale, deriva proprio dalla scala pitagorica, così come anche la nostra comprensione delle armonie. Nella visione pitagorica, l’intero universo è un incommensurabile monocorde e lo studio della musica come scienza esatta sarebbe in grado di spiegare le relazioni esistenti anche fra i pianeti e le costellazioni. Egli affermava che i movimenti dei pianeti generano musica, una musica che egli chiamava “Musica delle Sfere”. Anche Platone classifica le serie di suoni musicali in corrispondenza con la serie dei corpi celesti e in più, lega ad essi l’equivalenza di un terzo elemento naturale: l’acqua, il fuoco, l’aria.. in modo da creare tante possibili terne di suono-astro-sostanza. Al filosofo indiano Sarngadeva, dobbiamo invece, la prima compiuta teoria dello zodiaco musicale, in essa ogni segno trova un suo corrispondente suono, e l’indicazione che nei nomi stessi degli astri sia velata l’armonia musicale. Sulla stessa linea si muovono le teorie dell’artista filosofo Schneider, nel ritenere che ogni pianeta abbia lo stesso suono del segno zodiacale associato al proprio pianeta:
Sole | Leone | Fa |
Luna | Cancro | Re bemolle |
Saturno | CapricornoAcquario | Mi bemolleSol |
Giove | SaggittarioPesci | Si bemolleSi |
Marte | ArieteScorpione | DoFa diesis |
Venere | ToroBilancia | MiRe |
Mercurio | GemelliVergine | La bemolleLa |
egli raggruppa le dodici costellazioni sotto i quattro punti cardinali, composte di quattro segni fissi e quattro mobili:
Segni cardinali:DO=ArieteRE bemolle=CancroRE=BilanciaMI bemolle=Capricorno | Segni fissi:MI=Toro FA=Leone FA diesis=ScorpioneSOL=Acquario |
Segni mobili:LA bemolle=GemelliLA=VergineSI bemolle=SaggittarioSI=Pesci |
Questi concetti sono stati ripresi anche da studiosi contemporanei, i quali affermano che nel nostro sistema solare ogni pianeta esegue una nota. Si tratta di frequenze molto basse e sebbene il nostro udito non riesca a percepirle, i pianeti del sistema solare eseguono una melodia che rievoca una delle progressioni armoniche più semplici e diffuse nella musica: tonica, sottodominante, dominante, tonica.
Pianeta | Nota | Intonazione | Accordatura | Ottava |
Mercurio | Do diesis | Crescente | +33 cent | ottava -29 |
Venere | La | Crescente | +10 cent | ottava -29 |
Terra | Do diesis | Calante | -31 cent | ottava -30 |
Marte | Re | Calante | -25 cent | ottava -31 |
Giove | Fa diesis | Calante | -13 cent | ottava -34 |
Saturno | Re | Crescente | +12 cent | ottava -35 |
Urano | Sol diesis | Calante | +1 cent | ottava -37 |
Nettuno | Sol diesis | Crescente | +32 cent | ottava -38 |
Plutone | Do diesis | Crescente | +26 cent | ottava -38 |
L’armonia planetaria si fonda su precise leggi fisiche che rilevano che ad ogni corpo, con un oscillazione periodica regolare, è conforme una frequenza (in oscillazioni al secondo) e quindi una precisa nota musicale. Però per riprodurre le frequenze di oscillazione dei pianeti e arrivare a frequenze udibili dovremmo avere una super-gigante tastiera di 12 ottave e dovremmo più o meno triplicare l’estensione di questa tastiera e infine accostare ad essa un pianoforte a coda reale.
Se consideriamo la musica (la vibrazione) connaturale al cosmo intero, non possiamo non osservare che l’essere umano è sia ‘creato’ dal suono, e a sua volta è creatore di vibrazioni. Ma in quale misura l’essere umano viene influenzato da queste vibrazioni? Alcuni studiosi contemporanei di biofisica esaminano come la musica agisce sul DNA. David Deamer è stato il primo a tradurre il DNA in musica, trasferendo le sequenze delle quattro unità chimiche che ne formano la molecola. Questo suono è stato ribattezzato “Il suono della vita”. Successivamente gli studi di Susumu Ohno e Marty Jabara, rivelano che le incredibili partiture vibrazionali del DNA sono fortemente somiglianti alle partiture di musicisti come Chopin o Bach. La più recente ricerca scientifica russa afferma che il DNA può essere influenzato e riprogrammato dalle parole e dalle frequenza senza sezionare e rimpiazzare geni individuali. I maestri esoterici e spirituali sanno da millenni che il nostro corpo si può programmare con il linguaggio con le parole e con il pensiero. Oggi però abbiamo le prove scientifiche di quelle intuizioni millenarie. La musica sembra davvero essere il sigillo dell’universo. Un universo tutto fatto di vibrazioni, dentro e fuori di noi. Alla luce di questi studi, l’indiscusso pregio della musica si rivela essere molto più strutturale che impalpabile nella sua capacità d’influenzare l’animo umano, di commuoverlo, di creare energia, di unire spiritualmente più persone in un rito d’ascolto, nelle sue doti terapeutiche capaci di donare benefici al corpo, all’intelletto e all’anima. L’essere umano vibra.. e in una sinfonia di suoni ritrova la sua stessa origine.
Simone Onnis
Il Campo di Forza come mezzo di Ritorno
IL CAMPO DI FORZA COME MEZZO DI RITORNO
Ultimamente mi sono chiesto in che modo i Principi che ci governano, che sono di ordine metafisico, possano avere una interazione sul piano fisico. Così mi sono reso conto che tutto quello che noi siamo arriva da una condizione precedente a quella in cui attualmente ci troviamo. In altri termini nel caso, per esempio, della energia elettrica, prima essa è stata definita e delineata concettualmente, e poi sono scaturite le sue applicazioni pratiche. La possibilità di sfruttare questa capacità ci può permettere con i nostri mezzi di raggiungere i nostri obiettivi. Partendo prima di tutto da un’analisi interiore, che ricostituisca l’anello di congiunzione tra realtà fisica e spiritualità.
A differenza del mondo animale, vegetale e minerale l’essere umano ha la capacità di pensare, e ciò gli permette di ragionare, riflettere, fare considerazioni, meditare e speculare. Questa sua capacità lo eleva al di sopra di quanto occorre solo di bisogni materiali. Eppure, questa eccezionale capacità non gli ha permesso di vivere in armonia con il suo habitat. I motivi vanno ricercati nel decadimento, così come innumerevoli miti e leggende narrano in maniera simbolica, in un momento di effrazione tra l’uomo e Dio: il mito del Paradiso di Adamo ed Eva, Iside e Osiride, il racconto di Pimandro a Ermete, la leggenda di Prometeo, la storia di Narciso. La caduta nasce quindi da una disubbidienza e da una mancata osservanza della regola, la quale sola può indicare la strada per un ricongiungimento. Un ricongiungimento assai arduo, poiché noi, parti mutilate di una sorgente originaria atemporale, siamo soggetti alle limitazioni del campo fisico e quindi anche alle limitazioni spazio temporali, che creano attrito alla ricezione del segnale puro originario, proveniente dalla sorgente. Infatti, così come un segnale sia esso vocale, sonoro a radiofrequenza o luminoso o, nel nostro caso, divino ed invisibile ma non impercettibile, per essere trasmesso, mantenere l’integrità della sua informazione ed essere intellegibile, è necessario che il ricevitore sia accordato sulla medesima frequenza del trasmettitore, e che questa venga opportunamente filtrata ed infine propagata ai tessuti cognitivi dell’individuo. Ma l’ampiezza della frequenza non è molto intensa se l’attenzione non è sufficiente, quindi è necessario evocarla e cercare di catapultarci in quel periodo primordiale in cui essa era massima, attraverso quei modelli rituali che consentivano all’uomo delle società arcaiche e tradizionali di impostare una condotta derivata dalle sue origini sovraumane e trascendentali. Ho cercato di comprendere quindi come questo potesse avvenire anche tra di noi e per mezzo di quali antiche forze.
LA DEFORMAZIONE SPAZIO TEMPORALE E I SISTEMI DI RIFERIMENTO
Manipolare la trama del tessuto spazio temporale è cosa assai ardua. Sappiamo come modificare la velocità con cui noi ci spostiamo ma metamorfosare il ritmo con cui noi ci spostiamo nel tempo è più complesso. La formula generale che lega velocità, spazio e tempo in un momento istantaneo è V = S / T . Modificando e aumentando il valore del primo membro dell’equazione precedente abbiamo quindi una ripercussione sul secondo. Gli astronauti sono un esempio di come la velocità determini cambiamenti temporali. Chi viaggia più velocemente rallenta il tempo: V=S / T moltiplicando tutto per t e dividendo tutto per v si ha T = S / V.
In sostanza per elevate velocità si ha un rallentamento del tempo. Ma abbiamo un limite, rappresentato dalla velocità della luce.
Sperimentalmente si può utilizzare un laser ad impulsi per misurare questo valore che è uno dei pochi valori assoluti rilevabili in natura. Attraverso una serie di specchi posti nel vuoto, ponendo una distanza fissa di arrivo del relativo impulso luminoso, utilizzando un oscilloscopio possiamo determinarne il tempo impiegato e quindi la sua velocità, che equivale a circa 300.000 km/s. Essa è una costante presente in tutto l’universo. Due osservatori che osservino uno stesso fascio luminoso che scandisce il tempo in senso verticale in movimento su un piano orizzontale, l’uno appartenente allo stesso sistema di riferimento del fascio e l’altro esterno, percepiranno il tempo dell’orologio in maniera differente: l’esterno percepirà una traiettoria diagonale e più corta con uguale velocità della luce. Il tempo trascorso sarà quindi inferiore per chi viaggia in orizzontale nel primo sistema di riferimento.
Tale fenomeno chiamato dilatazione temporale.
Ma esiste un altra forza che altera il tessuto spazio temporale: la massa, con la sua forza di gravità. Maggiore è la massa dell’oggetto, maggiore sarà l’influenza sul tessuto spazio temporale. Un esempio è testimoniato dalla curvatura della luce quando passa attraverso una galassia, che modificando la sua traiettoria ne modifica lo spazio tempo. La stessa deformazione si ha, anche se in maniera impercettibile, per chi si allontana dalla terra. Chi sta più vicino a essa ha un rallentamento del tempo rispetto a chi si trova più lontano; in sostanza le lancette degli orologi non sarebbero più sincronizzate tra loro. Un esempio sono le continue correzioni che si fanno sulla terra ai segnali di sincronia ricevuti dai satelliti del sistema gps.
Se le parti che generano gravità fossero veramente così dense ed avessero quindi una forza gravitazionale tale, lo spazio tempo sarebbe così distorto da generare una traiettoria non più lineare ma circolare e quindi di ritorno. Analogamente se tutto ciò si dovesse applicare al campo di forza umano si creerebbero fenomeni di estrema rilevanza in maniera direttamente proporzionale alla qualità degli esseri che vi partecipano come se questi fossero generatori.
IL CAMPO DI FORZA UMANO
La prospettiva essenziale e necessaria che si manifesta nel momento in cui un gruppo di uomini decidono di applicarsi ad una certa funzione comune è l’origine e la condivisione di un modello di ideale.
Ad esempio in politica un partito è tanto più forte nella misura in cui più grande il numero dei sui partecipanti, poiché essi stessi rappresentano la forza. Se un partito viene votato dalla maggior parte del popolo esso assume il potere e la minoranza è costretta a soccombere. Altri esempi si possono trovare nell’ambito del solidale, quando in circostanze drammatiche quali terremoti, calamità naturali, guerre e eventi catastrofici si instaurano immediatamente dei campi di forza diametralmente opposti a quelli suscitati dalle calamità, costituiti dalle associazioni di volontariato, mediche e dai gruppi di soccorso. Chi compie questi atti nobili e di grande generosità elabora un modo entro certi limiti di sentirsi elevato ed appagato ma tutto ciò non risponde alle ben più profonde motivazioni dell’esistenza di ognuno di noi, lo Scopo, poiché è esso che ci fa vivere ed è lo Scopo che definisce la nostra vera natura. La differenza tra questi modi parzialmente appaganti e la scuola di crescita che sto frequentando sta nell’essenza delle motivazioni, ossia nella ricerca del proprio stato di vita originale.
Solo lasciando da parte ogni lotta e concentrandosi sull’atomo-scintilla che sta dentro di noi, la nostra parte divina ci spinge attraverso la nostra coscienza a darci una spiegazione sul vero scopo della vita, che è quello di mettere il proprio microcosmo nuovamente a contatto con la potenza divina primordiale. In tal modo possiamo riuscire ad avere un ritorno alla foce, alla nostra essenza universale. Chi si svincola da questa strada, da questo percorso, sviluppa una totale insicurezza, e ha bisogno di ricercare obbiettivi e azioni che paradossalmente rassicurino l’instabilità generata da questo disgiungimento. Nella realtà attuale in cui questi principi sembrano sempre più perdere valore e non è più possibile confrontarsi con uomini veramente realizzati spiritualmente se non in alcuni rari casi, è difficile trovare contributi in tal senso se non di rado utili alla creazione di una società migliore, di una razza fatta di essere umani culturalmente completi.”
Anche se bisogna considerare il fatto che il nostro percorso individuale per aprirci un varco tra le rovine che ci circondano è assai più in salita rispetto a chi sin dal principio era interconnesso alla trascendenza.
Ma se noi consentiamo a questo richiamo lontano di manifestarsi nella nostra interiorità avremmo quel legame vibrazionale con la fonte. Grazie ai simboli, all’unità intesa come energia che ci accomuna in un percorso di uguale direzione e verso, possiamo fare quadrato a livello planetario per intonare la parola di Dio alla giusta frequenza tornando al punto zero.
Luca Cadoni
Le mitologie del Kalevala
Il Kalevala: un prodotto del Romanticismo finlandese e degli studi di Elias Lönnrot
«Qui abbiamo un epos nella sua forma più semplice e commovente: si tratta del ritrovamento di un tesoro senza precedenti.»19 Con queste parole Jacob Grimm20 accolse il Vecchio Kalevala nel 1845. In quegli anni la sua opinione era largamente condivisa. La prima edizione del poema, nel 1835, suscitò grande entusiasmo tra gli eruditi europei e, nel periodo di massimo splendore del movimento nazional-romantico, esso venne acclamato come un capolavoro scaturito dal genio di un’intero popolo. Elias Lönnrot,21 che aveva costruito l’opera a partire dai canti popolari, fu considerato un eroico esploratore dello spirito lirico della nazione. Il Kalevala fu giudicato un’opera paragonabile al Nibelungenlied, ai poemi di Omero e ad altri classici. Poté innalzare in un sol tratto la Finlandia al rango di Nazione civile.22 Un bel salto di qualità per un paese che era rimasto praticamente ignorato dal resto d’Europa, nel corso della lunga dominazione svedese, durata all’incirca dalla Prima crociata finlandese (1155) al termine della Guerra di Finlandia (1809), quando l’intero territorio era stato annesso all’Impero russo. Prima del Vecchio Kalevala, i finlandesi erano considerati al massimo come un esotico popolo dell’allora Granducato Autonomo di Finlandia, la provincia più occidentale del dominio zarista.
19 «Hier sprudelt nun, wenn irgendwo, lauteres Epos in einfacher und desto mächtigerer Darstellung, ein Reichthum unerhörter» ( J. Grimm 1845, p. 17).
20 Jacob Grimm (1785-1863). Lui e il fratelloWilhelm Karl (1786-1859), furono linguisti e filologi tedeschi, ricordati come i padri fondatori della germanistica. Al di fuori della Germania sono conosciuti soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca nelle opere Fiabe (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822) e Saghe germaniche (Deutsche Sagen, 1816-1818) [NdC].
21 Elias Lönnrot (1802-1884). Filologo, etnografo, poeta, medico e botanico finlandese. Divenne celebre per il suo poema epico Kalevala. Nel 1833 ottenne un posto come medico distrettuale nella località di Kajaani, nel nord del Paese, dove rimase fino al 1853. Nel 1839 pubblicò Suomalaisen Talonpojan Koti-Lääkäri (“Il medico di famiglia del contadino finlandese”) con dettagliate descrizioni della vita rurale dell’epoca. Nel corso della sua carriera fece numerosi viaggi in Finlandia, Lapponia, Carelia ed Estonia sempre alla ricerca di canti e narrazioni per integrare la sua raccolta, scrisse le sue impressioni in una serie di diari di viaggio. Soprattutto nella Carelia orientale rinvenne molte saghe che secondo lui risalivano a prima del Cristianesimo, le trascrisse e compilò una raccolta epica che potesse competere con l’Iliade di Omero. Il 28 febbraio 1835 fu pubblicata la prima versione del Kalevala (il cosiddetto Vanha Kalevala, “Vecchio Kalevala”). Dopo ulteriori approfondimenti e ampliamenti venne pubblicata nel 1849 la versione definitiva del poema, il cosiddetto Uusi Kalevala o “Nuovo Kalevala”. Nel 1840 pubblicò la Kanteletar, una raccolta di canti popolari tradizionali, soprattutto careliani. Nel 1842 fu pubblicato Suomalaisia sananlaskuja, una raccolta di proverbi finlandesi e nel 1844 Suomen kansan arvoituksia ynnä 135 Wiron arwoituksen kanssa, una raccolta di vecchi indovinelli. Trascorse gli ultimi anni lavorando al dizionario finlandese-svedese, pubblicato dal 1866 al 1880. Come botanico si occupò delle flora locale: pubblicò Flora Fennica. Suomen kasvisto (1860), una guida in tre volumi sulla vegetazione del Paese che ottenne grande popolarità e ottenne larga diffusione sia in lingua finlandese sia in svedese [NdC].
22 Cfr. Anttila 1931-1935, I, pp. 238-241; Kaukonen 1979, pp. 88-112. 24 la mitologia del kalevala
Il successo del Vecchio Kalevala portò Lönnrot a rivedere e aggiornare l’opera, fino a pubblicarne una versione molto più ampia, il Nuovo Kalevala, nel 1849, che in seguito venne definito semplicemente Kalevala, visto che il Vecchio Kalevala venne presto considerato solo l’abbozzo della seconda versione. Il Kalevala fu riconosciuto come poema epico e fu a lungo considerato una testimonianza poetica composta da canti polari intatti e genuini, o addirittura una valida descrizione del passato pagano del popolo finlandese, dei suoi usi e costumi. Per diversi anni, gli studiosi lo hanno analizzato senza operare alcuna distinzione fra l’opera di Lönnrot e i canti tradizionali su cui era basato. Questa confusione non era certo dovuta a Elias Lönnrot che, già nel 1835, nella sua prefazione al poema, aveva chiaramente ammesso quale fosse stato il proprio ruolo nell’unire i runolaulut23 originali in una struttura epica di sua invenzione. In questa prefazione egli spiegò come aveva selezionato e rielaborato il materiale e incluse persino degli elementi di autocritica.24 Fu solo nel 1885 che Julius Krohn,25 il fondatore degli studi folklorici in Finlandia, riflettendo sulla sua nuova interpretazione delle origini del Kalevala, enfatizzò il ruolo attivo di Lönnrot nella composizione dell’epos, senza però tacciare il poema d’inautenticità: «In particolare mi preme riconsiderare l’idea che tutte le vicende pubblicate nel Kalevala abbiano precisa corrispondenza nei canti popolari e nell’ordine esatto in cui appaiono nel libro».26 Ricerche successive, come le analisi di Aukusti Robert Niemi27 e Väinö Kaukonen,28 hanno chiarito, verso dopo verso, quali siano state le fasi dello
23 I runolaulut, o semplicemente runot, sono i canti popolari nel cosiddetto metro kalevaliano. Hanno una struttura ottonaria, ma diversa da quella italiana. Il verso è tradizionalmente definito tetrametro trocaico, anche se non tutti gli studiosi concordano. Stilisticamente i runolaulut sono caratterizzati dall’allitterazione all’interno del verso e da costante uso del parallelismo. La melodia, piuttosto monotona ma anch’essa variabile, segue una struttura pentatonica. I runolaulut erano cantati in un’area assai vasta, che comprendeva la Finlandia, la Carelia, l’Ingria, l’Estonia e alcune aree vicine. Oltre a canti epici, i runolaulut includono altri generi: canzoni popolari, incantesimi (loitsut), canti rituali e matrimoniali, filastrocche, poemi agiografici, storie eziologiche e miti, motivi popolari su fatti storici locali. Lönnrot ha incluso nel Kalevala runolaulut provenienti da tutte le aree geografiche in cui erano cantati, includendo sia materiali epici sia canti magici o di altro genere. Nonostante la grande variabilità dei temi trattati dai runolaulut, non è esatta l’affermazione di Comparetti che definisce il runo l’unico metro della tradizione baltofinnica. Esistono diversi generi, come gli itkuvirret e gli joikut careliani, basati sull’improvvisazione e su diverse regole compositive e melodiche. Ma nel XIX secolo l’attenzione degli studiosi e dei letterati era concentrata sui runot [NdC] .
24 Lönnröt 1835, p. LXIII.
25 Julius Krohn (1835-1888). Etnografo, professore di Letteratura finlandese, poeta, compositore di inni sacri, traduttore e giornalista. Dal 1875 fu lettore di Lingua finlandese presso l’Università di Helsinki e professore aggiunto dal 1885. Fu uno dei più importanti studiosi di runot del XIX secolo. Autore di Suomalaisen kirjallisuuden historia I: Kalevala (“Storia della letteratura finlandese I: Kalevala”, 1883-1885) e Suomen suvun pakanallinen jumalanpalvelus (“Il culto divino pagano dei popolo finnici”, 1894) [NdC].
26 Krohn 1885.
27 Aukusti Robert Niemi (1869-1931) Professore di tradizioni popolari dal 1899 al 1931. Fu anche etnografo e trascrisse canti popolari in Estonia (1898), in Finlandia, Carelia (1901 e 1904) e in Lituania (1900, 1902, 1909-1912). Scrisse i saggi Elias Lönnrotin lapsuus (“L’infanzia di Elias Lönnrot”, 1895), Vanhan Kalevalan eepilliset ainekset (“Temi epici del Vecchio Kalevala”, 1898). [NdC]
28 Väinö Kaukonen (1911-1990) Professore e studioso di letteratura, autore di alcuni tra i più rilevanti testi di critica letteraria su Lönnrot e le sue opere [NdC] .
sviluppo testuale del Kalevala.29 Gli studiosi hanno mostrato come solo il due per cento dei versi dell’intera opera fossero stati completamente inventati da Elias Lönnrot. Era dunque sostanzialmente vero: i contenuti del Kalevala si basavano su autentici runolaulut eseguiti da runolaulajat 30 e messi per iscritto da Lönnrot o dai suoi collaboratori. Ma la sintesi e l’adattamento del materiale sono un’opera originale basata sui criteri estetici di Lönnrot.31 Il focoso dibattito sull’autenticità e il valore delle fonti dell’epos ha anche portato alla rigida conclusione che il Kalevala debba essere considerato unicamente come un’opera letteraria e sia dunque un oggetto adatto ai soli studiosi di letteratura.32 Per valutare il ruolo di Lönnrot nella creazione del Kalevala sarebbe invece necessario prendere in considerazione due aspetti dell’epos. Il Kalevala è da un lato il prodotto del lavoro di ricerca e del gusto estetico di Lönnrot, dall’altro la risposta a una specifica richiesta d’ordine culturale del periodo nazional-romantico. Jouko Hautala33 ha giustamente notato che, se i canti popolari fossero stati pubblicati in forma diversa da quella epica, difficilmente avrebbero avuto un impatto culturale altrettanto rilevante sui contemporanei e sulle generazioni future.34 Il fatto che il Kalevala, in quanto raccolta di composizioni orali, non abbia i necessari requisiti scientifici per la critica delle fonti che caratterizzò la successiva ricerca inaugurata da Julius e Kaarle Krohn,35 ha aperto un intero filone di studi finalizzato all’analisi delle fonti lönnrotiane. Da questo punto di vista, i runot alla base dell’opera, trascritti a mano da Lönnrot e dai suoi collaboratori nelle loro spedizioni e in seguito scrupolosamente raccolti e catalogati nell’archivio folklorico della Società per la Letteratura Finlandese,36 sono di grande interesse per coloro che si occupano di studi popolari, di religioni comparate ed etnologia. Dobbiamo anche considerare il fatto che nella prima metà del XIX secolo i confini fra le varie discipline scientifiche erano assai diversi da quelli odierni. Nel contesto scientifico del suo tempo, Lönnrot creò il Kalevala come studioso di storia e di lingua. Egli non limitava i suoi interessi al folklore. Oggi, nel suo
29 Niemi 1898; Kaukonen 1939-1945..
30 Il laulaja, o più precisamente, runolaulaja (detto anche kansanrunoja, “poeta o cantore popolare”, runoja o, nei canti stessi, runoseppä, “fabbro di runot”) era un cantore in grado di cantare runolaulut. In genere erano comuni abitanti dei villaggi, che lavoravano come pescatori, cacciatori, allevatori, contadini, venditori ambulanti. Ma quelli più abili erano molto rispettati e onorati, anche nei villaggi lontani [NdC] .
31 Cfr. Kaukonen 1979, pp. 72, 176-185.
32 Cfr. Hautala 1954, pp. 174-197.
33 Jouko Hautala (1910-1983) Professore di tradizioni popolari e Direttore degli Archivi Folklorici della Società per la Letteratura Finlandese [SKS] [NdC] .
34 Ibid., p. 118.
35 Kaarle Krohn (1863-1933). Figlio di Julius Krohn. Folklorista, continuatore e perfezionatore del metodo storico-geografico messo a punto dal padre. Krohn è noto a livello internazionale per il suo contributo agli studi sulle tradizioni popolari. La maggior parte del suo lavoro riguarda la poesia epica che è alla base del Kalevala [NdC].
36 In finlandese Suomalaisen Kirjallisuuden Seura [SKS], che gestisce uno degli archivi folklorici più grandi al mondo [NdC] .
approccio allo sviluppo, all’analisi e all’interpretazione dell’epica baltofinnica, Lönnrot sarebbe etichettato come studioso di mitologia comparata. Ai tempi di Lönnrot la disciplina era appena nata, ma vantava già delle figure di spicco, come Jacob Grimm e Friedrich Max Müller.
Elias Lönnrot: uno studioso di mitologia?
Lo stesso Lönnrot ha più volte enfatizzato il proprio ruolo di mitologo ed espresso il desiderio che la sua opera preparasse il terreno per gli studi successivi. Nella sua introduzione al Vecchio Kalevala valutò l’opera svolta da chi lo precedette: «È certamente vero che la mitologia finnica è stata studiata, fra gli altri, da Lencqvist, Ganander e Porthan. Ma il suo studio è ancora soggetto a grandi errori in numerosi suoi aspetti».37 Di che mitologia si trattava e a quale tradizione di ricerca si riferiva Lönnrot? Nel processo di creazione del Kalevala, Lönnrot interiorizzò i punti di vista della ricerca del suo tempo. La sua prefazione all’epos include riferimenti allo studio storico e letterario della poesia popolare baltofinnica fondato da Henrik Gabriel Porthan38 e al modello storico per l’interpretazione del folklore proposto da Reinhold von Becker,39 professore di Lönnrot all’università di Turku. Lönnrot tratta anche del metodo mitologico di Christfried Ganander40 e di Christianus Erici Lencqvist,41 nonché dei metodi di organizzazione dei poemi e dei motivi delineati da Zachris Topelius il Vecchio.42 L’opera di Henrik Gabriel Porthan riuscì a creare un forte interesse scientifico per la poesia popolare baltofinnica. Nonostante fosse uno storico, infatti, si occupò particolarmente di folklore. Nella sua opera De Poësi Fennica (1766, 1778), evidenziò il valore estetico dei runolaulut e la loro importanza per la lingua finlandese: «Ai
37 Lönnrot 1835, p. XIII.
38 Henrik Gabriel Porthan (1739-1804). Figura centrale fra gli intellettuali finlandesi del XVIII secolo. Professore di retorica a Turku e fondatore di «Aurora», una società segreta che riuniva scrittori e musicisti patriottici. I membri erano interessati alla poesia, storia, lingua e geografia finlandese. La società pubblicò «Tidningar Utgifne Af et Sällskap i Åbo», la prima rivista culturale finlandese in lingua svedese, in seguito chiamata semplicemente «Åbo Tidningar». Fra il 1766 e il 1778 scrisse e pubblicò in cinque volumi la tesi di dottorato De Poësi Fennica: il testo analizza a fondo le caratteristiche stilistiche dei runolaulut. Porthan aveva trascritto molti runot da lui analizzati [NdC].
39 Reinhold von Becker (1788-1858). Scrittore e studioso di lingua finlandese. Nel 1824 pubblicò la prima grammatica dei dialetti orientali della Finlandia. Cfr. von Becker 1820 [NdC]
40 Christfried Ganander (1741-1790). Sacerdote, erudito, lessicografo e cultore di tradizioni popolari. Compilò il primo lessico finlandese. Fu precursore del lavoro svolto da Elias Lönnrot nella raccolta di materiale folklorico. La sua opera più famosa è Mythologia Fennica, pubblicata nel 1789. Questo libro costituisce un punto di riferimento per gli studi sulla religione popolarea. Pubblicò inoltre alcune poesie e lezioni [NdC]. Cfr. Ganander 1789.
41 Christianus Erici [Kristian Eerikinpoika] Lencqvist (1761-1808). Pastore e studioso di lingua, mitologia e storia finlandese. La sua tesi fu uno dei primi studi scientifici sulle credenze popolari in Finlandia [NdC]. Cfr. Lencqvist 1982.
42 Zachris Topelius il Vecchio (1822-1831). Uno dei primi studiosi a trascrivere e pubblicare canti popolari finnici. La grande abilità di Jyrki Kettunen, un runolaulaja della Carelia del Mar Bianco che lo venne a trovare a casa nel 1821, lo convinse che i canti migliori andassero trascritti proprio in Carelia orientale. Spinse dunque gli etnografi a recarsi in quella regione. Suo figlio fu un celebre scrittore.
giorni nostri, solo pochi hanno compreso la natura e il processo di sviluppo della nostra poesia popolare nella sua interezza. Molti eruditi del nostro Paese hanno poca dimestichezza con il fascino del metro poetico della poesia popolare».43 L’incoraggiamento di Porthan alla raccolta e alla preservazione della tradizione portò allo sviluppo dei primi archivi folklorici. Porthan stesso studiò le basi rituali dei canti magici o loitsut44 e arrivò alla conclusione razionalistica, tipica di un uomo dell’Illuminismo, che i loitsut fossero un prodotto dell’ignoranza superstiziosa del popolo: «Nessun genere di poesia popolare è più celebre dei cosiddetti loitsut, che gli stolti ritengono pieni di potere magico, a causa di gente più cieca dei vegliardi che ha messo nelle loro teste strane idee su forze nascoste e meravigliose».45 Uno studio successivo, il De superstitione veterum Fennorum theoretica et practica (1782), evidenziò basi più solide per lo studio dei loitsut. Era la tesi di dottorato di uno studente di Porthan, Christianus Erici [Kristian Eerikinpoika] Lencqvist, il quale si era ispirato agli studi svolti dal padre, Erik Lencqvist.46 La critica dell’Illuminismo nei confronti delle pratiche religiose popolari è altrettanto evidente in quest’opera: Ebbene, descrivere i sacri costumi di ogni popolo si differenzia assai poco dall’enumerare trivialità e dall’intrecciare una lunga catena delle più sciocche fiabe. Imbarcarsi in questo strano sforzo potrebbe sembrare cosa poco degna di apprezzamento. Ciò nonostante, poiché tutte le conoscenze storiche sono affascinanti e sugli antichi costumi non vi è praticamente studio alcuno da cui gli interessati in vetusti fatti possan trarre vantaggio, credo che il mio tentativo di portare alla luce del sole la teologia e la stregoneria degli antichi finlandesi, anche se basata sul volgare credo nella magia, sarà bene accetta agli amici della cultura letteraria. Ai giorni nostri, tutti i popoli civilizzati hanno fatto un grande sforzo per ricostruire l’immagine della loro èra pagana.47 Presentando i loitsut e i miti, Lencqvist esaminò anche le credenze e i costumi su cui essi si fondavano, definendoli “teologia” e “superstizione teoretica”. L’Illuminismo tendeva a spiegarli come “errori dello spirito umano”. Tuttavia Lenqvist era in grado di chiarire quale fosse il sistema culturale e religioso connesso all’essenza dei canti magici. Christfried Ganander, studioso e cappellano della parrocchia di Rantsila nell’Ostrobotnia settentrionale, influenzò notevolmente gli studi e il lavoro di Lönnrot …
43 Porthan 1983, p. 37.
44 I loitsut sono sia brevi formule magiche sia lunghi incantesimi, cantati o pronunciati con particolare veemenza o in trance. I loitsut erano composti in metro kalevaliano, quindi rientravano tradizionalmente nell’interesse degli studiosi o raccogliotori di runolaulut [NdC] .
45 Porthan, 1983, p. 88.
46 Erik Lencqvist. Docente all’Accademia di Turku a partire dal 1745. Nel 1773 divenne il pastore di Orivesi. Fece parte della società segreta «Aurora» e pubblicò sul giornale «Åbo Tidningar». Si interessò molto ai dialetti finlandesi e alla situazione economica del paese …
L’ETICA DELLA LIBERTA’ SECONDO LA TRADIZIONE OCCIDENTALE E ORIENTALE
ALLEGORIA DELLA LIBERTA’
L’ETICA DELLA LIBERTA’ SECONDO LA TRADIZIONE OCCIDENTALE E ORIENTALE
L’essere umano è creatura incompiuta; è questo il senso trascendente del dono divino della libertà.
La Sophia Perennis dimora immobile nel Centro, in cui tutto si conforma nella sintesi unitaria del Principio. E’ il luogo dove tutti i dualismi, i punti di vista e le distinzioni, contingenti, particolari, personali e individuali, svaniscono e si fondono nell’Origine e nella sintesi dei complementari, nella Conoscenza universale. Qui dimora, immobile e immanifestata la Verità, Origine dell’essere mobile manifestato:
“Il suo punto di vista è un punto da cui questo e quello, si e no, appaiono ancora non distinti. Questo è il cardine della norma, è il centro immobile di un cerchio sulla cui circonferenza ruotano tutte le contingenze, le distinzioni, le individualità, da cui non si vede se non un infinito, che non è né questo né quello, né si né no. Vedere tutto nell’Unità primordiale, non ancora differenziata, o da una tale distanza che tutto si fonde in Uno: questa è la vera intelligenza” (Tchoang-tseu)
Saggio è colui che compie il percorso di ritorno verso questo Centro immobile e immanifestato.
Il concetto di libertà secondo il cabalista Rabbi Loew (il Maharal) è lo stesso che troviamo nel De Hominis dignitate di Pico della Mirandola e nelle enunciazioni del Veda nella dottrina induista. Nel testo della Genesi non è scritto che l’essere umano è migliore di altri esseri, poiché tutti gli altri esseri sono stati creati perfetti nella loro natura. Solo l’uomo non è creatura compiuta, ma è una sintesi instabile e oscillante tra il finito e l’eterno. La compiutezza dell’uomo consiste nel movimento verso la produzione in permanenza della propria perfezione. Così come nel cosmo gli astri si muovono perpetuamente e il loro movimento è la loro perfezione, così è per l’essere umano, che non è stato creato all’inizio come un essere in riposo, perfetto nel suo compimento. Lo sforzo perpetuo verso la perfezione e verso il riposo consiste nel permanente passaggio dalla potenza all’atto. E’ proprio l’imperfezione dell’essere umano, dice il Maharal, e il suo inquieto movimento a farlo simile ai cieli e infine a renderlo libero, capace di decisione e di mutamento. Oggi sentiamo parlare di libertà molto più frequentemente che nel passato e con grande enfasi, benché se domandassimo all’uomo della strada come ne intenda il significato, non saprebbe darci una chiara definizione, né saprebbe dirci cosa stia realmente cercando. In definitiva egli tenterebbe di chiarirne il significato sotto un aspetto condizionato e dipendente da fattori contingenti, esteriori e materiali, quindi quantitativi, scollegati completamente da una realtà spirituale interiorizzata, la cui determinazione non può che essere qualitativa. Uno dei fattori determinanti di questo smarrimento spirituale è l’ascesa arrembante della scienza moderna e della tecnologia. La cosiddetta globalizzazione riflette solo un’apparente unità, che non ha portato ad una connessione intima tra spirito e ragione. Ha deluso ogni aspettativa di felicità e di cooperazione e non è mai stata capace di ridurre gli antagonismi e i conflitti sociali. A tal proposito il russo Maksim Gork’ij, considerato il fondatore del realismo socialista, ci racconta che mentre magnificava le meraviglie della scienza e delle invenzioni tecniche di fronte a una folla di contadini, venne rintuzzato con le seguenti parole:
«Sì, siamo stati capaci di volare in aria come gli uccelli, e di nuotare nell’acqua come pesci, ma non sappiamo come vivere sulla terra…»
Il concetto di libertà per i moderni ha assunto significati sempre differenti che hanno subito adattamenti, spesso opportunistici, e condizionamenti di carattere storico culturali e contingenti. In questo contesto il concetto di libertà, nel suo concretizzarsi e porsi in atto, non può mai definirsi attuale, in quanto si presenta sempre inadeguato a soddisfare pienamente perfino le esigenze materiali. Paradosso, questo, che viene chiaramente messo in risalto in un aforisma di Oscar Wilde, il quale recita in questo modo:
“Al mondo vi sono due tragedie: la prima è quella di non ottenere ciò che si desidera, la seconda è quella di ottenere ciò che si desidera”.
Questo tipo di concezione pone la libertà come oggetto di conquista, da realizzarsi progressivamente secondo un disegno fondato su un certo tipo di moderna concezione meritocratica. Il risultato, in questo modo, è strettamente connesso a fattori il cui valore intrinseco è prevalentemente quantitativo. In questo contesto la libertà può essere definita come una conquista sociale, ma al contempo e per le stesse ragioni, può subire limitazioni o essere perduta del tutto. Una simile visione proietta l’uomo verso una esistenza antagonista e concorrenziale, basata esclusivamente su un progetto di vita materiale ed esteriore. Il risultato è che il rapporto uomo-società-divinità assume caratteri di tipo conflittuale, creando una contrapposizione fra autodeterminazione ed oggettivazione, fra particolare ed universale e, pertanto, un antagonismo dell’uomo contro l’uomo, del singolo contro la società e della società contro il singolo.
“Dov’è la vita che abbiamo perso, vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?
I cicli del paradiso in venti secoli
ci hanno portato lontano da Dio e più vicini alla polvere”
(T.S. Eliot, The Rock, 1934)
Nella concezione che emerge dalla Tradizione, sia orientale che occidentale, la libertà non si realizza attraverso un percorso del singolo fatto di conquiste sociali, ma si fonda su un valore trascendente che pone il suo essere come un dono, di ascendenza divina. A questa condizione essa non può fondarsi da sé e non vi è necessità di conquista, ma è fondamentale che dal quel singolo venga riconosciuta nella sua intima connessione e nel suo radicamento nella dignità di una fede, anch’essa di ascendenza divina. Il libero arbitrio, allora, consiste nel riconoscere e nell’accogliere la libertà come un dono divino, nel senso che essa, quando è concepita e assunta come tale, diviene il legame inscindibile dell’uomo con la sua Origine e gli indica il giusto percorso del Ritorno. Tuttavia questo rapporto non distoglie l’uomo dalla sua responsabilità che, anzi, ne viene rafforzata e diviene doppiamente impegnativa: verso l’Origine divina ad un tempo e nel rispetto della dignità altrui, all’interno della famiglia e della società, nell’altro. Da un punto di vista esistenziale ne consegue un differente concetto di meritocrazia, ovvero che l’individuo e la società vengano intesi non come valori antagonisti ma complementari, gerarchizzabili tra loro solo da un punto di vista spirituale. La libertà è, infatti, un dono che riguarda tutti, nel senso che nessuno viene escluso ed è, per questo, universale; ma non è infrapponibile, in quanto per potersi realizzare deve essere riconosciuta e accolta individualmente. Solamente attraverso queste coordinate tradizionali si può comprendere e accogliere il vero senso e la grandezza del dono trascendente, esistenziale e spirituale della libertà. Pertanto essa non può essere influenzata da fattori provenienti dal mondo esterno, quantitativo e profano, ma deve essere presente originariamente nella propria coscienza e deve costituirsi e rafforzarsi con l’azione della ricerca, che vuol dire desiderio e tensione continui verso la Luce spirituale, la quale rappresenta la Saggezza e la Verità. Non è libero, anche se eticamente irreprensibile, colui che rinuncia alla ricerca, dispensando se stesso da tale fatica e, soprattutto, dalla responsabilità che tale impegno richiede ed impone. Dunque la vera libertà nasce e si attua in correlazione con la responsabilità della scelta, della decisione e della verifica nelle acquisizioni dei concetti, in vista degli obbiettivi armonizzanti che ciascun uomo veramente libero deve porsi nella sua risalita verso la qualità della Conoscenza. Da questo punto di vista, un tentativo di definizione del concetto non può prescindere dall’essere considerato su un piano ontologico, astratto ed universale, ovvero ideale in senso platonico.
“La Tradizione non si può ereditare, e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica“
(T.S. Eliot)
La libertà nel mondo classico
Per Platone la libertà, come la giustizia, la virtù ecc., è un ideale e, pertanto, non è mai raggiungibile in assoluto ma è tensione continua verso la sua conquista, compiuta coscientemente dal soggetto pensante attraverso la fatica della ricerca e dell’apprendimento. Ciò che muove e stimola la ricerca e il desiderio della libertà, è amore: il tipico concetto platonico dell’Eros. La felicità, infatti, non consiste nel raggiungimento della meta, ma piuttosto nello sforzo continuo e cosciente della ricerca, compiuta dal ricercatore. La coscienza, in questa forma di tensione, è un fattore determinante nell’attuazione del libero processo conoscitivo: essa viene definita in etica come la capacità soggettiva di distinguere il bene dal male; in psicologia è l’attenzione sulle percezioni, sui pensieri e sui sentimenti in atto; in filosofia è la consapevolezza che l’uomo ha di sé e della propria identità, del rapporto di sé col mondo esterno. Il rapporto che si stabilisce tra l’uomo e l’essere in sé e tra gli uomini associati nella comune ricerca, è un rapporto che non è solamente intellettuale, in quanto impegna la totalità dell’uomo e quindi anche la sua volontà: solo chi ama si pone in una dimensione di ricerca, in quanto desidera conoscere. Uno dei caratteri fondamentali dell’Eros è l’insufficienza: da questo prende lo spunto Socrate in uno dei Dialoghi platonici, e sentenzia che l’amore desidera ciò che non possiede; è quindi mancanza e insufficienza (penìa). Il mito, infatti, lo dice figlio di Penìa (Povertà) e di Poros (Espediente); come tale esso non è un dio, ma un demone; perciò non possiede la bellezza e il bene, ma li desidera, non ha la sapienza, ma aspira a possederla. Nel Simposio Platone fa dire a Socrate per bocca di Diotima:
Socrate: “Ma chi sono dunque, Diotima, quelli che si impegnano nella ricerca e nella sapienza, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?”
Diotima: “Sono quelli che si trovano a metà strada tra questi due estremi, tra i quali deve trovarsi anche Eros. La sapienza infatti si colloca nel novero delle cose più belle ed è al bello che Eros si volge; da ciò deriva, di necessità, che amore è amante della sapienza, è una via di mezzo tra l’uomo sapiente e quello ignorante. La causa della presenza in lui di questi due diversi aspetti va ricercata ancora nella sua nascita: suo padre infatti è sapiente e abbonda di risorse intellettuali; sua madre invece non è sapiente ed è sprovvista di risorse. Ecco dunque caro Socrate qual è la natura di questo demone.”
Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l’uomo può elevarsi solo attraverso un lungo e lento percorso. Il primo grado è esteriore ed appartiene al corpo che alletta e attrae l’uomo; poi egli si accorge del carattere effimero, così impara ad amare la bellezza corporea in quanto tale. Ma al di sopra di questa c’è la bellezza dell’anima; ancora più in alto la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze; infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, l’idea eterna e immutabile, perfetta, superiore al divenire e alla morte e origine di ogni altra bellezza. Essa funge da mediatrice fra l’uomo decaduto e il mondo delle Idee; e ad essa l’uomo risponde con l’amore, che è desiderio. Quando l’uomo risponde al richiamo della bellezza allora questo si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere. In questo modo diviene nello stesso tempo ricerca dell’essere in sé e unione amorosa delle anime nell’apprendere e nell’insegnare. E’, quindi, psicagogia, guida dell’anima attraverso la mediazione della bellezza, verso il suo vero destino. E’ arte della persuasione e vera retorica, che non è, come sostenevano i Sofisti, una tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto, ma è conoscenza dell’essere in sé e, nello stesso tempo, conoscenza dell’anima. Come tale distingue le specie differenti delle anime trovando per ognuna di esse la via giusta per persuaderla e condurla all’essere:
“Quando l’anima affissa i suoi sguardi su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, subito comprende, conosce e sembra che possegga intelligenza: ma quando si rivolge a ciò che è pieno d’ombra, su ciò che nasce e muore, altro non ha se non opinioni e vede oscuro e tira a indovinare, e somiglia a chi non abbia intelligenza. Ciò che, dunque, spande la luce della verità sulle conoscenze acquisite, ciò che da all’anima la facoltà di conoscere, di pure che è l’idea del Bene. Essa è il principio della scienza e della verità, in quanto appartengono all’intelligenza, ma per quanto belle siano – la scienza e la verità – l’idea del Bene ne è distinta e sarai nel giusto se la riterrai di gran lunga più bella. E come nel mondo visibile è giusto credere che la luce e la vista abbiano una qualche analogia col sole, ma sbaglieremmo se le prendessimo per il sole stesso, così nel mondo intelligibile è giusto credere che la conoscenza e la verità siano simili al sole, ma sbaglieremmo se le credessimo lo stesso Bene: ancor più in alto è da porsi il Bene.” (Platone, Repubblica)
Dunque per i Greci libertà è sinonimo di ricerca. L’uomo è “animale ragionevole” e possiede la capacità razionale, che vuol dire cercare in modo autonomo. Il fine della ragione è la libera ricerca della Verità; ma in questo senso, a sostanziale differenza dei moderni, essi attribuiscono alla ragione una potenza superiore, capace di indagare e riconoscere le “cose ultime”. Il riconoscere non è però inteso come conoscenza inconfutabile, in quanto non si pretende di conoscere l’inconoscibile attraverso un atto di supremazia razionale e intellettuale, ma lo si pone come “ciò che è necessario, ciò che è e non può non essere”.
Eraclito è il primo vero filosofo della ricerca: la natura dell’uomo, in quanto dotato di ragione, impone la ricerca della verità, infatti questa “ama nascondersi” e aggiunge: “i cercatori d’oro scavano molta terra, ma ne trovano molto poco”. Ma nonostante la consapevolezza dei propri limiti egli vede ampliarsi davanti a se un vasto orizzonte di aspettative:
“Se non speri non troverai l’insperato, introvabile essendo questo inaccessibile.”
La prima condizione della ricerca è che l’uomo “indaghi se stesso”, che guardi dentro di sé e nel proprio infinito mondo interiore:
“Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda la sua ragione” .
La seconda condizione è la comunicazione fra gli uomini: ciò che accomuna gli uni agli altri e, nello stesso tempo, costituisce la più intima essenza dell’uomo singolo è il “Logos”, il pensiero. Il logos rappresenta il filo comune che unisce gli uomini “desti”, aperti alla comunicazione tramite la ricerca; la stessa che determina l’indole dell’uomo (ethos) e, conseguentemente, il proprio destino. Il cercare qui assume un doppio significato nel suo volgere verso la conoscenza, in quanto non ha solamente valore contemplativo (noesis), ma diviene anche saggezza di vita e di comportamento (fronesis). Anassimandro si pone per primo il problema di cercare una risposta razionale sul modo in cui avviene il processo di derivazione dall’origine e lo indica nella “separazione”. L’atto della separazione si realizza nella nascita, la quale attuandosi implica la separazione dall’Essere Originario. Essa dunque è una rottura dell’Unità e dell’armonia, dalla quale si separano gli opposti che in essa si compongono: caldo e freddo, secco e umido, finito e infinito, ecc.. Questa separazione, o nascita, secondo Anassimandro, è dovuta ad una colpa che si dovrà espiare vivendo. Tale colpa consiste proprio nell’atto della separazione, inteso come rottura dall’Unità, che solo con la pena del vivere potrà essere espiata, per concludersi infine con la morte ed il conseguente ritorno ad essa. Il ritorno al Principio creatore è, perciò, opposizione, lotta, discordia, bisogno di ricongiungere il dissonante all’armonico, il discorde al concorde, l’incompleto al completo, poiché solamente dalla riunificazione degli opposti scaturisce l’Unità, mentre dall’Unità scaturiscono gli opposti. La teoria sulla realtà fisica di Parmenide di derivazione pitagorica, si basa anch’essa su un dualismo, quello del limite e dell’illimitato, che egli converte nel prodotto della mescolanza e della lotta della luce e delle tenebre. Altro interessante contrasto che viene posto nella filosofia di Parmenide è quello tra Verità e apparenza. Due sole vie di ricerca si possono concepire:
“L’una dice che l’essere è e non può non essere, e questa è la via della persuasione perché è accompagnata dalla verità. L’altra dice che l’essere non è ed è necessario che non sia; e questo, ti dico, è un sentiero del quale nessuno può persuaderci di nulla. Perciò un solo cammino resta al discorso, che l’essere è”.
Dal pitagorismo deriva anche la convinzione di Parmenide che solo con il rigore della ricerca l’uomo può pervenire alla Verità. I versi con cui si apre il poema “Il viaggio verso la verità”, evidenziano in tutta la loro forza la propria convinzione iniziatica, la quale trova la via della persuasione solo nella potenza indagatrice della ragione, dal momento che i sensi si fermano all’apparenza:
“Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere/ mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose/ che appartiene alla divinità e che porta in tutti i luoghi l’uomo che sa./ La fui portato. Infatti la mi portarono accorte cavalle/ tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via…”
E poi continua:
“…E la dea di buon animo mi accolse e con la sua mano la mia mano destra/ Prese, e incominciò a parlare così e mi disse:/ – O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,/ rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere/ questo cammino (infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini)/ ma legge divina e giustizia./ Bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della ben rotonda verità/ e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza./ Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono/ Bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso.”
Cattolicesimo e libero arbitrio
Il Cattolicesimo apparentemente sembra escludere il principio della libera ricerca, tipico della tradizione greca, in quanto insiste nell’accettazione di una rivelazione o di una verità testimoniata dall’alto di una autorità. Ma la realtà, per chi voglia approfondirne il senso è differente: il Cristianesimo, a nostro modo di vedere, non si contrappone affatto alla tradizione greca, ma la completa nel suo percorso di determinazione, ovvero nel principio conclusivo della verità cercata. Tale percorso è stato evidente nei primi secoli dell’era cristiana. I primi padri della chiesa, denominati apologisti, cercarono di sistematizzare la dottrina cristiana attingendo ampiamente dalla speculazione greca e pagana molti dei concetti su cui basare i propri capisaldi. Essi tennero ad affermare e a giustificare la continuità del Cristianesimo con il pensiero greco ed in particolar modo con l’ultimo periodo di quella speculazione, improntata prevalentemente sul problema spirituale e religioso. In primo luogo si sostenne l’universalità divina del Logos o della Ragione, attingibile da tutti gli uomini e si affermò, per conseguenza, la necessità di unità tra filosofia e religione. La ragione sarebbe inutile se l’uomo non potesse scegliere tra il bene e il male e, dunque, non appena egli si ponesse il problema e si domandasse in che modo vada inteso il significato della Verità (intendendola come Verità nel suo valore assoluto) per giungere ad esserne veramente e interamente coinvolto nel significato della propria esistenza, l’esigenza della ricerca si ripresenterebbe in tutta la sua forza. La ricerca, pertanto, nasce e viene rafforzata dal bisogno di religiosità dell’uomo, dalla necessità di indirizzare la propria vita spirituale verso la Verità assoluta, fosse anche quella rivelata. Si sostenne, pertanto, la superiorità della conoscenza sulla fede, in quanto la conoscenza ricomprende in sé anche quest’ultima. Le Sacre Scritture contengono soltanto degli elementi minimi sui quali porre le basi di un percorso conoscitivo, che si trova ben al di sopra del Vangelo storico e conduce verso un Evangelo spirituale ed eterno, posto al di la del tempo e dello spazio, in grado di abbracciare non solo tutta l’umanità, ma l’universo intero, ma che soltanto a pochi è dato di intuire e di conoscere. L’atteggiamento speculativo è rivolto a chiarire il significato autentico della propria vita interiore; ovvero si intende chiarire il significato del rapporto del proprio io e della propria anima con il Trascendente. Ne “Le confessioni” di Sant’Agostino la tematica centrale è il rapporto diretto tra Dio e l’uomo e in particolare di come l’uomo, che cerca la felicità e dunque la Verità, (secondo quanto insegnato dalla filosofia greca) per conoscere Dio non si possa ricorrere alla sola ragione ma si abbia bisogno anche del sostegno della grazia divina e, quindi, della fede. La dottrina e la scuola di pensiero a cui Agostino fa riferimento è quella neoplatonica ed in particolare si basa sulla personalità e sull’insegnamento mistico di Plotino. Agostino viene chiamato il Platone cristiano, non tanto per motivi di affinità dottrinali, ma in quanto intende richiamarsi all’esigenza della ricerca, che fu tipica del pensiero platonico e neoplatonico, ponendola come presupposto e rinnovandola nello spirito cristiano. La ricerca non è unicamente esigenza della ragione, ma è esigenza introspettiva, di conoscenza interiore, che nella ragione deve fondare la sua disciplina e il suo rigore. Dunque la fede è il frutto e il fine della ricerca, e come tale è libertà che al di fuori del suo presupposto non sarebbe in grado di scorgere alcuna Luce. Nella fede la libertà trova il suo rafforzamento e il suo arricchimento ed allo stesso tempo ne è la sua condizione. Per Agostino, come per gli antichi greci, la ricerca implica un impegno totale dell’uomo, non solo intellettuale, ma anche di volontà (noesis e fronesis). Essa impone il rigore della verifica dei concetti da acquisire, non li elude e non li evita, ma li affronta e li considera incessantemente nella loro difficoltà, tendendo verso il loro chiarimento e verso la Verità, che anche secondo la parola evangelica è: “la Via e la vita”. Tuttavia si tratta di una scelta e, dunque, di una condizione di libertà di colui che la attua. La ricerca di Agostino viene condotta con il riconoscimento dei limiti imposti dal divino alla ragione stessa, ma egli non si arrende e non si ferma di fronte al dubbio e al mistero, ma pone questi limiti come base e punto di riferimento, fortificandoli con la persuasione della fede, per spostare sempre in avanti i limiti della conoscenza. Questo presupposto è già, dal punto di vista di Agostino, un primo fondamento di libertà e di certezza: la Verità è trascendente ma allo stesso tempo è presente nella dimensione interiore e introspettiva dell’uomo che la cerca liberamente. Lo sforzo intellettuale e filosofico si trasforma in umiltà religiosa e giunge alla fede. La libertà e il bisogno della ricerca appaiono come grazia, come una concessione e un dono di Dio. Nel libro “La città di Dio” l’uomo singolo viene posto di fronte ad un’alternativa: indirizzare la propria esistenza verso una dimensione introspettiva e spirituale, ovvero impostando la propria vita nella ricerca di Dio, oppure scegliere di vivere nella cosi detta “città terrena”, raffigurata come il regno della carne. La città terrena ospita coloro che sono dominati dalla sete di dominio verso il prossimo, mentre nella città celeste si vive nell’armonia dello spirito di solidarietà e nel rispetto dei doveri sociali. A distinguere l’esistenza e la differenza tra le due città non vi è alcun segno caratteristico esteriore. Esse sono invisibilmente accessibili e fanno parte della storia dell’umanità fin dal suo inizio e lo saranno fino alla fine. Solo attraverso una riflessione spirituale, umile e sincera, ognuno potrà individuarle e potrà scegliere di quale città essere dimorante.
Dignità e libertà nell’Umanesimo
La concezione del mondo, nella cultura tipica dell’Umanesimo, sta nella ricerca dei valori umani permanenti, mediante lo studio e la riscoperta degli antichi saggi.
Al centro di questa nuova concezione vi è un progetto di ricostruzione dell’uomo, di natura prevalentemente spirituale e religiosa, tendente a stabilire il suo ruolo e con esso il determinarsi del suo rapporto con il mondo e con il divino. Significa, altresì, definire la sua collocazione al cospetto del cosmo, divenendo un rapporto agente in una posizione intermedia tra il mondo materiale e la perfezione divina. In altri termini l’uomo, riprendendo l’antica tradizione ermetica, è in grado di stabilire la propria identità, ovvero la propria essenza, ponendosi in rapporto tra ciò che è “fuori da sé” e ciò che è “dentro di sé”; divenendo egli stesso un rapporto nell’ambito di tali rapporti. Stabilire la propria collocazione rispetto al cosmo, pertanto, significa determinare anche il proprio ruolo e il proprio ambito di libertà e di movimento nella ricerca e nella conoscenza. Marsilio Ficino occupò gran parte della propria breve esistenza nella traduzione di testi classici proprio nel tentativo di dimostrare, attraverso un arcaico percorso che va da Zarathustra fino a Ermete Trismegisto a Pitagora e fino a Platone, per confluire infine nella religione ebraico cristiana e nel misticismo neoplatonico, che non vi è, in linea di massima, disaccordo fra Platonismo e Cristianesimo, fra magia e religione. Al contrario, in queste tradizioni così apparentemente diverse tra loro, vi è un comune nucleo di verità, che Ficino riassume nella formula “homo copula mundi”, rappresentato dalla dignità cosmica dell’uomo. L’uomo è il centro (copula), un’entità intermedia nel creato a metà strada tra l’animale e l’angelo. Per questo egli si trova perennemente di fronte alla sua responsabilità di scegliere, alla sua libertà di autodeterminarsi, tendendo verso la perfezione angelica o verso il degrado animalesco. Nella “Teologia Platonica” di Ficino, leggiamo:
“ L’anima è tale che afferra le cose superiori senza lasciare le inferiori; e così in essa si collegano le cose superiori con le inferiori. Essa infatti è immortale e mobile, e perciò da un lato concorda con le cose superiori, dall’altro con le inferiori. E se concorda con entrambe, desidera entrambe… E mentre aderisce al divino, poiché è spiritualmente unita ad esso e l’unione spirituale genera la cognizione, conosce il divino. Mentre riempie i corpi, li muove intrinsecamente e li vivifica; essa è dunque specchio delle cose divine, vita delle cose mortali e connessione delle une e delle altre… Affinché dopo Dio e l’angelo al di sopra del corpo e delle qualità che nel tempo e nello spazio si dissipano, faccia da termine medio adeguato: che sia in un certo modo diviso dal decorso del tempo e tuttavia non diviso dallo spazio. E’ essa che si inserisce fra le cose mortali senza essere mortale, perché si inserisce integra e non spartita, e così anche integra e non spartita se ne ritrae. E poiché mentre regge i corpi aderisce anche al divino, è signora dei corpi, non compagna. Questo è il massimo miracolo della natura.”
Il ruolo di mediazione recuperato dalla tradizione platonica e neoplatonica, appartenente al mondo classico, determina di fatto la fine dell’egemonia assoluta del dogma ecclesiale e, per il tramite di questa, del dominio assoluto della Chiesa. Viene pertanto a costituirsi una sorta di Platonismo Cristiano incentrato sulla figura del Demiurgo. La direzione in cui procede questa sorta di liberazione porta al ribaltamento delle certezze originarie e possiede l’indole di sostituirsi alle credenze dogmatiche con il libero amore per la divinità. Una esperienza spirituale di tale portata che, rinunciando all’imposizione dogmatica, dirige verso l’amore della libera ricerca, implica che la condizione umana sia dominata dall’incertezza, dall’indecisione, dal senso di responsabilità e di equilibrio sulle possibili scelte. Nel privilegiare la libera ricerca e la conoscenza, l’umanesimo afferma e compie una reale modificazione nel considerare la vita stessa, ovvero concepisce l’esistenza come riflessione e studio in luogo di una vita improntata come semplice preparazione passiva in attesa della vita futura. Nella ricerca dell’unica Verità che propende verso Dio, attraverso la conoscenza e l’esplorazione della natura nella quale Egli si manifesta, si può esaltare la libertà e la dignità dell’uomo. Ma, benché siano tante le vie che si possono intraprendere e percorrere nella ricerca della Verità, questa è e rimane una e immutabile. Pico della Mirandola mette in risalto, come Ficino, il ruolo di intermediazione dell’uomo. Dio, ha dotato l’uomo di una qualità essenziale di cui sono prive tutte le altre creature: la libertà. Egli possiede la libertà e la responsabilità di autodeterminarsi ed essendo posto in una posizione intermedia del cosmo può scegliere tra l’elevarsi verso le cose celesti o il degradarsi fino alle cose inferiori. L’utilizzo di questa facoltà viene esaltata nella ricerca e nella conoscenza, poiché procedendo in essa l’uomo apprende al contempo le leggi che regolano l’universo e vi individua la posizione da lui stesso occupata, che è posizione indeterminata tra rischio e pericolo, coscienza e incoscienza, libertà e responsabilità.
Libertà e divinità secondo la tradizione orientale
L’atteggiamento del pensiero tradizionale occidentale, a partire dal greco Parmenide, si fonde e forma un unicum con la posizione dell’induismo e del pensiero orientale in generale. Il divenire che non esiste e il non essere che non è, per Parmenide sono la stessa faccia della medaglia; dunque rappresentano il mondo dell’illusione e della doxa. Uno dei grandi temi delle dottrine orientali, del Veda, delle Upanishad, del Bramanesimo e del Buddismo, è proprio questo: tutto ciò che di orribile e doloroso si manifesta e si presenta come reale, altro non è che illusione. L’uomo è infelice per il semplice fatto che non sa di essere felice, in quanto non riesce a distinguere la Realtà e la Verità dall’illusione e dall’opinione. Così accade nella ricerca della Verità, che è una e immutabile, dove le strade per giungervi possono essere infinite e di infinite forme. Il Divino è Uno, benché centinaia siano le divinità del Pantheon indù. Ogni uomo può perseguire una strada differente da ogni altro e giungere alla stessa meta, al medesimo Principio, ovvero alla realizzazione dell’Unità nella diversità. L’atteggiamento nel concepire il senso di libertà, che accomuna la Tradizione, sia essa orientale che occidentale, è proprio questo ed è di natura spirituale e metafisica.
“Il Principio è Uno, ma i saggi lo chiamano con nomi diversi…Vedi l’unità nella diversità, l’Uno divino appare nelle molte forme, immensa è la sua vastità. Accesa in varie forme, l’eterna fiamma è Una. Illuminando il mondo con i raggi dorati all’alba, dipingendo le nubi della sera con cangianti colori, il sole è Uno.” (Rig Veda)
Nell’induismo sono comprese molte tradizioni spirituali, le quali rappresentano le innumerevoli e differenti strade che conducono tutte alla stessa meta: Dio è Uno e appare in molte forme, ma ogni forma è Egli stesso.
“Conosce la verità chi conosce questo Dio come Uno. Né secondo, né terzo, né quarto Egli è chiamato; né quinto, né sesto, né settimo Egli è chiamato; né ottavo, né nono, né decimo Egli è chiamato; Egli sopravvive a tutto ciò che respira e non respira; egli possiede il potere supremo. Egli è Uno, Uno solo, in Lui tutti i poteri divini diventano Uno soltanto.” (Atharva Veda)
L’Induismo si basa sull’autorità del Veda e, tuttavia, questa autorità non riveste carattere dogmatico tale da poter parlare di ortodossia. Ma è anche vero il contrario, cioè che non si può parlare di sincretismi o contrapposizioni. Per questo motivo l’Induismo non è una religione, nel senso che le attribuiamo noi occidentali, bensì può essere definita “Principio eterno e Luce di riferimento”, la cui Verità basata sulla Tradizione non determina un asservimento della ragione e della libera ricerca, ma al contrario, li stimola nel desiderio di conoscenza ed esalta la libertà spirituale, testimoniata dalle differenti e innumerevoli dottrine o “punti di vista”, dove la conoscenza è paragonata a una “visione interiore”. Abbiamo già visto, citando Guenon in un nostro precedente articolo, come:
“La dottrina del Veda, vale a dire la Scienza Sacra tradizionale per eccellenza, poiché tale è il senso proprio di questa parola, è il principio e il fondamento comune di tutti i rami, più o meno secondari e derivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni hanno fatto, a torto, altrettanti sistemi rivali e contrapposti. In realtà, queste concezioni, fintanto che sono in accordo con il loro principio, non possono evidentemente contraddirsi fra loro e, al contrario, non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda.”
Dunque riconoscere l’auctorictas del Veda diventa un’esigenza interiore, basata sulla comprensione del linguaggio spirituale dei suoi enunciati. In questo senso non può mai assumere carattere impositivo, dal momento che la strada della ricerca della Verità è frutto di una libera scelta e, dunque, frutto della persuasione. Come tale si tratta di una verità intuitiva, ma interamente da comprendere e da realizzarsi attraverso lo studio e la fede. Swami Vivekananda ci insegna che:
«Per Veda si intende la ricchezza accumulata di leggi spirituali da persone differenti in epoche differenti. Ogni anima è potenzialmente divina. Lo scopo è manifestare questa divinità interiore, controllando la natura, esterna ed interna […] in questo modo sarai libero”
Questo si può ottenere con il lavoro, con la venerazione, con il controllo psichico, con la filosofia, con uno o più di essi, o con tutti. Questo è il concetto e il senso di ogni religione. Dottrine, dogmi, rituali, libri, templi, strutture, esistono, ma sono dettagli secondari, servono per indicare una via o un percorso. Acquisendo questa consapevolezza e la conseguente conoscenza della Realtà vera, l’esistenza fenomenica, il divenire, ci appariranno come uno stato di schiavitù, come illusione e apparenza. La liberazione da questo stato esistenziale consiste nella ricerca e nello sviluppo della propria personalità, che è increata e incompiuta. La libertà dell’uomo consiste nella ricerca del Brahman o della Divinità, di cui è parte inscindibile. Pertanto il sé individuale è divino, ma questa divinità rimarrà in potenza fintanto che l’uomo non spezzerà le catene della schiavitù di un’esistenza effimera. Lo scopo del Vedanta è quello di raggiungere la libertà spirituale e la consapevolezza della propria divinità. In questo modo ci si rivolge al Divino attraverso la preghiera:
«Guidami dall’irreale al reale, dall’oscurità alla luce, dalla morte all’immortalità» (Brihadaranyaka Upanishad, 1-3.27)
Il versetto di apertura del Dhammapada, il testo più noto del Buddismo Theravada, afferma come l’influenza del pensiero e della mente siano all’origine della creatività:
“La vita di ogni uomo è modellata dalla sua mente, noi siamo (diventiamo) ciò che pensiamo”.
Conclusioni
Il concetto di libertà, per quanto suesposto, si misura sul concetto di Verità; in altre parole la libertà si può definire solo in relazione alla Verità: se per essa s’intende la Verità assoluta, allora sarà assoluta anche la libertà, se si intende una Verità relativa, allora sarà relativa anche la libertà. Da un punto di vista speculativo possiamo considerare tre ambiti entro i quali si evolve il nostro agire conoscitivo: il primo stadio, quello più in basso, è soggetto al dominio della volontà dell’uomo, riguarda il contingente e nasce dall’elaborazione legislativa e istitutiva della società, il cui campo di applicabilità è la morale. In questo ambito dobbiamo sottoporci all’osservanza di tutto ciò che si presenta come un dovere. In esso risiede la verità relativa e il pericolo maggiore è quello di incorrere nell’errore di voler collocare qualcosa di sacro e di illimitato in un ambito essenzialmente profano e finito. Il secondo stadio, il cui campo di applicabilità è l’etica, è quello entro il quale non tutto dipende dalla volontà divina, ma vi sono degli spazi accessibili e rappresentabili dalle facoltà umane, quali sono la scienza e l’intelligenza. In questo ambito subiamo dei condizionamenti più o meno influenti da parte del Divino e l’accostarci allo stato di perfezione consiste nella misura in cui li accettiamo e li meritiamo. Qui possiamo scegliere di esercitare la nostra libertà verso la Verità Assoluta o verso una Verità relativa. Il terzo stadio ha attinenza con tutto ciò che rimane al di fuori della nostra portata e riguarda gli eventi cosmici che sono avvenuti, che stanno avvenendo e avverranno nell’universo e che non sono dipesi dall’intervento dell’uomo e dalla sua volontà. In questa sfera risiede la Verità assoluta e opera la volontà di una Mente Divina. L’ambito del nostro conoscere risiede nella metafisica, nel simbolismo, nell’intuizione e non può che confluire nella fede. Dunque esistono due tipi di libertà, una esteriore e l’altra interiore: la prima ha a che fare con il contingente nel rapporto con gli uomini e con la società ed è la falsa libertà. Questa tende a soddisfare il presente e, in quanto tale, si manifesta come un evento storico relativo: l’uomo tende a conquistarsi degli spazi nell’ambito dei rapporti con il mondo terreno e con gli altri uomini; spazi che riguardano la politica e il sociale in generale. La seconda ha a che fare con la coscienza e con lo spirito nel suo rapporto con il mondo e con il Divino. Questa riguarda il singolo individuo in particolare ed è la vera libertà: l’uomo tende ad autodeterminarsi, attraverso la ricerca e la conoscenza, in vista di una maturazione spirituale. Questo tipo di libertà, nella sua tensione e nel suo sforzo continuo di ricerca della Verità, pur riconoscendosi entro i limiti razionali imposti dal Divino, è capace, attraverso uno slancio intellettuale che va oltre quegli stessi limiti, di produrre l’atto supremo ed ultimo e di pervenire alla Fede. Questa è la vera Fede, determinata dal desiderio e dalla tensione verso la Verità assoluta e da questa fermamente persuasa e non più passivamente basata sull’imposizione dogmatica.
Sandro Secci
Bibliografia di riferimento:
F. Adorno, Platone Dialoghi Politici, Utet, Torino 1988;
G. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, F.S. Pignagnoli, Sandron, Bologna 1970;
La libertà religiosa tra tradizione e moderni diritti dell’uomo, Ed. fondazione Agnelli, Torino 2002;
Marsilio Ficino, Teologia Platonica, Il pensiero Occidentale, Editrice Bompiani, Milano 2011;
Parmenide, Poema sulla natura, Bompiani, Milano 2003;
Platone, Simposio, Einaudi, Torino 2009.
René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi edizioni, Milano, 2011; Sant’Agostino, La città di Dio, Mondadori, Milano 2011;
I RITUALI E LE IMPRESE DEI CAVALIERI TEMPLARI DELLA DAGA DORATA.
L’ORDINE SEGRETO CHE TORNA DOPO 700 ANNI.
RITROVATO “LE LIVRE OCCULTE”,
I RITUALI E LE IMPRESE DEI CAVALIERI TEMPLARI DELLA DAGA DORATA.
Guglielmo d’Orleans, Cavaliere della Daga Dorata, ci ha lasciato “Le Livre Occulte”,le sue memorie. Ecco come descrive il difficile lavoro compiuto dai fratelli, e le sofferenze patite.
“Nonostante fossero molte le limitazioni che ostacolavano le nostre opere, abbiamo sempre compiuto tanti, tanti sacrifici, in nome e per conto della bandiera della Verità. Perché molti furono coloro che, per applicare i nostri sani principi, sono stati uccisi e torturati.
Nella Chiesa corrotta e corruttibile si celavano uomini che per pura sete di potere, di prestigio, di vanità, hanno compiuto azioni nefande e nefaste. Anche nei confronti di questi esseri miseri abbiamo emanato invii di luce per essere aiutati nelle loro colpe. Sia reso sempre omaggio ai veri pionieri del pensiero puro, immolatisi per la realizzazione dei nostri ideali e sia concessa pace ai cuori degli ingrati di allora e delle epoche successive, che per vanità o calcolo, sottomettono forze sane che lottano per redimere l’uomo. Per esaltare il meglio, nella idealità, nella purezza dei cuori, nell’applicazione dei veri principi di Amore e di trasformazione di tutta l’umanità, per condurla verso nuove strade evolutive”.
Acquista un valore unico, per la conoscenza e per la storia, la recente scoperta che all’interno dell’Ordine Templare, ha operato un gruppo segretissimo, che i Templari stessi non conoscevano. E che quindi costituisce un segreto che ha resistito 700 anni. E che ora è finalmente svelato.
L’esistenza dei 33 Cavalieri Templari della Daga Dorata, dotati di un loro sacro sigillo (che oggi ricorda la bandiera d’Europa), scelti e conosciuti soltanto dal Gran Maestro, e che ricercavano, detenevano e occultavano tutte le conoscenze scientifiche, esoteriche, rituali, economiche, commerciali ed agrarie che rivoluzionarono la società del Medioevo.
Oggi grazie al ritrovamento di un antico documento “Le Livre Occulte”, scritto da uno dei Cavalieri della Daga Dorata e rimasto occultato fino ad oggi, è stato possibile squarciare il velo che per tanto tempo ha nascosto straordinarie Verità, che finalmente ci permettono di conoscere molti dei segreti e dei misteri che hanno avvolto l’Ordine del Tempio. Verità che a quel tempo erano state difese fino alla morte.
Gian Marco Bragadin ha raccolto e raccontato nel libro “I Cavalieri Templari della Daga Dorata” (Melchisedek Edizioni), queste Verità, attingendo a fonti mai svelate prima ed a riscontri, verifiche ed approfondimenti, storici ed intuitivi, che gli hanno permesso di ricostruire la storia di quel gruppo segreto, sacrificatosi per il bene comune.
Ed è straordinario e sorprendente il risultato di questa ricerca, per gli interessati alle vicende dei Cavalieri del Tempio, studiosi, storici, esperti ed i particolare gli appassionati di Società segrete e Ordini Templari, perché potranno apprezzare gli insegnamenti e la fede dimostrata, anche nell’avversa fortuna, per la costruzione ideale di una società fondata sul benessere comune, l’armonia e la federazione degli Stati d’Europa. Non solo. Hanno operato per creazione di un mondo basato sulla pace, per la riunificazione delle religioni, sotto la figura del Cristo. Le ritualità venute alla luce, mostrano la profondità spirituale dei Cavalieri e le loro conoscenze esoteriche volte a superare le barriere tra le dimensioni.
Chi vive con il cuore aperto proverà una profonda commozione nel leggere queste memorie,
e – come è già successo – la sua anima potrebbe “ricordare l’appartenenza ai 33 Cavalieri della Daga Dorata”.
Grazie a queste Verità, è davvero possibile dire oggi che “I Cavalieri Templari sono tornati”.
Questo può essere definito il “vero Tesoro”, perché rivoluziona del tutto l’immagine dei Cavalieri. Certo sempre monaci e guerrieri. Ma con un gruppo interno segreto, di cui mai nessuno storico ha potuto parlare, perché nessuno ne aveva mai avuto conoscenza.
Sono tante le Verità originali che emergono dalla lettura del “Livre Occulte”.
Esisteva un Ordine Templare femminile “Le Sorelle di Maddalena”, vere sacerdotesse che compivano complessi rituali, tra i quali quelli in morte dei Cavalieri.
La donna per loro aveva esattamente lo stesso valore dell’uomo, in una società che le considerava poco più che fattrici, come animali. Praticavano regolarmente “contatti con le altre dimensioni”, tramite fratelli dotati di poteri sensitivi, che chiamavano “i vasi di Dio”. Conoscevano rituali e tecniche esoteriche per liberare l’anima dal corpo dopo la morte, e consideravano il compimento della vita del Cavaliere, un viaggio, con il trasferirsi esotericamente in punto di morte, fino al luogo che nasconde l’Arca dell’Alleanza, in Etiopia, la cui potenza vibrazionale era in grado di proiettare l’anima del Cavaliere oltre il mondo astrale.
Avevano scoperto grazie ai contatti con gli arabi, in particolare con la setta definita degli “Assassini”, riti di iniziazione che praticavano in svariate occasioni, ad esempio quelli prima dell’inizio di ogni missione, ma anche rituali di riequilibrio tra femminile e maschile, perché già conoscevano l’androginia sacra.
Con questo libro, che è storia, una storia mai raccontata, l’Autore ha voluto mantenere lo stile ed il ritmo dei suoi precedenti romanzi “L’Eredità dell’Ordine di Melchisedek” e “Melchisedek, il Sempre Veniente”, in modo da sorprendere il lettore con continue scoperte, colpi di scena, sorprese, per rendere il testo avvincente e scorrevole.
Ecco ancora un altro stralcio dal documento che illustra come operava il gruppo segreto.
“La missione principale da affrontare per i Cavalieri dell’Ordine della Daga Dorata era quella di raccogliere indicazioni di natura estremamente importante e segreta, per poi elaborarle e lasciar
discernere a chi si assumeva tale compito, di proseguire l’indagine per un ulteriore approfondimento o meno.
Vaste quindi erano le operazioni, perché vaste erano le notizie che andavano raccolte. Come tutte le conoscenze segrete relative alle coltivazioni di prodotti alimentari, con tecniche nuove, ricavate da viaggi in Terre lontane.
Ma durante quei viaggi, l’incontro con popolazioni sconosciute, portava anche all’approfondimento degli aspetti esoterici della loro religione. All’analisi di oggetti ritualistici di grande forza ed energia, che quei popoli utilizzavano per il richiamo di forze spirituali, di riti propiziatori o divinatori utili e così via.
Poi, rientrati nelle proprie sedi, i Cavalieri riferivano ciò che avevano scoperto, in modo che i fratelli designati potessero approfondire e divulgare quanto di buono avevano scoperto.
Questo sistema di conoscenza aveva permesso di comprendere chiavi di sapere occulto notevole, quali l’elaborazione di mappe nautiche, disegnate esclusivamente da un fedele dell’Ordine, nel più assoluto isolamento, fino alla elaborazione finale di una intera mappa geografica, consegnata poi solo ed esclusivamente al Gran Maestro.
Queste mappe segrete riguardavano anche percorsi oltre il bacino europeo e africano, che solo due galeoni compivano in gran segretezza, e avevano lo scopo di verificare direttamente le rotte che erano state tracciate sulle carte geografiche.
Era un lavoro di grande segretezza all’interno dell’Ordine Templare. In pratica ogni Cavaliere, nell’esecuzione delle sue missioni esplorative o di presidio nei paesi europei nel bacino del Mediterraneo, e lungo coste sconosciute, aveva permesso la tracciatura di mappe geografiche, che nessun Ordine o potenza del tempo, poteva vantarsi di possedere”.
Ecco come si conclude il “LIVRE OCCULTE”:
“Tempo verrà, e affido al tempo l’onda di pensiero ottimale perché nelle epoche future sia divulgata la nostra conoscenza. Perché noi Cavalieri ci reincarneremo in ogni luogo della Terra, per riprendere e svolgere il nostro cammino evolutivo, e ci riuniremo per formare un nuovo, potente Ordine di giustizia, di amore, di pace. Tutti verrete allora chiamati al grande incontro con la Gerarchia Cosmica, che vi parlerà mentalmente, affidando a ognuno il giusto, l’equo e saggio compito.
La pace, la serenità a tutti voi che leggete queste mie parole, che a nome di migliaia di compagni vi dono in unione di intenti. Perché i nuovi Cavalieri di ogni dove, di ogni tempo, sesso, razza e religione, siano domani, com’è stato per noi, sempre uniti nella Luce, per la Luce”.
L’AUTORE
Da anni ricercatore spirituale ed infaticabile viaggiatore nelle località sacre in tutto il mondo, è noto per la diffusione della “Segni-Analisi”, l’antica tecnica che insegna a interpretare le coincidenze ed i segni che ci accadono.
Studioso delle origini del Cristianesimo, ha scritto i romanzi esoterico – spirituali “L’Eredità dell’Ordine di Melchisedek”, “Melchisedek il Sempre Veniente” e il “Testamento Segreto di Gesù”, anche DVD. Con Annamaria Bona aveva già scritto anche “Cristo e Maddalena, l’Unione Cosmica”. Ora rivela le “LE LIVRE OCCULTE DES CHEVALIERS TEMPLIERS DE LA DAGUE DOREE.
Musulmani e Cristiani
MUSULMANI E CRISTIANI
Religione e meta-storia: Invito alla comprensione
di Eduardo Ciampi ©
Introduzione
Dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001 accaduti a New York, il clima di tensione che è andato crescendo ci ha indotto ad approfondire la conoscenza della tradizione religiosa islamica. Da ciò, ne sono scaturite pagine di riflessione che vogliono offrire al lettore contemporaneo un approccio un po’ diverso da quello che emerge quotidianamente dai mass media, fornendo al contempo alcuni strumenti utili per sapersi orientare nel dibattito e reagire quindi a tanta informazione che tende invece – paradossalmente proprio in questi turbolenti tempi, così delicati per le questioni politiche internazionali – a gettare benzina sul fuoco fomentando, in modo indiscriminato e irresponsabile, diffidenza e avversione tra esseri umani, che appartengono a culture, razze e religioni diverse, ma sono tutti figli dello stesso Dio.[1]
Oltre ad alcune informazioni di base sull’Islam e i suoi rapporti col Cristianesimo, abbiamo provato ad individuare quella Verità metastorica, quella Tradizione di fondo, che accomuna tutte le grandi religioni. Comunque, non abbiamo trascurato d’evidenziare anche quelle norme etiche comuni, che nella loro essenziale bontà, possano andare al di là della particolare diversità dogmatica, rituale e teologica, risultando condivisibili anche con una buona parte di coloro che si definiscono atei.
Nel nostro percorso di riflessione ci siamo affidati all’autorevolezza dei commentari dei maggiori studiosi della tradizione e abbiamo tratto utilissime informazioni da studi di validissimi scrittori – musulmani e non, riportati in bibliografia, considerati rispettosi esegeti della Sophia perennis[2] – i quali da anni hanno contribuito, a livello internazionale, al dialogo tra Cristianesimo ed Islam. Ci auspichiamo quindi che il nostro breve studio possa aiutare il lettore occidentale a comprendere questo particolare momento storico per riuscire ad accogliere l’altro, il diverso, il prossimo d’evangelica memoria, come se stessi, così come ha insegnato Gesù Cristo – il Logos incarnato il quale entra nel tempo e nello spazio, e alla luce della sua funzione messianica rende evidente la relatività della storia.[3]
Affinità e differenze
Sarà necessario accennare sinteticamente alle principali regole e caratteristiche della religione musulmana prima di affrontare quelle che sono le fondamentali affinità che la rendono religione sorella al Cristianesimo – come anche al Giudaismo – e che ci permetteranno di sviluppare un dialogo costruttivo e di stabilire una fruttuosa intesa.
In senso letterale, la parola Islàm significa ‘sottomissione’ (la radice etimologica allude anche alla pace e soprattutto all’umiltà),[4] ovvero obbedienza a Dio, al Progetto divino che concerne l’umanità intera e che l’uomo non può conoscere per la sua intrinseca limitatezza; tuttavia esso vi si dovrà abbandonare, fiducioso della bontà e della misericordia divina (il Cristiano direbbe che deve essere fatta la volontà di Dio). L’Islam è una religione monoteista sorta a Mecca nel VII secolo dopo Cristo in seguito alla predicazione di Muhammad (volgarizzato in Maometto)[5], considerato l’ultimo e definitivo Profeta,[6] inviato al genere umano da Dio (in arabo Allāh, ovvero ‘Il Dio’) al mondo intero, cioè a tutti i popoli e a tutte le comunità religiose precedenti.[7]
Il credo dell’Islam è riassunto nella Shahādah: “Non v’è altro dio eccetto Dio. Muhammad è l’Inviato di Dio”, dove viene esaltata l’unicità di Dio, proprio come recita la testimonianza di fede cristiana Credo in unum Deum. Quel che è invece molteplice, nell’Islam, è la modalità dell’espressione divina, ovvero i tanti profeti che nel mondo – che è per l’appunto molteplice – hanno rappresentato quell’unità attraverso più rivelazioni.[8] Da ciò si evince che la prospettiva islamica è assai aperta ad un serio approccio ecumenico, dal momento che la molteplicità delle religioni è voluta da Dio, e si rivela necessariamente quale riflesso della ricchezza della Natura Divina.[9]
I doveri fondamentali per ogni musulmano osservante sono definiti i Pilastri della fede, e sono:
- la Shahādah, o ‘testimonianza di fede’.
- la Zakāt, o versamento di un’imposta di ‘purificazione’ della ricchezza (la cosiddetta decima).
- la Salāt, preghiera canonica da effettuare cinque volte al giorno.
- il Ramadān, o digiuno in un particolare mese del calendario islamico, per chi sia in grado di sostenerlo.
- l’Hajj, pellegrinaggio canonico a Mecca, per chi sia in grado di sostenerlo fisicamente ed economicamente.
Oltre a questi obblighi,[10] ogni musulmano ha il diritto-dovere di assolvere al Jihād, l’‘impegno sulla strada di Dio’, che si esprime – nella sua forma principale (detta ‘maggiore’) nella lotta contro le pulsioni negative del corpo e dello spirito; come ‘jihād minore’ s’intende invece la necessità di difendere i confini fisici e spirituali della Ummah (ovvero del mondo mussulmano), e nel periodo iniziale della storia dell’Islam, anche in quella di estenderla, ma solo nei confronti di quelle popolazioni arabe politeiste, prive della sapienza del Libro: quindi né contro Ebrei, né contro Cristiani, entrambi parte della medesima radice spirituale d’Abramo.
Le correnti principali dell’Islam non ammettono né riconoscono clero, dal momento che si crede non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le Sue creature. Ognuno è quindi sacerdote di se stesso e responsabile dei suoi errori. Questo fa sì che la discriminazione fra quanto è considerato consono all’Islam e quanto gli è contrario potrà scaturire solo dall’approfondito dibattito fra esperti ‘dottori’ (ulamā’).[11] Esiste pertanto un pluralismo di scuole giuridiche e teologiche, con numerose diverse interpretazioni di una stessa fattispecie (salvo, ovviamente, nel caso degli assetti dogmatici che non sono discutibili e contestabili). L’Islam, comunque, si propone come una religione wusta, cioè ‘mediana’ fra gli estremi, equilibrata, perché aborre gli eccessi e il fanatismo.
I testi fondamentali a cui fanno riferimento i musulmani sono, in ordine
d’importanza:
- il Corano (Al-Qur’ān, che significa ‘la Recitazione’), considerato dai Musulmani come Parola di Allāh, il quale attraverso l’Arcangelo Gabriele l’ha affidato a Muhammad, rivelandoglielo direttamente in lingua araba.[12]
- la Sunna (letteralmente ‘consuetudine’), basata sugli hadīth (tradizioni o detti)[13] di Muhammad; consta di Sei libri, e raccoglie gli episodi della vita del Profeta dell’Islam, le sue parole e i suoi atti.
Il Vangelo, i Salmi, la Torah (e persino i Veda induisti), sono considerati dai musulmani d’ispirazione divina, ma corrotti dal tempo o dagli uomini. l’Islam dichiara di discendere dalle tradizioni religiose del patriarca biblico Abramo, che fu considerato da Muhammad come suo più autorevole predecessore. Il primo profeta islamico è Adamo e, dopo di lui, si ricordano tra gli altri Noè, Abramo, Isacco, Ismaele, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Davide, Salomone, Giovanni Battista, e Gesù di Nazareth, figlio di Maria, considerata quest’ultima come esempio sublime di devozione femminile a Dio.
La Sharī’ah, letteralmente ‘la via’, ovvero la Legge Divina, è il fondamento della società islamica. Dal momento che Cristo non promulgò alcuna legge – ma venne ad infrangere la lettera della legge in nome dello Spirito – nel mondo occidentale la legge religiosa ha preso una piega differente rispetto a quella islamica, che invece considera le leggi della Sharī’ah come espressione della volontà divina. È la Shari’ah, la Legge Divina derivata dall’insegnamento del Corano e dall’esempio del Profeta, che codifica la guida onnicomprensiva di cui gli esseri umani hanno bisogno se vogliono ottenere la felicità. Nell’Islam la parola non si è fatta carne come nel cristianesimo, ma si è fatta libro e tale discesa non è connessa con la rigenerazione della natura umana, dal momento che l’uomo non viene considerato decaduto, ma il suo problema fondamentale è la sua persistente dimenticanza, di qui la necessità di una guida costante.
I Musulmani vengono differenziati in due gruppi: i sunniti e gli sciiti. Il Sunnismo, orientamento nettamente maggioritario dell’Islam – quasi il 90% dell’intero mondo islamico – prende il suo nome dal termine arabo Sunna (consuetudine), riferita al profeta dell’Islam Muhammad e ai suoi Compagni. Il Sunnismo si differenzia essenzialmente dallo Sciismo per il suo netto rifiuto di riconoscere la pretesa degli Sciiti che la guida della comunità islamica debba essere riservata alla discendenza del profeta Muhammad attraverso suo genero Alī. Col tempo gli Sciiti si sono differenziati dai sunniti anche su alcuni istituti giuridici, ma il fatto che non abbiano deviato negli aspetti dogmatici non consente che si possa parlare di eresia. Comunque, nonostante le frammentazioni, le differenze teologiche, e le distinzioni etniche, c’è un forte senso d’unità nella comunità islamica (Ummah), anche se manca una vera coesione politica.
Il sufismo rappresenta infine l’elite spirituale islamica[14] – o una forma di misticismo, come altri l’hanno definito – dedita allo studio dei testi sacri ed alla pratica spirituale, ma esiste anche un approccio popolare al sufismo che permette una partecipazione passiva di molte persone alla grazia ed alle benedizioni dei sufi.
Per l’Islam il dovere dell’uomo è di riconoscere la suprema autorità di Dio al fine di ottenere la salvezza nella vita dopo la morte, la pace interiore e la concordia nei rapporti interpersonali. Il modo di realizzare questi obiettivi secondo l’Islam è quello di mettere in pratica il Corano, non associare Dio a nessun altro e sottomettersi alla sua volontà, assecondando la propria natura primordiale.[15] La seguente esternazione di Seyyed Hossein Nasr (Ideali e realtà dell’Islam) ci fa intendere quanto la religione islamica sia vicina, nell’essenziale, a quella cristiana:
Le rivelazioni del Corano non sono finalizzate a creare una società basata su smodata competizione ed egoismo, ma sulla consapevolezza che per ottenere la felicità interiore ed essere degno della misericordia e della compassione divina, dobbiamo noi stessi esercitare pietà e cura nei confronti del prossimo.
Ed ecco che alla mente del Cristiano affiorano spontaneamente le parole di Gesù (Matteo 19, 19):
Ama il prossimo tuo come te stesso
*
Per l’Islam Dio è Uno e Unico, mentre per il Cristianesimo Dio è sì un solo Dio, ma in tre persone, è Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Sebbene le tre persone della Trinità non infrangano l’unità della Divinità,[16] tuttavia possiedono modalità distinte: il Padre non è generato, il Figlio è generato, e lo Spirito Santo procede da Essi. Dunque il Padre è la fonte, il Figlio l’agente, e lo Spirito Santo rappresenta il completamento dell’attività Divina. Cristo – come puntualizza il Concilio di Calcedonia – ha una vera natura divina e una vera natura umana; e a tal proposito è Hans von Balthasar (Incontrare Cristo) ad evidenziare le difficoltà nel mondo islamico riguardo alla prospettiva cristiana:
Nella Sua vita umana Egli rivela l’intera profondità dell’Essere di Dio (‘Dio è l’amore’) ma anche tutta la dignità dell’uomo, partecipe in quanto ‘Figlio di Dio’, alla natura divina…. Per i Musulmani questi sono paradossi che appaiono contraddittori alla logica umana.[17]
Tuttavia, nell’ode mistica ‘L’interprete dei desideri’, del sufi Ibn Arabi, appare un verso incisivo che sembra aver colto la prospettiva cristiana:
“Il mio Amato è tre sebbene Egli sia Uno”
Se per il Cristiano Gesù e Maria rappresentano le polarità fondamentali della fede e della preghiera – il primo il Logos incarnato e la seconda l’immacolata madre del Logos – anche nell’Islam hanno un’enorme importanza, e a Gesù Cristo (Isa) viene attribuito un ruolo di grande Profeta ed Inviato,[18] la cui nascita dalla Vergine Maria,[19] viene considerata miracolosa, come rivelano i seguenti versi del Corano (III, 45):
Quando gli angeli dissero: ‘O Maria, Dio t’annuncia la lieta novella di una Parola da lui proveniente: il suo nome è il Messia, Gesù, figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell’Altro, uno dei più vicini. Dalla culla parlerà alle genti e nella sua età adulta sarà tra gli uomini devoti.
Se sulla morte di Gesù Cristo emergono sostanziali differenze – se ne nega la crocifissione e quindi la susseguente resurrezione[20] – sulla Sua nascita eccezionale v’è piena comunione di vedute.[21] Nella prospettiva escatologica d’entrambe le religioni, si attende inoltre la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi, e anche per quel che riguarda lo stato dei trapassati si presentano molte somiglianze, soprattutto nella descrizione allegorica di Paradiso, Purgatorio e Inferno.[22] La stessa struttura letteraria della ‘Divina Commedia’ di Dante è stata concepita su di un modello islamico, anche se nel poema dantesco pregno d’allegorie cristiane, non poteva trovare spazio la simbologia sessuale del Paradiso islamico.[23]
Un tema su cui spesso si tendono ad evidenziare le differenze è appunto quello relativo alla sessualità. La poligamia viene solitamente vista dall’occidentale come licenziosa e amorale; in realtà non è poi così diffusa nell’Islam, e comporta delle responsabilità notevoli da parte del marito, e non solo di natura economica.[24] Comunque la poligamia può essere spiegata anche a livello simbolico, infatti la Verità (rappresentata dalla polarità attiva dell’uomo che è guida spirituale della famiglia) è una, mentre i ricettacoli animici (la polarità femminile passiva) possono essere molteplici.[25] Lo stesso uso dell’allegoria sessuale nel paradiso – criticata anch’essa da una prospettiva occidentale che spesso non tiene conto della potenza espressiva del simbolo – vuole rendere allegoricamente lo stato d’estrema gioia e di espansione che avranno le anime che raggiungeranno lo stato paradisiaco, e ciò alla luce dell’alto valore spirituale che l’Islam assegna all’intensa esperienza dell’amore sessuale.[26]
Le preghiere rituali, disseminate lungo la giornata richiamano i ritmi di quelle tradizionali cristiane: all’alba, come per il Mattutino; a mezzodì, come per l’Ora Sesta; a metà pomeriggio, come per l’Ora Nona; al tramonto, come per Vespri; a notte fonda, come per la Compieta. Lo stesso uso comune del conta-preghiere è sintomatico: sul tasbīh (il rosario mussulmano, formato da 99 grani) vengono recitati i nomi di Allah, o offerte a Lui ripetute formule di riverenza, e di sottomissione.[27]
Un confronto tra la Bibbia e il Corano mostra delle differenze di impostazione che sottolineano due modalità d’approccio differenti ma complementari al sacro. La Bibbia è come una ‘torrente che scorre’, quando se ne legge il testo c’è una costante contestualizzazione dei vari versi, delle storie, dei capitoli e dei libri. S’inizia a leggere la Genesi, e poi si procede nel tempo, passando dalle storie dei patriarchi, sino ai profeti, alla venuta di Gesù Cristo, agli apostoli ed infine all’Apocalisse. Il Corano, di contro, non racconta storie che hanno un nesso cronologico e rimane quindi non facilmente comprensibile per il lettore occidentale (è questo il motivo per cui è necessario avvalersi della tradizione dei commentari).
La naturalezza con cui il Mussulmano accetta le genti del Libro (Ebrei e Cristiani) ha comunque una forte componente storica, ovvero cronologica: essendo collegato l’Islam alla religione primordiale di Abramo, e di conseguenza all’Ebraismo e al Cristianesimo, vede la propria religione in continuità, e come perfezionamento della tradizione monoteistica occidentale che ha origine nell’Antico Testamento – Muhammad, è considerato l’ultimo dei Profeti, il sigillo finale della profezia.[28] Il contrario avviene per i Cristiani che si trovano a trattare invece con una realtà religiosa non prevista dai Vangeli,[29] che – se si presta fede ai moniti sui falsi profeti – può creare una certa diffidenza.[30]
La Verità offerta da Cristo è per il Cristiano completa ed esaustiva e sembrerebbe non aver bisogno di altro, se non di maggiori occasioni per ravvivare l’insegnamento di Gesù Cristo di amare il prossimo, l’altro, il diverso, persino il nemico, o colui che appare come tale. C’è purtroppo un buon numero d’individui nel mondo occidentale – il cui giudizio viene facilmente influenzato da forze politiche ed economiche prive di scrupoli, che agiscono in maniera sottile attraverso i mass media – che considerano l’Islam come reale nemico e non vogliono saperne dell’insegnamento di Gesù. La maggior parte della popolazione occidentale laica (o meglio laicista) riconosce nella cultura mussulmana una diversità rispetto alla propria, diversità che talvolta può portare ad una certa comprensibile difficoltà a relazionarsi, e talaltra ad un democratico desiderio d’integrazione sociale nel nome di una società globalizzata e multietnica – ovviamente all’interno d’un mondo ormai secolarizzato, sempre più lontano dai principi sacri che caratterizzavano invece le società tradizionali (di qui talvolta l’ingenuità e l’insufficienza di tale approccio). Il Cristiano è chiamato invece a vedere nel Mussulmano il prossimo d’evangelica memoria, il fratello da amare, l’altro, senza il quale è impossibile realizzare il mistero dell’amore insegnato da Gesù Cristo.[31]
Il monaco cistercense Thomas Merton, scrivendo ad un suo corrispondente mussulmano, individuava con facilità e naturalezza i più immediati punti in comune delle due religioni in questione:
Con tutto il cuore, posso senz’altro unirmi a te nel confessare l’Unico Dio con tutto il cuore e tutta l’anima, dal momento che è il principio di tutta la fede e la radice della nostra esistenza…. Credo con te anche negli angeli, nella rivelazione, nei Profeti, nella Vita che verrà, nella Legge e nella Resurrezione.
Ma prima d’affrontare un discorso ecumenico di una certa profondità, che possa proporre un incontro tra le due differenti tradizioni su di un piano metafisico, e quindi meta-storico, vanno fatti notare alcuni aspetti della mentalità occidentale. Essa purtroppo tende ad affidarsi spesso ad un approccio eccessivamente raziocinante – che talvolta rischia al contrario di rivelarsi irrazionale – e producendo un pensiero abituato a separare, definire, isolare una cosa dal resto, ha sviluppato una conoscenza basata sulla dicotomia soggetto-oggetto. Tuttavia, in tale dialettica, è impossibile riaffermare il primato dell’essere, di fronte al quale il pensiero si accontenta di descrivere e accogliere. Il pensiero orientale invece è di tipo intuitivo e contemplativo, lascia vivere le differenze, e si serve della ricchezza del simbolo – che và infatti al di là della razionalità pura – per dire la realtà, e ciò andrebbe al più presto recuperato anche nel mondo occidentale se vogliamo tentare di realizzare un approccio ecumenico profondo.[32] Nelle parole di Huston Smith (The world’s religions), troviamo suggerimenti più semplici, ma altrettanto efficaci, al riguardo:
Non capiremo mai abbastanza le religioni diverse dalla nostra. Tuttavia se tali religioni le prendiamo sul serio, non è detto che falliremo miseramente nel tentativo. E per prenderle sul serio dobbiamo soltanto fare due cose. In primo luogo è necessario considerare coloro che vi appartengono come uomini e donne che affrontano problemi come i nostri. E in secondo luogo, dobbiamo liberare le nostre menti da ogni pregiudizio che potrebbe minare la nostra sensibilità o la nostra prontezza rispetto a imprevedibili intuizioni.
La nostra società deve tornare ad essere capace di riconoscere il sacro nelle cose, nei fratelli, nell’altro, e quindi di riuscirlo a ritrovare nell’Islam stesso. La chiesa cattolica sussisteva quasi ‘incontaminata’, ora in un mondo globalizzato, deve porsi in dialogo con un vicino che reclama d’essere parte della stessa rivelazione, chiede a giusto titolo di essere riconosciuto come parte del disegno divino: è questa la reale sfida ecumenica da affrontare. Quindi nell’avvicinare il lettore al capitolo seguente lo invitiamo fin da ora a provare ad abbandonare certi atteggiamenti aut aut, tipici della mentalità occidentale, di lasciare ogni pregiudizio, e di provare a recepire le parole di quei santi e di quei saggi che andremo a citare, con spirito d’amore e predisposizione alla comprensione. Viene richiesto soprattutto al Cristiano di fare uno sforzo notevole: quello di riuscire a scorgere – come ci suggeriscono le parole del Concilio Vaticano II – i raggi dell’unica Verità, anche nella religione dell’altro, pur se non centrata su Cristo, che comunque – a scanso di equivoci che potrebbero condurre ad un generico relativismo – rimane per lui, l’unica via di salvezza.
Per un approccio ecumenico profondo[33]
Nella Dichiarazione sulle religioni del Concilio Vaticano II°, si legge:
La Chiesa cattolica non respinge nulla che sia vero e santo in quelle religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di condotta e di vita, quelle regole e quegli insegnamenti che, pur differendo in molti particolari da quanto essa proclama e dichiara, tuttavia riflettono spesso un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini.
Una dichiarazione del genere apre orizzonti ecumenici che senz’altro vanno al di là della ‘famiglia della fede’, ovvero delle varie Chiese cristiane; [34] tuttavia queste premesse sembrano essere sfumate nei decenni trascorsi sino a raggiungere una sorta di pseudo-ecumenismo, oggi tanto sbandierato (il rischio degli ‘-ismi’ è infatti quello di diventare sterili, e in certi casi pericolose, ideologie), che più che essere volto ad una reale comprensione della comune natura delle varie religioni, il più delle volte, non va oltre il moderno atteggiamento di democratica tolleranza.[35]
Al di là di questo superficiale sentimentalismo ecumenico, è possibile intendere le varie religioni tradizionali – che spesso si sono fronteggiate come latrici del proprio credo da contrapporre agli ‘infedeli’ – come differenti vie di un’unica Verità, che soltanto il santo è in grado di contemplare, perdendo di vista le illusorie divisioni. Il dialogo ecumenico è invece il più delle volte a livello esteriore, delle dottrine e delle pratiche, e a tale livello, viste le differenze degli insegnamenti delle religioni del mondo, sembra esservi solo l’alternativa della contraddizione o del compromesso. In tal modo il dialogo si riduce a due monologhi paralleli. Ma le religioni non sono fatte soltanto di fedi e di comportamenti, da accettare o da rifiutare dalla ragione e dalla volontà. Ciascuna grande tradizione religiosa ha anche una terza dimensione, un cuore spirituale, in cui il significato più profondo di quelle fedi e di quelle pratiche diventa vivo, e dove il pellegrino spirituale scopre in coloro che seguono altre vie, al di là del livello delle forme che appaiono contraddittorie, il medesimo comune obiettivo. Una prospettiva di questo tipo è sempre esistita nella storia dell’umanità, anche se sono stati soltanto e mistici e i contemplativi ad averne lucida consapevolezza. Il fatto che il Concilio Vaticano II° abbia messo ‘nero su bianco’ certi aspetti di questa Verità, risponde ad un’esteriorizzazione tipica del nostro tempo, che se da un lato tende a perderne profondità, dall’altro svolge una parallela funzione provvidenziale.[36] Se nella storia passata è stato possibile mantenere un fermo esclusivismo tra le religioni – evitando così di creare anche una certa confusione tra i proseliti – oggi le condizioni sono alquanto mutate. In piena era di globalizzazione è molto più facile, per qualsiasi occidentale, venire a contatto con differenti tradizioni religiose e talvolta – non avendo mai avuto l’opportunità di prendere coscienza della qualità della propria – essere persino attratti dalla novità della spiritualità orientale, o perdere facilmente la Fede. È difficile far capire ad un Cristiano che mentre egli raggiungerà la Salvezza soltanto attraverso Cristo (e la ritualità corrispondente), al contempo un Mussulmano vi riuscirà seguendo il Corano.[37]
Ci sono ‘Cristiani’ che dicono che l’unico modo per venire incontro alle convinzioni d’altre religioni, sia quello di abbandonare l’idea – fondamento del Cristianesimo – della divinità di Cristo. A loro si contrappongono altri Cristiani ‘tradizionalisti’ che affermano che l’unica via di salvezza per il mondo intero sia quella additata da Gesù Cristo. Dire una bugia sulla realtà di Cristo non può contribuire a risolvere i problemi del dialogo interreligioso, tanto meno far intendere che Dio possa essersi manifestato nella storia dell’umanità soltanto in un’unica rivelazione. Il dialogo liberale e il monologo esclusivista rimangono due facce di una stessa medaglia, di un approccio che mostra i suoi limiti intrinseci.
Un autentico approccio ecumenico deve saper onorare l’importanza dei dogmi tradizionali, ma allo stesso tempo deve saper trovare – attraverso la preghiera, la contemplazione, l’amore per il prossimo, e la Grazia del Padre Eterno – quella saggezza che permetterà di discernere che quell’unico Dio, cercato anche da altre religioni, è il medesimo;[38] Frithjof Schuon (Cristianesimo/Islam) afferma a tal proposito:
Per quanto possa sembrare paradossale, il Cristiano deve essere davvero Cristiano e il Musulmano davvero Musulmano perché ci possa essere una comunione spirituale tra di loro […]. È solo grazie a tale santa separazione alla base, che vi potrà essere una santa unione alla vetta.
Tutti gli esseri umani hanno potuto e potranno ancora fruire della Salvezza, ognuno seguendo le regole della propria tradizione religiosa e quindi vivendo nell’umiltà e nell’amore (d’altronde, al di là di qualsiasi diversità religiosa, dove c’è sincerità e serio desiderio di verità, Dio non nega mai i doni della sua Grazia) – oppure potranno rifiutarla, scegliendo di conseguenza la propria illusoria esistenza separata. Le parole del musulmano Rusmir Mahmutćehajić (The essential Sophia) invitano a prendere coscienza di quest’ultimo rischio e a comprendere il mistero della diversità:
Nella creazione non v’è ripetizione: ogni manifestazione è nuova, unica e originale, ma ciascuna sta a testimoniare l’unità e l’unicità del Creatore. Dal momento che il Creatore è infinito ed eterno, Egli si manifesta attraverso l’infinita diversità, e tale diversità manifesta la Sua unità ed unicità: l’Uno si rivela nella molteplicità, e la molteplicità manifesta e loda l’Uno. Allo stesso modo, il Sé manifesta Se Stesso in sé individuali, e le lingue individuali manifestano il potenziale illimitato del sé di ricevere la parola del Sé […]. Lo stato decaduto dell’umanità in fin dei conti non è altro che lo stato del sé confuso dalla molteplicità del mondo, e dimentico ormai del sacro, inteso come proprio centro immutabile.
Uno dei pochi cattolici che è riuscito ad esprimersi con una certa chiarezza su questo delicato tema è stato – soprattutto durante gli anni ’60 – il monaco cistercense Padre Louis, ovvero Thomas Merton (Mistici e Maestri zen), che ebbe il coraggio di scrivere – alcuni anni prima delle dichiarazioni ufficiali del Concilio Vaticano II° – le seguenti, lucidissime riflessioni:
In tutte le religioni non soltanto troviamo l’affermazione di una rivelazione divina in una forma o nell’altra, ma anche la documentazione di speciali esperienze che attestano la validità definitiva ed assoluta di tale rivelazione. Inoltre tutte le religioni riconoscono, più o meno generalmente, che questa profonda esperienza ‘sapienzale’ la si chiami gnosi, contemplazione, ‘misticismo’, ‘profezia’, o come si vuole, rappresenta il frutto profondo e più autentico della religione stessa. Tutte le religioni, quindi, tendono ad un massimo di santità, di esperienza, di trasformazione interiore alla quale i loro credenti – o un’élite di credenti – aspirano nella speranza, in un certo qual modo, di incarnare nella loro vita i più alti valori spirituali nei quali credono.
O quando, in modo ancora più incisivo – facendo esplicito riferimento a specifiche grandi tradizioni religiose – afferma:
Poiché in pratica dobbiamo riconoscere che Dio non ha limiti nei suoi doni, e poiché non c’è ragione di pensare che egli non possa elargire la sua luce agli altri uomini senza il nostro permesso, non può esistere alcuna solida ragione per negare la possibilità della rivelazione (privata) soprannaturale e delle grazie mistiche e soprannaturali a singole persone, dovunque esse siano o qualunque sia la loro tradizione religiosa, purché ambiscano sinceramente a Dio e alla sua verità. Né esiste alcuna base a priori per negare che i grandi personaggi profetici e religiosi dell’Islam, dell’Induismo, del Buddismo etc., siano stati dei mistici, nel vero, cioè soprannaturale senso della parola.
A tal proposito, il metafisico Frithjof Schuon (Comprendere l’Islam), ha saputo offrire ulteriori spunti di riflessione:
Se vi sono religioni diverse – ognuna delle quali parla, per definizione un linguaggio assoluto e per conseguenza esclusivo – è perché la differenza delle religioni corrisponde esattamente, per analogia, alla differenza degli individui umani; in altri termini, se le religioni sono vere, è perché Dio ogni volta ha parlato, e se esse sono diverse, è perché Dio ha parlato linguaggi diversi, in conformità alla diversità dei ricettacoli; infine se esse sono assolute ed esclusive, è perché in ciascuna Dio ha detto ‘Io’.
Oggigiorno, purtroppo, tale comprensione è estranea alla maggioranza del mondo cattolico che spesso, vede ancora le altre religioni come antagoniste alla propria, e tende a tollerarle o a classificarle come erronee.[39]
Mi preme far menzione anche d’una voce che, assai recentemente, è riuscita ad andare ben oltre il coro del superficiale approccio ecumenistico sentimentale: Madre Teresa di Calcutta (Love, a fruit always in season). Le sue parole indicano chiaramente la strada da intraprendere:
Servire la gente significa avvicinarsi a Dio. Se nel venire faccia a faccia con Dio, Lo accettiamo nelle nostre vite, ecco che ci stiamo convertendo. Diventeremo un miglior induista, un miglior mussulmano, un miglior cattolico, diventeremo migliori, qualsiasi cosa siamo, avvicinandoci a Lui sempre più. La Chiesa d’appartenenza riguarda l’individuo. Se l’individuo pensa e crede che quella è l’unica via per lui che porta a Dio, allora quella sarà proprio la via attraverso la quale Dio entrerà nella sua vita. Dio offre ad ogni anima che ha creato, la possibilità – venendo faccia a faccia con Lui – d’accettarlo o rifiutarlo.
O ancora, sempre nelle parole della ‘matitina nelle mani di Dio’:
Dio sceglie le vie ed i mezzi per operare nei cuori degli uomini. Non dobbiamo condannare o giudicare, o usare parole che possano ferire le persone. Ci possono essere persone che non hanno mai sentito parlare di Cristianesimo; non possiamo sapere quale modo Dio ha scelto per apparire a quelle anime, quindi chi siamo noi per condannare qualsiasi persona?
Madre Teresa attraverso l’esperienza d’amore che spontaneamente donava al prossimo, è riuscita a cogliere con chiarezza l’idea che Dio ha l’onnipotenza di manifestare il suo Logos d’Amore in più di una modalità, dando impulso a differenti religioni.[40]
Persino Hans von Balthasar (Incontrare Cristo), che da teologo cristiano prende le dovute distanze dalle altre religioni non può non affermare che:
Per la sensibilità cristiana, la libera misericordia di Dio si è rivolta a tutti gli uomini, anche a quelli che non lo conoscono in virtù della rivelazione biblica[…]. Il Dio che si rivela a Gesù Cristo è il Padre misericordioso di tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.
La verità è che bisogna avere il coraggio di affermare che la propria religione non ha il diritto di giudicare, vantando una superiorità (o addirittura un’esclusività) sulle altre tradizionalmente istituite, dal momento che tutte le religioni sono vie che conducono l’uomo a Dio,[41] e non deve oggi esservi tra queste alcuna competizione, se non quella di offrire il maggior numero di esempi viventi di santità, che potranno poi incontrarsi nei cieli del Paradiso, dove le divisioni formali che qui sulla terra distinguono le varie religioni, avranno modo di sciogliersi come neve al sole (o come analogamente suggerisce la cultura islamica, ‘come sale nell’acqua’).[42]
O nelle parole del poeta sufi Hāfiz:
Nell’amore non c’è alcuna differenza tra un monastero e una confraternita di Sufi[43]
Tra gli Occidentali,[44] che si avvicinarono al sufismo,[45] ricordiamo il già citato monaco cistercense contemplativo Thomas Merton (1915 – 1968), e lo studioso Louis Massignon (1883 – 1962); quest’ultimo, proveniente da un contesto ateo-laicista, attraverso lo studio della realtà religiosa islamica e della sua mistica si convertì al cattolicesimo. Il fatto è significativo, e conferma che la conoscenza di altre tradizioni religiose crea in ciascun individuo una fame del sacro che prima o poi trova la sua naturale strada all’interno della Tradizione religiosa in cui si è cresciuti. Vivendo nei paesi islamici come archeologo, il suo incontro con Dio lo fece con lo straniero, con l’altro, col diverso. Dalla sfida religiosa con l’Islam ne uscì purificato, e una volta convertitosi al cattolicesimo rimase sempre rispettoso nei confronti delle altre religioni, tanto che i suoi contributi ecumenici troveranno riscontro nei documenti del Concilio Vaticano II° Lumen Gentium e Nostra Aetate. La sfida di cui parlava Massignon, l’aveva affrontata senza timore San Francesco nel 1219, dinnanzi al Sultano mussulmano, ma è una sfida che ogni Cristiano può oggi rinnovare, senza dover compiere il lungo e faticoso viaggio del ‘Poverello d’Assisi’.[46]
Tra gli italiani che ebbero modo di stare a contatto con Massignon va ricordata la figura del francescano minore Giulio Basetti Sani, il quale quando veniva accusato di essere un po’ troppo filo-musulmano, replicava con decisione: “Ma io sono musulmano!”, alludendo all’origine etimologica del termine muslim, ovvero consapevole sottomissione alla volontà di Dio. Sue sono le seguenti parole di intenso sapore ecumenico:
Se è vero che ogni fede (musulmana, cristiana, indù, etc.) nasce da un’esperienza del divino che in modi diversi si dona e si propone all’uomo, allora, per poterci avvicinare veramente a Colui che è fonte e principio di ogni vita, è necessario renderci reciprocamente partecipi dei doni che Egli ha elargito a ogni singolo uomo, inserito all’interno di particolari comunità religiose, sociali, politiche.
L’incontro con l’Islam del monaco cistercense Padre Louis, ovvero Thomas Merton, avvenne invece a pochi anni dalla sua morte accidentale a Bancok. Molto aperto al dialogo con le altre religioni – esperto di buddismo zen, e convinto dell’importanza di promuovere in modo corretto l’attività di meditazione e contemplazione, per rivitalizzare così la tradizione mistica cristiana – iniziò una corrispondenza epistolare col Sufi pakistano Abdul Aziz. In una sua lettera del 1962, rivolta al saggio orientale leggiamo:
Mi sembra che la reciproca comprensione tra Cristiani e Mussulmani sia oggi qualcosa d’importanza davvero vitale, e sfortunatamente risulta rara e incerta, o quantomeno soggetta alle fluttuazioni della politica.
A 45 anni di distanza, queste parole sono più che mai vere. Ma andiamo a capire a che livello Merton cercava punti d’incontro con l’Islam (da Baker R./Henry G./& others, Merton and Sufism):
Per quel che riguarda le differenze dogmatiche, penso che la controversia conti ben poco poiché ci porta lontano dalle realtà spirituali nel mondo delle parole e delle idee. Nel regno delle realtà possiamo avere molto in comune, mentre nelle parole ci sono tante di quelle complessità e sottigliezze che complicano e impediscono una qualsiasi soluzione. Tuttavia credo sia importante cercare di comprendere le fedi delle altre religioni. Ma ancor più è importante la condivisione delle esperienze della luce divina, e innanzi tutto la luce che Dio ci dà anche come Creatore e dominatore dell’Universo. È qui che sta l’area di dialogo fruttuoso tra Cristianesimo ed Islam. Adoro quei passaggi del Corano che parlano delle manifestazioni del Creatore nella Sua Creazione.
Merton vedeva nelle pratiche d’entrambe le tradizioni religiose – pentimento, rinuncia, digiuni, povertà, umiltà, preghiera, meditazione e contemplazione – un cammino verso il medesimo fine, che spesso giungeva a sfiorarsi. Il monaco si accorse che la cosiddetta estinzione, nelle pratiche sufi (fanā’), corrispondeva all’annullamento perseguito dai mistici cristiani, e che le tecniche di ripetizione del nome di Dio (dikr), erano assai simili a quelle che utilizzano i monaci ortodossi.[47] In un incontro coi novizi al Monastero di Gethsemani a Louisville, Kentucky (USA), nel 1967 egli rifletteva così:
Il Profeta Muhammad che si presenta come ultima rivelazione di Dio […]. sta in un certo qual modo a rappresentare l’uomo, dal momento che viene considerato dai Mussulmani come uomo perfetto […]. Ciò che noi Cristiani diciamo è che tutto viene da Dio e che la Creazione è una manifestazione di Dio, e che viene tutta riassunta in Cristo […]. Muhammad è per i Mussulmani soltanto un uomo, soltanto un Profeta, mentre nella nostra cristologia, Cristo è il figlio di Dio […], tuttavia l’idea di base è strutturalmente la stessa: l’idea della manifestazione di Se Stesso da parte di Dio nella creazione, e nel compito dell’uomo di testimoniarla, proclamarla, riconoscerla, e ringraziare Dio per ciò, rivolgendosi a Lui con gratitudine.
La sua acuta prospettiva ecumenica lo portava – allargando il suo raggio d’azione – a dichiarare senza alcuna esitazione che:
La tradizione della saggezza e dello spirito non è soltanto nel Cristianesimo dell’Occidente, ma anche nell’Ortodossia, ed anche, quantomeno in modo analogo, in Asia e nell’Islam.
Il sufi Ibrahim bin Adham ebbe occasionalmente come maestro un eremita cristiano, senza tuttavia convertirsi all’altra religione; il sufi Jalal al-Din Rumi ebbe discepoli cristiani, e quando morì fu onorato anche da riti funebri cristiani. D’altronde l’anonimo classico russo La via del Pellegrino è davvero esplicito al riguardo quando dice che nell’assenza di uno starets, ovvero di un padre spirituale, il ricercatore cristiano potrà ricevere insegnamenti ‘persino da un Saraceno’.[48]
Le diversità tra religioni devono rimanere, altrimenti dov’è l’incontro con l’altro? Verrebbe a mancare la necessaria complementarità (come nell’eros della coppia uomo e donna).[49] Non si deve cadere nel facile errore d’auspicare una fusione – in una sorta di culto universale globalizzato, sul modello New Age – ma va colta quella Verità comune sottesa ad ogni autentica forma religiosa tradizionale: e l’unità può essere scovata soltanto a livello trascendentale. Comunque, è innegabile che il rispetto dei dogmi delle specifiche religioni tenda ad allontanare, e di ciò si rese conto Merton che puntava invece – attraverso lo studio dei metodi di contemplazione della tradizione cristiana esicasta d’oriente e quella dei sufi mussulmani – alla ricerca d’un obiettivo comune: la ricerca di Dio, attraverso la preghiera profonda.
Un altro valido pensatore che è riuscito a cogliere notevoli parallelismi è stato Seyyed Hossein Nasr (Ideali e realtà dell’Islam):
“Allo stesso modo in cui una montagna può essere descritta in diverse maniere, secondo l’angolo dal quale la si osserva, la dottrina viene espressa frequentemente in termini che esteriormente possono sembrare contraddittori. Ma l’oggetto di tutte le descrizioni è la montagna, così il contenuto di tutte le espressioni dottrinarie è la verità, che ogni formulazione esprime da un determinato punto di vista […]. Ogni religione rivelata è ‘la’ religione e ‘una’ religione: la religione in quanto contiene ‘la’ verità e i mezzi per conseguire la verità, ‘una’ religione in quanto pone in rilievo un aspetto particolare della verità in vista delle necessità spirituali e psicologiche degli esseri umani ai quali è stata destinata e ai quali si rivolge […]. Nell’esaminare il rapporto tra Dio e l’uomo l’Islam non pone in evidenza la discesa, o incarnazione, o manifestazione dell’Assoluto […]. L’Islam considera piuttosto l’uomo quale egli è nella sua natura essenziale, e Dio quale Egli è nella sua assoluta realtà. È fondato sull’Assoluto, e non sulla discesa dell’Assoluto. Parimenti l’Islam considera l’uomo non quale egli è diventato dopo quell’evento molto significativo che il cristianesimo chiama peccato originale o caduta, ma quale egli è nella sua natura primordiale […] che egli reca nell’intima profondità della sua anima.
E ancora Nasr (The heart of Islam) cerca qui d’esprimere profondamente il senso del Logos:
Se nel Cristianesimo sono lo spirito e il corpo di Cristo ad essere sacri, in quanto Egli è il Verbo di Dio, nell’Islam il Verbo di Dio è rappresentato dal sacro Corano. Se nel Cristianesimo il veicolo del messaggio divino è la Vergine Maria, nell’Islam è l’anima del Profeta. Il Profeta deve essere ritenuto illetterato per la stessa ragione per cui la Vergine Maria deve essere creduta vergine. Il tramite umano del messaggio divino deve essere puro e intatto.
Martin Lings (A return to the Spirit) ci offre un analogo spunto di meditazione:
La Parola Divina può manifestarSi sia come Libro che come Uomo. Nel Cristianesimo la Parola è Cristo, e il Nuovo Testamento non è Rivelazione ma un’ispirata storia sacra della vita e degli insegnamenti della Parola fatta Carne, mentre Giudaismo ed Islam sono basate sulla Parola fatta Libro. Il fondamento del Giudaismo è il Pentateuco, i primi cinque libri dell’Antico Testamento che vennero rivelati a Mosè, insieme ai Salmi che furono rivelati a David; mentre il fondamento dell’Islam è il Corano che fu rivelato a Muhammad. Nelle religioni antiche, di cui l’Induismo appare essere l’unico esempio pienamente sopravvivente, c’è stato spazio per entrambe queste manifestazioni: i Veda sono la Parola fatta Libro, e gli Avatāra di Vishnu sono la parola fatta carne […]. Tutte espressioni della verità che non c’è via che conduce a Dio se non tramite la Sua Parola.
A tal proposito si potrebbe addirittura dire che la cultura musulmana non sia completamente iconoclasta, in quanto il Corano – di per sé la presenza dell’Assoluto nella finitezza della Parola – mostra nei preziosismi artistici della calligrafia un notevole culto dell’immagine,[50] come sottolinea giustamente Titus Burckhardt (L’arte sacra in oriente e in occidente):
La più nobile arte visuale nel mondo dell’Islam è la calligrafia; in particolare, la scrittura coranica costituisce l’arte sacra per eccellenza. La sua funzione è in qualche modo analoga a quella dell’icona nell’arte cristiana, poiché rappresenta il corpo visibile della Parola divina.
Le seguenti riflessioni sono invece del teologo cristiano ortodosso Philip Sherrard (Christianity: Lineaments of a Sacred Tradition), e conducono a un punto cruciale, un punto spesso d’impasse per buona parte del mondo cristiano:
Una delle condizioni di rinnovamento all’interno della Chiesa Cristiana è che essa rinunci ad affermare che la rivelazione cristiana costituisca l’unica esclusiva rivelazione della Verità universale […]. Il Logos, nella Sua ‘kenosis’, il Suo auto-svuotamento, si nasconde ovunque, e le tipologie della Sua realtà, sia nelle forme delle persone che negli insegnamenti, non potranno essere uguali […]. Tuttavia tali tipologie sono altrettanto autentiche: una qualsiasi lettura profonda di un’altra religione è una lettura del Logos, di Cristo. È il Logos che viene ricevuto nell’illuminazione spirituale di un bramino, di un buddista, o di un musulmano […]. È impossibile per tutta la conoscenza di Dio e per tutta la Sua saggezza essere ‘in actu’ e pienamente espressa in un’unica rivelazione […]. Nessuna singola forma di rivelazione ha alcun titolo di proclamare di essere l’unica ed ancor meno totale […]; fare tale affermazione significa far violenza alla natura di Dio Stesso.
Persino William Shakespeare, noto drammaturgo inglese vissuto tra XVI e XVII secolo, attraverso le parole del personaggio di Charles, dà nell’Enrico VI°/1 (Atto I, Scena 2) un contributo ad una prospettiva ecumenica ante litteram:[51]
Non fu una colomba ad ispirare Muhammad?
Il fatto che a Shakespeare fosse nota la tradizione relativa alla colomba del Profeta dell’Islam, saggia quanto lo Spirito Santo dei Cristiani (ovvero la Barakah mussulmana), conferma la prospettiva di rispetto che certe élites avevano per le religioni tradizionali differenti dalla propria.[52]
Il Corano è fonte d’ispirazione interreligiosa e bisognerebbe approfondirne lo studio quantomeno per questo motivo.[53] E’ infatti l’unica scrittura, rispetto alle altre del mondo, a fare esplicito riferimento al dialogo tra comunità di fedi diverse, sottolineando al contempo la necessità della diversità delle religioni – evitando in tal modo di cadere nel sincretismo, che invece nella cultura occidentale pseudo-cristiana sta dilagando pericolosamente. I Cristiani potranno quindi trovare nei Musulmani degli interlocutori pronti a tale dialogo, in quanto ciò rientra tra i doveri imposti dal loro testo sacro. Quindi potrà essere proprio l’Islam, a svolgere una funzione provvidenziale nel percorso ecumenico apertamente inaugurato dal Concilio Vaticano II, ed aiutare a risolvere la crisi contemporanea che si è manifestata con la globalizzazione e con i conseguenti atteggiamenti d’esclusivismo religioso. A tal motivo, permetteteci di concludere con alcuni eloquenti passi del testo sacro della tradizione islamica, a cui fanno eco altri, tratti dalla Bibbia:
Ad ogni comunità abbiamo indicato un rito da osservare (Corano XXII, 34)
Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica. Ma egli ha voluto provarvi con il dono che vi ha fatto; cercate dunque di superarvi gli uni gli altri nelle opere buone, perché tutti tornerete a Dio e allora Egli vi illuminerà circa quelle cose per le quali siete divisi e in discordia (Corano V, 48)
In verità tutti coloro che credono, e i giudei, nazareni o sabei, tutti quelli che credono in Allah e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene, riceveranno il compenso presso il loro Signore (Corano II, 62).
Non abbiamo forse tutti un unico Padre? Non ci ha creato un unico Dio? (Mal. 2, 10)
Chi Lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto (Atti degli Apostoli, 10:35)
Sono questi i ‘nuovi’ scenari ecumenici da sviluppare nel terzo millennio, e sta anche ai laici promuovere questo processo di reciproca comprensione col fratello mussulmano, il prossimo, colui che oggi è più vicino: è con lui che vivremo fianco a fianco questo nuovo cruciale secolo.
Un incontro inevitabile
Un punto assai delicato su cui si scontra la diffidenza occidentale nei confronti della religione musulmana è quello del recente sviluppo del cosiddetto terrorismo islamico. Parlare di terrorismo islamico è tuttavia una contraddizione in termini, come per un Cristiano sarebbe inconcepibile parlare di terrorismo cristiano, o per un buddista di terrorismo buddista: le religioni, votate per loro natura all’amore, all’equilibrio e alla pace, non possono accogliere nel loro ambito il terrore. Al di là del linguaggio simbolico che emerge dalle Scritture,[54] tutte le tradizioni religiose sono profondamente contrarie all’omicidio, alla guerra, o a qualsiasi forma di coercizione e violenza fatta su di un proprio simile.
Quindi è bene avere un’idea chiara di ciò che viene definito impropriamente terrorismo islamico, ma che in realtà ha a che fare con questioni politico-economiche, intrecciate ad aspetti distorti della religione che hanno dato vita a movimenti definiti integralisti; in realtà essi sono il paradossale frutto velenoso di una propaganda progressista che tende a secolarizzare la società. Molti musulmani si sono allontanati dagli autentici valori tradizionali, ed altri, manipolati anche dai poteri forti di lobbies internazionali interessate a certi sviluppi di politica mondiale, hanno ceduto alla tentazione della violenza. Ma prima di tutto va chiarito il significato di un termine arabo – jihad – assai abusato oggi, soprattutto dai media che ne fanno sistematicamente un uso improprio. Jihad sta a significare ‘sforzo’, nel cammino che porta a Dio, a fare il bene e ad opporsi al male. In effetti le regole della preghiera, del digiuno etc. che impone la religione islamica sono per ogni fedele uno sforzo quotidiano, che il Mussulmano comunque fa di buon grado, consapevole di far cosa gradita a Dio e fiducioso dei beni postumi che riceverà da tali pratiche, unite ad una condotta di vita rispettosa del prossimo. Questo combattimento spirituale, questa guerra santa – così come ha insegnato il Profeta dell’Islam in un hadith – può alludere anche ad un vero e proprio scontro bellico. Il contesto di quell’hadith (“Siamo tornati dalla piccola guerra per affrontare ora la grande guerra”) era quello di un’appena conclusa campagna militare a difesa di Medina (la famosa vittoria nella battaglia di Badr), e si poteva quindi comprendere l’importanza, di questo secondario significato del jihad, che tuttavia oggi rischia di eludere quel ben più impegnativo sforzo interiore che và invece sostenuto fino in fondo, e che deve affrontare il cristiano, impugnando quella spada, ovvero quella croce, che ci ha indicato Cristo.[55] Storicamente il piccolo jihad era diretto contro coloro che erano in opposizione all’autorità politica dello stato islamico, il fine era quello di creare nell’area arabica un ordine sociale in cui fosse garantito il culto di Dio sia per i Mussulmani che per le genti del Libro; infatti furono solo le popolazioni politeiste delle tribù arabe ad essere portate con la forza verso l’Islam, mentre le popolazioni che in quei territori già appartenevano al Libro non furono obbligate a convertirsi all’Islam. Ne deriva che la cosiddetta ‘jihad contro ebrei e crociati’, è fortemente contraria alle fonti originali islamiche: non sono loro gli infedeli![56] I commentari più antichi e autorevoli del Corano e la tradizione degli hadith esprimono le caratteristiche e i limiti che i primi Mussulmani posero sul piccolo jihad; tra i limiti fissati, il non uccidere donne, bambini, anziani, o coloro che sono disposti alla pace.[57] Il piccolo jihad non deve creare squilibri nell’ambiente (animali, piante, elementi), quindi praticare il jihad con armi tecnologiche di distruzione di massa è per l’Islam una contraddizione in termini. Quei Musulmani che indebitamente si permettono di collegare il sacro termine di jihad a simili atti di terrore non hanno alcun avallo da parte delle vere autorità spirituali del mondo islamico. Comunque è nelle parole di Shah-Kazemi (Paths of the Heart) che si può scorgere la profonda prospettiva dell’Islam di fronte al jihad:
Il vero guerriero dell’Islam mozza la testa della propria rabbia con la spada della tolleranza; il falso guerriero colpisce la testa del nemico con la spada del proprio orgoglioso ego. Infatti nel primo caso è lo spirito dell’Islam a determinare il ‘jihad’, mentre nel secondo è un’amara rabbia, mascherata da ‘jihad’, a determinare l’Islam.
O in ciò che riferisce Seyyed Hossein Nasr (The heart of Islam):
I maggiori combattenti spirituali dell’Islam sono i santi, il cui strumento di battaglia non è la spada ma il rosario.
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Un altro pericoloso equivoco sull’Islam, è la facile contrapposizione che viene fatta oggigiorno tra fondamentalisti e ‘moderati’ (o meglio modernisti), infatti se da un lato i ‘moderati’ vorrebbero abbracciare i modi del mondo occidentale moderno, i fondamentalisti vi si oppongono (alcuni, persino in maniera violenta); la verità dell’Islam, al di là di queste due polarità, cresciute sotto l’influsso del sistema socio-economico occidentale, sta nella saggezza che deriva da secoli di tradizione religiosa, che rifiuta la violenza, ma si oppone comunque all’abbandono del culto e alle chimere di una secolarizzazione priva di saldi principi etici. La visione ‘moderata’ islamica, tendendo a scartare molte delle tradizioni come gli hadith e la giurisprudenza maturata nei secoli, o interpretandole attraverso metodologie moderne, ha creato squilibri e deformazioni. D’altronde il mondo moderno manca del senso di trascendenza e limita la realtà al suo aspetto più esteriore, mentre l’Islam è una religione basata sulla trascendenza di Dio (come accade anche per l’Ebraismo), quindi i Mussulmani ‘moderati’ in fin dei conti si stanno pian piano estraniando dalla loro tradizione spirituale e intellettuale. Dunque il declino dell’Islam sembra principalmente dovuto proprio all’adozione d’idee che provengono dal mondo occidentale secolarizzato.[58] Gli spettacoli d’intrattenimento (televisivi e non) hanno portato alla rottura dei gusti e delle inibizioni tradizionali, com’è peraltro accaduto già nella cultura italiana nell’immediato dopoguerra, come già notava acutamente Pier Paolo Pasolini, il quale si rese subito conto di come la mentalità consumistica avrebbe presto distrutto le preziose diversità culturali del nostro paese.[59] Nel mondo occidentale, di tradizione cristiana, religione fondata anche sull’aspetto immanente della divinità, il processo di secolarizzazione si è sviluppato assai in fretta e ha preso una piega pericolosa: l’aver dimenticato l’aspetto trascendente del divino e quindi abbandonato – ponendo la fiducia solo nell’uomo e nella sua illusione di completa indipendenza da Dio – ogni collegamento coi principi religiosi.[60]
Il secolarismo, sviluppatosi a seguito dell’Illuminismo, con la sua visione profana e quindi antireligiosa della vita, costruisce il mondo nei termini d’una realtà chiusa in se stessa ed immanente, rifiutando nettamente il trascendente e la dimensione del sacro; tale prospettiva non può essere compatibile con l’Islam, come con nessun altra religione tradizionale (certi compromessi con la società secolarizzata pesano come macigni anche sui principi religiosi cristiani). Di conseguenza, le cosiddette efficienti democrazie contemporanee stanno cadendo in una sorta d’anarchia: vengono infatti a mancare sempre più i principi morali. La quantificazione del tempo e la percezione della sua scarsità ha portato ad un generale deterioramento delle relazioni umane. Tale senso di scarsità è nuovo, e non è paragonabile con la parsimonia economica delle civiltà tradizionali. Il mondo moderno ha raggiunto una produzione quantitativa enorme, eppure per ironia della sorte nella nostra società si avverte – con le sue necessità artificiali, coi suoi inutili e nocivi consumi indotti – un senso di scarsità mai avvertito prima. Tale squilibrio è il risultato di una deviazione dei principi spirituali di giustizia, che porta tanti individui a consumare più di quel che gli spetta. Nel medioevo gli affari economici erano controllati da paletti teologici, ed era quindi ancora viva una società sana; ma oggi tutto ciò è scomparso e tale prospettiva rischia di estendersi nel mondo islamico con disastrose conseguenze anche sul piano ambientale (si veda cosa sta accadendo nella Cina che sta vivendo una industrializzazione assai accelerata). La globalizzazione segue di conseguenza, e tende ad appiattire e ad omogeneizzare su direttive consumistiche ogni afflato religioso, ogni specifica cultura tradizionale. La modernità cerca di distruggere la forza della religione sull’anima umana mettendo in discussione le categorie del bene e del male, mentre le religioni hanno sempre insegnato all’umanità di coltivare la virtù e di evitare il male.
Nella prospettiva tradizionale, sono le responsabilità a precedere i diritti, mentre nella società moderna sembra essersi capovolto il rapporto, nel senso che il cittadino medio ha ormai dimenticato le responsabilità che ha come essere umano nei confronti di Dio, ma pretende altresì d’usufruire di tutti i diritti sociali possibili. Per ogni religione, non solo i diritti seguono i doveri, ma devono essi stessi essere condizionati da varie proibizioni, volte a garantire una protezione all’anima, idea che appare assurda a chi non ha fede. Alcuni Occidentali potrebbero affermare che le donne musulmane dispongono di ben pochi diritti, ma queste ultime potrebbero rispondere che sono i bambini occidentali ad essere privi di molti diritti: ad esempio il diritto di avere vicino una madre, soprattutto nei primi anni di vita (sana abitudine tradizionale che nel sistema economico occidentale è divenuta ormai una vera rarità).[61] Un altro diritto fondamentale per un bambino è quello di avere due genitori,[62] e anche questa opzione nell’opulenta ma egoistica società dei divorzi e delle provvisorie convivenze, comincia a scarseggiare. Queste abitudini, ormai diffuse in Occidente mostrano dunque un’assenza di responsabilità, d’amore, d’umiltà, che si trasformano necessariamente in forme di privazioni di diritti: del bambino, del partner, del prossimo.
Il problema maggiore sembra essere quello di coniugare i propri diritti ad un’idea di libertà, che per il nostro mondo occidentale significa libertà dell’ego, quando tutte le religioni tradizionali invitano invece alla libertà dall’ego, dalle proprie passioni, dalla propria sfrenata individualità. Finché ciò non sarà chiaro, risulterà davvero difficile accettare le religioni che, con i propri insegnamenti morali, suggeriscono a rinunciare a tante libertà perché sanno che solo così si giunge alla Libertà in Dio, che si realizza appunto nel fare la Sua Volontà:[63] questa è la Libertà della religione, ma l’uomo contemporaneo sembra preferire la libertà dalla religione. Per un vero Cristiano o Musulmano, l’amare Dio ed obbedire ai suoi comandamenti non è considerata una perdita di libertà, anzi proprio il contrario, e da questo punto di vista molti sedicenti cristiani dovrebbero guardare al mondo musulmano come ad un modello di fede e di consapevolezza delle responsabilità dell’uomo di fronte all’Eterno. A ciò deve necessariamente fare seguito il rispetto dei diritti umani (ed in questa seconda istanza sono le odierne società musulmane che possono imparare qualcosa dall’Occidente); ma tra le due necessità la prima è propedeutica alla seconda.
La verità è che le cosiddette civiltà, sia in Occidente che in Oriente, sono in uno stato di notevole decadenza, e non hanno più il coraggio di mettersi in discussione, e di porsi interrogativi su ciò che non è andato per il verso giusto, anzi, spinte da pulsioni nazionalistiche ed espansionistiche si sono completamente allontanate dai principi che le avevano caratterizzate. I destini del mondo cristiano e di quello islamico sono dunque intrecciati: la globalizzazione col suo sistema di valore, basato sui beni di consumo, rischia di obnubilare il vero valore spirituale che le religioni ancora propongono.
Il problema è che recentemente le pressioni secolarizzanti si sono fatte sentire in maniera prepotente anche nel mondo islamico, ed è proprio in quest’epoca che si sono sviluppate le interpretazioni più ottuse dei testi sacri, che hanno aperto la strada al moderno fondamentalismo di cui parlavamo ad inizio capitolo. È indubbio che è l’ignoranza – tra i Mussulmani, come anche tra i Cristiani – ad essere il male maggiore da combattere: è questa la guerra da intraprendere a fianco all’Islam, una guerra che non porterà morte e distruzione, ma servirà a favorire conoscenza e comprensione, e quindi la pace. Purtroppo quelle forme di fondamentalismo si avvertono anche nel mondo ebraico e in quello cristiano, anche se talvolta sono meno pubblicizzate.[64] Gli influssi deleteri del mondo laicista sono riusciti ad introdurre proprio all’interno della religioni, elementi disgreganti che tendono a sviare e a deformare l’essenza dei contenuti e delle finalità originali. In questo gioco perverso non si deve assolutamente cadere: le comunità cristiane e mussulmane – come anche quella ebraica – devono compiere parallelamente uno sforzo notevole per non cedere alla facile tentazione di lanciarsi in uno scontro che non potrà che rivelarsi catastrofico.[65] Il sottile invito a tale scontro di religioni che si avverte ai nostri giorni, deve offrire, di contro, l’occasione per gli autentici rappresentanti di tali fedi, a stringersi insieme contro un perverso sistema politico, sociale, ed economico, non certo usando la violenza, ch’è contraria a qualsiasi credo tradizionale, ma dando prova di saper dialogare, di riconoscersi come fratelli, seguendo con amore le indicazioni etiche delle proprie religioni che conducono all’equilibrio e alla saggezza, persino alla santità. Ma l’atteggiamento nei confronti del sistema sociale non deve cedere a compromessi, deve essere capace di discriminare tra i tanti consumi che ci vengono propinati sistematicamente, e decidere di rifiutarne e boicottarne alcuni (non ultimi quelli legati al banale mondo dello spettacolo o dell’‘informazione’ propinati dai mass media), in modo tale da dar filo da torcere a quei poteri che sopravvivono grazie al quotidiano consenso – il più delle volte inconscio – dello spettatore, e che credono di dominare il mondo, ma in realtà lo stanno rapidamente portando verso la distruzione.
La tendenza ad uniformare tutti gli uomini in un globale sistema di consumismo indotto sottende a un sottile disegno: agli esseri umani, creati nella loro complementare diversità – ma nella sostanziale uguaglianza della scintilla divina presente in tutti – ecco che viene contrapposta in maniera massificata la possibilità di uniformarsi in un’unica ‘cultura’, un’unica ‘lingua’, un unico sistema politico, un’unica moneta, persino un’unica ‘religione’ (o meglio pseudo-religione dai connotati sincretistici, in stile New Age), quando di contro la nostra individualità sfrenata, il nostro orgoglioso io, viene continuamente alimentato da fantasie psichiche tali da allontanarci sempre più dal nostro Principio unificatore. Quindi più uniti, ovvero somiglianti, fuori, più divisi dentro; questo è l’inquietante disegno che si prospetta, che peraltro manifesta la sua chiara natura diabolica (ovvero separativa, dal greco δια-βαλλω). È dovere comune, credenti e non, di rifiutare questa tragica prospettiva, è chiaro infatti che se continuiamo nella direzione che ci viene additata dal sistema socio-economico odierno, andremo verso un irrevocabile collasso dell’ecosistema e dell’umanità, che nell’illusione di una pacifica unione secolare (ovvero mondana), giungerà al confine estremo della disunione col Principio, quel punto massimo di allontanamento dalla Luce che non potrà che tradursi nella fine de tempi.
La contrapposizione di Cristiani e Musulmani è cosa davvero assurda, infatti essi si vengono a trovare oggi più che mai dalla stessa parte della barricata; rappresentano infatti il comune dissenso alla società secolarizzata, consumistica ed edonistica, dell’epoca contemporanea, sono entrambe un freno nel cammino del cosiddetto ‘progresso’,[66] sono un serio problema per lo stato laicista che tende ad ‘educare’ il cittadino a scelte sempre più ‘libere’ (ovvero prive di riferimenti ad una coscienza religiosa),[67] sono un imbarazzante intralcio per le ambizioni sfrenate della scienza, che vuole sostituirsi a Dio, nell’illusione di realizzare una utopistica (o meglio antiutopistica) società del benessere artificiale.[68]
Il modo occidentale, pieno di dubbi, e ormai consapevole delle contraddizioni di ciò che fino a pochi decenni fa considerava il proprio modello di vita, si trova ormai dinnanzi ad un vicolo cieco;[69] e il mondo islamico – se non finirà a sua volta nell’ingranaggio della secolarizzazione moderna (e da questo punto di vista il fallimentare esempio del nostro sistema sarà da monito a quei Musulmani che lo vogliono emulare) – può ancora offrire un modello d’attaccamento alla Fede tale da stimolare gli Occidentali a recuperare il senso delle proprie radici cristiane.[70]
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In Occidente non mancano forze politiche – purtroppo anche in parte del clero si nota tale atteggiamento – che agitano spesso lo spauracchio dell’islamizzazione dei nostri paesi, additando genericamente l’immigrato musulmano come potenziale terrorista, da respingere con tutti i mezzi alle frontiere. In realtà uno ‘scontro di religioni’ non esiste: è una frase inventata ad arte per creare la paura dell’altro, del diverso.[71] Scegliere lo scontro vuol dire aver già perso, come risulta evidente dal fatto che guerra e terrorismo si alimentano a vicenda e che le iniziative militari stanno ingigantendo e radicalizzando i problemi. Bisogna ricorrere alla saggezza e stabilire un dialogo pacifico per risolvere i conflitti. Oggi, più che mai, in una delicatissima situazione di politica internazionale, è necessario comprendere che la Verità di cui si sono fatte portavoce nella storia almeno le tre grandi tradizioni monoteistiche (Ebrei, Cristiani, Mussulmani) è unica, eterna e condivisibile da tutti gli esseri umani. Le religioni predicano tutti i valori etici dell’umiltà, la giustizia, la pace e la prosperità, lo scambio delle azioni benefiche, la cooperazione fra tutti i popoli in favore della benevolenza e della pietà, e non per l’offesa e l’aggressione. Dialogare significa rendere concreta la cosiddetta ‘regola aurea’, che dice di ‘non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te’. Condivisibile da chiunque è il comune riconoscimento del principio e del fine divino della vita umana, tesa all’equilibrio e alla concordia col prossimo: tutto ciò è patrimonio comune di Cristianesimo ed Islam, ma anche di coloro che, pur non aderendo ad un credo religioso, non hanno ceduto alle lusinghe con cui il mondo solletica l’ego umano.
Se c’è chi spesso parla di uno scontro inevitabile di culture e religioni, provocatoriamente il titolo di questo capitolo conclusivo auspica invece l’opposto: un inevitabile incontro. Non riuscendo a concepire un’esistenza senza Dio, senza valori religiosi, l’Islam non può che rifiutare il mondo edonistico e consumistico fondato soltanto su divertimento e profitto suggerito dalla mentalità occidentale (posizioni che ogni buon Cristiano non può che condividere). Tale via, già intrapresa con coraggio da Papa Giovanni Paolo II[72] invita le parti al dialogo, all’incontro e alla pace. Solo così il mondo occidentale cristiano potrà riuscire a superare questa cruciale situazione, solo così riuscirà ad affrontare questa titanica sfida epocale che ci pone oggi la storia. E a tal proposito, Padre Wilde (Io non ti capisco) ci suggerisce una preziosa riflessione:
Il mondo islamico sembra pensare, sentire e credere in modo così diverso dal mondo occidentale, non era valutabile dall’Occidente, E così si è passati all’attacco, invece di rispettare il mistero e di mettersi alla scoperta di quel mondo…. E’ impossibile imparare a conoscere l’altro e incontrarlo. Ma devo inoltrarmi fino al suo mistero, che giace nel fondo della sua persona, non in superficie… Quanto più una persona mi è estranea, tanto più ha qualcosa da dirmi, e tanto più la mia vita può mutare e arricchirsi quando l’incontro…. La tensione fra i due produce un nuovo mondo in cui ambedue vengono assunti e continuano a esistere in una forma nuova.[73]
Dotata anche di sfumature metafisiche, la lucida considerazione di Reza Shah-Kazemi (Paths of the Heart) svela il mistero dell’incontro con l’altro:
Se l’‘Io’ viene identificato in maniera quasi assoluta con l’ego, con la famiglia, con la nazione, o persino con la religione a cui si appartiene, allora all’‘altro’ – a qualsiasi livello – sarà dato un carattere altrettanto quasi assoluto. Sono proprio tali nozioni esclusiviste del ‘sé’ e dell’‘altro’ che contribuiscono alle dinamiche del sospetto e della paura, del fanatismo, e del conflitto. La metafisica […] serve a relativizzare qualsiasi grado concepibile d’identità dinnanzi all’Assoluto; in altre parole, assicura che nessuna concezione determinata, formale del sé sia assolutizzata o venga venerata, per quanto a livelli inconscio, come un idolo […]. Le limitazioni esistenziali e le pretese psicologiche dell’ego, vengono così abbattute, e una conscia focalizzazione teocentrica sostituisce quella egocentrica, il più delle volte inconscia. […] La conoscenza dell’altro e la conoscenza di Dio sono interconnesse, e dovrebbero essere considerate complementari, tali da rinforzarsi a vicenda […]. Quindi il dialogo – un dialogo radicato sul sincero desiderio di maggior conoscenza e comprensione dell’altro e di se stesso – può essere considerato come un riflesso di quel processo con cui Dio conosce se stesso in modalità distintiva e differenziata, e come una partecipazione ad esso.”[74]
In effetti, il rispetto del prossimo, dell’altro, viene approfondito nella misura in cui si è consapevoli della Presenza Divina, che è all’interno e al di là di sé, come anche all’interno e al di là del prossimo. La prova di tale affermazione l’abbiamo trovata recentemente incarnata nella vita di Madre Teresa di Calcutta che ha donato la sua esistenza all’altro, nella misura in cui aveva deciso di donare la sua esistenza a Dio.
Dunque, in risposta a chi ostinatamente continuerà a temere che quella minoranza pseudo-islamica violenta possa crescere ed invadere la nostra civiltà, distruggendola, l’unico metodo di prevenzione è quello di creare urgentemente solidi legami con l’Islam autentico in nome di una conoscenza reciproca, che potrà avvenire soltanto attraverso un intenso dialogo sino a raggiungere uno stabile punto d’incontro ad un livello di comprensione più profondo, tale da penetrare quel guscio dogmatico che separa le specifiche tradizioni religiose, e ritrovarsi fratelli nella Fede e nell’Amore d’un unico Dio.[75]
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[1] La disinformazione, ovvero un’informazione manipolata e distorta sull’Islam ha in Occidente una vera e propria storia, che parte dalle indecorose biografie sul Profeta scritte nel Medioevo, passa attraverso la più recente visione razionalistica che non poteva che negarne la rivelazione, sino ad arrivare alle mediatiche deformazioni odierne che celano inquietanti progetti politico-economici di chi guarda al mondo musulmano come terra di conquista, e ha quindi interesse a creare nell’opinione pubblica – al di là di un ipocrita senso di ‘democratica tolleranza’, presente purtroppo anche tra alcuni cristiani – un vero e proprio rancore, se non odio, nei confronti dell’Islam.
[2] Filone saggistico che abbiamo avuto modo di approfondire curando la collana ‘Tradizione e traduzione’ (edizioni Terre Sommerse), il cui primo titolo Gli esegeti della Tradizione risulterà propedeutico per il lettore non aduso alla prospettiva tradizionale.
[3] “Il punto di vista tradizionale considera la Rivelazione come un’irruzione dell’atemporale nel tempo, che riporta l’umanità nel pieno ambito della sua origine atemporale e quindi le riporta a mente il suo destino. La manifestazione nel tempo del Cristianesimo è quindi necessariamente anticipata da tutto ciò che la precede, pienamente contemporanea ad ogni momento del tempo, e realizzata da tutto ciò che segue” (Lord Northbourne, Religion in the modern world). Inoltre, come sottolinea Mircea Eliade (Il mito dell’eterno ritorno): “L’irreversibilità degli avvenimenti storici e del tempo viene compensata dalla limitazione della storia nel tempo […]. Nella concezione messianica la storia ha una funzione escatologica, e può essere sopportata solamente perché si sa che un bel giorno cesserà”.
[4] L’umiltà di riconoscersi polvere, ovvero terra – come peraltro evoca anche il rito cristiano quaresimale delle ceneri – viene resa eloquentemente nella sajda, ovvero la prostrazione durante la preghiera, dove il corpo del fedele musulmano è completamente a contatto con la terra. Non è casuale che tale memento sia presente anche nella radice etimologica ebraica del nome Adamo (alla lettera, ‘terra’), come nel termine latino humilia (da ‘humus’).
[5] Tale volgarizzazione non è affatto gradita ai Mussulmani che la considerano irriverente. Ciò è comprensibile in quanto il nome del Profeta nella lingua araba, lingua sacra in cui è stato trasmesso il Corano, ha un suono e quindi un significato ben differente della versione occidentalizzata che offre, al riguardo, assonanze sgradevoli.
[6] L’Islam fa distinzione tra Profeta (Nabī) e Messaggero, ovvero Inviato (Rasul). Gli Inviati fondano le religioni, i Profeti le ritemprano e profetizzano; tuttavia le due funzioni possono occasionalmente coincidere in una stessa persona, come Gesù e Muhammad, Profeti e al contempo Inviati.
[7] Non v’è alcuna innovazione nel messaggio trasmesso a Muhammad: “Non ti sarà detto altro che quel fu detto ai messaggeri che ti precedettero” (Corano XLI, 43). Peraltro il Profeta ha ricevuto tale rivelazione in stato d’estasi, e non vi ha aggiunto nulla di proprio, di qui l’assurdità della definizione coniata in occidente dell’Islam, quale religione maomettana.
[8] “La molteplicità delle razze, delle nazioni, e delle tribù implica per l’Islam rivelazioni diverse: ‘Ad ogni gente abbiamo mandato un messaggero’ (Corano X, 47)”
[9] “Ci sono messaggeri di cui ti abbiamo narrato, ed altri di cui non abbiamo fatto menzione”. Questo passo del Corano (4:164) sembrerebbe allargare la profezia anche al di fuori di Ebraismo e Cristianesimo, estendendo le Genti del Libro anche ad altri culti tradizionali orientali.
[10] Si tratta d’obblighi che trovano peraltro molte somiglianze con quelli della tradizione cristiana, anche se la comune preghiera islamica del venerdì, non ha la stessa importanza del rito domenicale della Messa cristiana.
[11] La parola ulamā’ significa coloro che sanno, che hanno conoscenza non solo in campo teologico, ma anche scientifico (ovviamente di una scienza tradizionale e non di quella progressista ed evoluzionista occidentale).
[12] Una pur buona traduzione del Corano non potrà mai rendere l’emozione, il mistero, ed il fervore che scaturisce dal suono della lingua originale. Tuttavia, mentre i Musulmani ortodossi sostengono che la preghiera rituale debba necessariamente essere compiuta in arabo, alcuni ulama ritengono che in certe occasioni, chi non conosce la lingua originale, può leggere il Corano in traduzione.
[13] Esiste una secolare scienza degli hadith, con studi interpretativi approfonditi imprescindibili.
[14] Nulla a che vedere con l’elitarismo snobista moderno. Si tratta invece di una minoranza d’individui – necessariamente pieni d’amore e compassione per il prossimo – che attraverso un sincero ed autentico percorso religioso hanno ricevuto la grazia di comprendere le dottrine metafisiche tradizionali, realizzandone le finalità. Tuttavia, “il misticismo tende ad oltrepassare i confini che proteggono la fede che è caratteristica al credente. Nel fare ciò s’inoltra in una regione sconfinata che, se benefica e complementare per alcuni, può risultare pericolosa per altri non qualificati a certi insegnamenti” (Huston Smith, The world’s religions).
[15] La libera volontà dell’essere umano di potersi ribellare contro la propria natura primordiale (fatta ad ‘Immagine di Dio’, come affermano i Cristiani, ovvero nella ‘Sua Forma’, come affermano i Mussulmani), e diventare attivo contro il Cielo e passivo verso la propria natura inferiore passionale è una possibilità che anche la tradizione cristiana conosce bene. La funzione delle religioni è sempre stata quella di mettere l’uomo in guardia su tale possibilità, e oggi tali comuni moniti non possono che rafforzarsi a vicenda.
[16] Le parole di Gesù Cristo affermano tale Unità: “Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio” (Luca: 18, 19). Si potrebbe addirittura ipotizzare che il dogma della Trinità, col suo mistero, possa avere anche una funzione simile al koan orientale, ovvero un ‘rompicapo’ che costringe la mente raziocinante alla resa, in modo così d’aprire il cuore alla Grazia divina.
[17] “Alle ragioni teologiche si aggiungono ragioni linguistiche, non trascurabili per la lingua araba, che rendono molto difficile la traduzione di concetti e idee della rivelazione cristiana…. La parola ‘figlio’ (ualad, più ancora che ibn) in arabo ha una risonanza carnale molto netta e per nulla adatta ad una interpretazione metaforica, spirituale o addirittura ipostatica” (Giulio Basseti Sani, Musulmano e Cristiano).
[18] Secondo il Corano, assieme all’anima d’Adamo, è soltanto quella di Gesù ad essere stata generata direttamente da Dio (‘Generato, non creato’ recita anche la preghiera del Credo cristiano). Anche se i Musulmani non riconoscono Gesù come figlio di Dio, non meriterebbe già quel particolare atto generativo il titolo di Figlio prediletto (ovvero di Nuovo Adamo)?
[19] Ad Efeso, il 60% dei pellegrini presso la casa di Maria è di fede islamica.
[20] Secondo la cultura popolare islamica, Cristo sarebbe stato assunto in cielo, mentre la sua crocifissione e la sua morte non sarebbero state altro che frutto di un’illusione generale. Martin Lings (A return to the Spirit), citando il Corano, tenta di sciogliere questo delicato nodo: “E’ un dato di fatto che la maggior parte dei Mussulmani siano convinti che Cristo non fu crocifisso, mentre i Cristiani considerano la Crocifissione come pietra miliare della loro religione. Il rifiuto mussulmano della Crocifissione è basato su un’affermazione coranica isolata dal suo contesto, ma ogni Inviato ha due nature, una trascendente ed una umana. Nel Cristianesimo non è mai messo in discussione che la Natura Divina di Cristo possa essere stata crocifissa; il Corano (II, 154) nega tale possibilità (‘E non dite che sono morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Allah, ché invece sono vivi e non ve ne accorgete’), ed aggiunge poi quelle che sono, nel nostro contesto, le parole fondamentali: ma così apparve a loro d’aver fatto…. perché sulla Croce, dinnanzi a loro, essi avevano visto il corpo morto della natura umana di Cristo”.
[21] Quando nel 1995 il musulmano Yasser Arafat partecipò accanto alla moglie cristiana alla messa di Natale a Betlemme, gli integralisti lo criticarono, ma il Mufti (massima autorità giuridica islamica) dei palestinesi, lo Sceicco Al Alami, dichiarò che ai Musulmani è lecito essere presenti alla messa di Natale.
[22] Molti Cristiani sono rimasti stupefatti nel venire a sapere che al terrorista kamikaze-‘martire’ che rinuncia alla vita, viene garantito nell’aldilà di accedere al paradiso (questo assunto è naturalmente il frutto di una libera interpretazione d’alcune ‘guide spirituali’ dell’integralismo islamico); eppure di fronte al tragico episodio dei Carabinieri caduti vittime nell’attentato dinamitardo a Nassirja (2006), c’è chi ha definito martiri quei caduti, senza sapere che martire è colui che muore nel nome e per causa di Gesù Cristo, e non un militare che cade – pur se in missione di pace – in una zona di guerra. Onore militare a quelle vittime, ma parlando di martirio – che sappiamo conduce al paradiso l’essere umano che vi si sottopone consapevolmente – si rischia di porsi su di un piano confuso, simile a quello integralista (anche se permane la differenza sostanziale tra chi fa anche da carnefice e chi è solo vittima). Comunque ciò non toglie che tra quelle vittime dei Carabinieri non possa davvero esserci stato qualche martire, ovvero qualche uomo di fede che vedeva in quella missione un’occasione di sincera espressione cristiana d’amore e di pace, e che forse, chissà, quella mattina, prima dell’esplosione, invece di dormire era a vegliare in preghiera (ma questo, solo Iddio lo sa).
[23] Nella presenza femminile di Beatrice, come guida in Paradiso, Dante ha voluto forse alludere in un certo qual modo a tale sfera.
[24] Il matrimonio è per l’Islam l’unico ambito in cui è concessa l’unione sessuale, di qui la possibilità della poligamia, evitando quindi ogni sorta di promiscuità – come invece avviene spesso nella società occidentale, dove il tradimento del partner, anche all’interno del matrimonio, è assai diffuso. E’ necessario però che l’uomo sia in grado d’essere equo con le mogli: il che è quasi impossibile. Quindi il Corano indica la via della monogamia matrimoniale come la più adatta, e se il divorzio viene concesso in casi eccezionali, non risulta gradito ad Allah.
[25] La monogamia cristiana riflette invece il matrimonio dell’unica Chiesa – l’anima – a Cristo.
[26] Valore che anche la tradizione cristiana le riserba – come ha saputo ben evidenziare Philip Sherrard nello specifico studio Cristianesimo ed Eros – anche se il più delle volte, gran parte dell’esegesi sull’argomento è stata nei secoli assai contraddittoria.
[27] Anche il saluto islamico al-salāmu ‘alaykum, trova corrispondenze notevoli al cristiano ‘la pace sia con te’, (o al motto monastico ‘pace e bene’), e la formula di chiusura della preghiera amin, è pressoché identico all’‘amen’ cristiano.
[28] “Il fatto che l’Islam venga cronologicamente dopo il Cristianesimo, il che per i Musulmani dimostrerebbe il suo legittimo sostituirsi ad esso, deve essere valutato alla luce del momento storico in cui ha avuto origine. Qui non è il tempo, ma il luogo che va preso in considerazione” (Giulio Basetti Sani, Musulmano e Cristiano).
[29] Tuttavia il ‘Grande Consolatore’ (paraclitos) annunciato nei Vangeli, ovvero lo Spirito Santo dei Cristiani, viene letto nell’esegesi teologica mussulmana come ‘Il degno di lode’ (periclitos) riferito alla venuta del Profeta Muhammad.
[30] Quei moniti dovrebbero rivolgersi ormai altrove, visto che la religione islamica ha saputo dare testimonianza di santità e saggezza. “Da oltre tredici secoli, Cristiani e Musulmani vivono fianco a fianco in Medio Oriente ed hanno avuto ampie opportunità di vedere che ‘l’altra religione’ è a tutti gli effetti autentica come la propria” (Martin Lings, A return to the Spirit).
[31] “Le tradizioni sacre parlano dell’obbligo di accogliere l’estraneo e di rendersi conto che, sebbene sia sconosciuto all’ospitante, egli è perfettamente conosciuto da Dio. È quindi dovere di colui che si trova nel proprio spazio e nella propria lingua fare di tutto perché il nuovo arrivato sia messo nelle condizioni di conoscere i costumi dell’ospitante e la propria alterità, e quindi ricevere dall’ospite tutto ciò che gli offre, nella misura in cui non vi sia alcuna azione di forza. L’estraneo è dunque ospite dinnanzi a Dio, proprio come l’ospitante, ma l’impotenza rispetto all’ospitante gli dà diritto di ricevere tale accoglienza: l’ospitante ha un debito nei suoi confronti, non inferiore alla testimonianza dell’onnipresenza del Volto di Dio” (Rusmir Mahmutćehajić & others, The essential Sophia).
[32] Da questo punto di vista risulta assai prezioso lo studio di Martin Lings Simbolo e Archetipo.
[33] Il termine ecumenico deriva dal greco oikouméné, che significa ‘terra abitata’ e, più in generale, la parte abitabile della superficie terrestre, e allude all’umanità intera e alla sua comune fratellanza.http://it.wikipedia.org/wiki/Ecumene
[34] Se infatti consideriamo l’allegoria solare scelta, sicuramente ispirata, non possiamo che essere consapevoli che ogni raggio del sole ha eguale valore, provenendo dalla medesima fonte.
[35] Apparirebbe davvero strano che la provvidenza dello Spirito Santo possa aver ispirato soltanto un flebile messaggio di questo tipo; la portata profonda e rivoluzionaria (nella sua accezione etimologica di ‘ritorno al principio’) della dimensione ecumenica dev’essere ancora realizzata, e spetta a noi laici assieme al clero affrontare questo delicato discorso con massima serietà d’intenti ma anche con coraggio: non serve a nulla risolvere l’argomento con un paio di comodi slogan. Naturalmente ciò non ha niente a che fare con qualsiasi sconsiderato invito al sincretismo – di queste pseudo-vie dello spirito è già pieno il mondo – ma si tratta qui di un approccio ben differente, tale da offrire a chi lo riesce a comprendere, un supporto intellettivo alla propria via devozionale.
[36] Ci siamo chiesti più di una volta come sarebbero andate a finire certe recenti questioni di politica estera, se non ci fossero state a disposizione dell’autorità ecclesiastica queste direttive pastorali, quantomeno utili a smussare gli angoli delle contese, ma soprattutto essenziali per evitare una pericolosa contrapposizione tra Occidente cristiano e Medio Oriente islamico.
[37] Martin Lings (Un santo sufi del XX secolo) ci riferisce che, in maniera velata, tale idea è stata espressa da Papa Pio XI°, che parlando confidenzialmente al cardinale appena nominato Delegato Apostolico in un paese di fede islamica, disse: “Non pensare che stai andando fra gli infedeli. I Mussulmani giungono anch’essi alla Salvezza. Le vie della Provvidenza sono infinite.”
[38] La diversità delle religioni andrebbe accettata ed apprezzata per l’implicita ricca complementarità di più tradizioni, tutte indispensabili nella perfezione del disegno divino.
[39] “Se affermo di essere cattolico solamente col negare tutto ciò che è mussulmano, ebreo, protestante, indù, buddista etc., alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico; certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo… È nella nostra storia che Dio è entrato, rivelandosi come uomo, ed è a noi che fu affidato il compito di portare la sua rivelazione alle altre culture…. e se questo compito richiedeva l’umile, attento e preciso riconoscimento del modo in cui le altre tradizioni erano già aperte alla possibilità di Dio nell’Uomo, la missione occidentale verso il resto del mondo è stata un grosso fallimento” (Thomas Merton, Diario di un testimone colpevole). Nella storia dell’attività missionaria cristiana sono infatti emersi, per il mondo islamico, motivi di diffidenza, avendo visto tale opera spesso connessa al colonialismo ed alla conseguente opera di secolarizzazione sul ‘modello’ occidentale.
[40] Addirittura, vi sono infinite e provvidenziali sfumature nell’approccio d’ogni singolo individuo, all’interno di una specifica tradizione religiosa. I Sufi (la cosiddetta elite mistica della tradizione islamica) affermano che i sentieri che portano a Dio sono tanti quanti i figli d’Adamo.
[41] Oggettivamente Dio è unico per tutte le religioni, ma soggettivamente, per ciascuna religione, la divinità può apparire differente.
[42] I vari idiomi, come le religioni, aderiscono a realtà geografiche, storiche e culturali diverse, nonché a quelle psicofisiche delle popolazioni in questione.
[43] Nell’Islam, nonostante non vi siano ordini monastici, c’è profondo rispetto dei santi cristiani delle chiese e dei monasteri e ciò proviene direttamente dagli hadith del Profeta Muhammad. E pensate, la più antica comunità monastica cristiana esistente, quella di Santa Caterina sul monte Sinai, contiene una moschea nel suo perimetro, costruita dai monaci per i beduini locali, quale più splendido esempio pratico d’ecumenismo?
[44] Anche Henry Corbin (a differenza di molti altri orientalisti) dimostra, dai suoi scritti, di averne colto l’essenza profonda.
[45] Coloro che sono affiliati al tasawwuf (Sufismo), e praticano la Via, vengono chiamati fuqarâ, plurale di faqir, di qui l’italiano ‘fachiro’, che però ne stravolge il senso reale. Lo stesso tipo d’imprecisione lessicale della traduzione – dovuta ad un retaggio di una conoscenza alquanto sommaria del mondo islamico – si verifica peraltro per i termini ‘califfo’ (da khalifa, luogotenente del Profeta) o ‘sceicco’ (da shaikh, letteralmente anziano, ma assai utilizzata nella sua accezione di maestro spirituale).
[46] Giulio Basetti Sani (Cristofania dell’Averna) ha peraltro messo in relazione l’evento delle stigmate di San Francesco presso la Verna, con l’esperienza che ebbe nel mondo musulmano. La particolare lettura di quell’episodio da parte dell’autore francescano, pur essendo fortemente cristocentrica, non si pone in contrasto con la fede dell’Islam, ma invita il Musulmano ad una verifica escatologica, che potrà rendersi palese con la Parusia, ovvero col ritorno del comune Messia.
[47] Nell’esicasmo viene ripetuta incessantemente la formula: “Signore Gesù Cristo! Abbi pietà di me!”: Si tratta della cosiddetta preghiera del cuore, che tende ad entrare ed a stabilizzarsi nel cuore dell’orante in maniera permanente, proprio come nella ripetizione dei nomi di Allah nel dhikr.
[48] L’etimologia del termine Saraceno deriva da Sara (moglie d’Abramo e madre d’Isacco) e kenos (privazione, svuotamento), che allude al fatto che la discendenza musulmana non deriva Sara ma da Agar (concubina d’Abramo e madre d’Ismaele), di qui anche la definizione dei Musulmani come agareni.
[49] “Oh uomini! Vi abbiamo creati maschi e femmine, e abbiamo costituito nazioni e tribù, così che possiate conoscervi” (Corano, XLIX: 13). La differenziazione, all’interno dell’umanità, riguardo a genere, razza e religione, ha dunque essenzialmente una funzione cognitiva.
[50] Di per sé risulta più iconoclasta l’ebraismo, che priva il testo scritto della Bibbia delle vocali, considerate lettere sacre.
[51] Si tratta dell’unico esplicito riferimento alla realtà dell’Islam, riscontabile nel corpus letterario shakespeariano.
[52] Un rispetto che non è l’ipocrisia della ‘democratica tolleranza’ (tipico atteggiamento moderno che l’epoca del XVI° secolo non aveva ancora conosciuto), ma profonda consapevolezza della molteplicità delle vie che possono condurre a Dio.
[53] “Non dialogate se non nella maniera migliore con la gente della Scrittura, eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite loro: ‘Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi, e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo’” Corano (XXIX, 46).
[54] ‘Non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada’ (Matteo 10, 34).
[55] Si legga la citazione evangelica della precedente nota del presente capitolo, dove peraltro il simbolismo della spada e quello della croce tendono a coincidere anche esteriormente.
[56] Il termine arabo kafir tradotto con ‘infedele’ in realtà allude etimologicamente a colui che manca di riconoscenza (ovviamente nei confronti di Dio).
[57] Solo da ciò si evince come l’atto terroristico contro il World Trade Center, che ha portato alla morte in maniera indiscriminata centinaia di individui, non possa avere nulla a che fare con la vera jihad (infatti fu subito condannato dalla massima autorità religiosa sunnita); lo stesso vale per l’attentato alle truppe italiane di Nassirja in missione di pace (in quest’ultimo contesto forse non è stato facile per molti iracheni vedere dei promotori di pace in truppe armate straniere che presidiano un particolare territorio).
[58] È stato il movimento modernista, di tipo puritano, Salafiyysh-Wahhbi, a fornire le basi ideologiche al terrorismo integralista.
[59] Pier Paolo Pasolini, nauseato da tale aspetto della società moderna occidentale, viaggiava spesso nei paesi islamici, attratto da quello spirito tradizionale che in Italia vedeva ormai scomparire.
[60] D’altronde, viviamo in una società e in un’epoca dove il contentarsi, o rassegnarsi alla volontà di Dio, significa mancare d’iniziativa; dove fermezza di fede, timore di Dio e pietà, vengono considerati forme di debolezza o bizzarrie; dove l’indifferenza riguardo all’aspetto fisico e il sottrarsi da un sistematico presenzialismo, sono intesi come trascuratezza e misantropia.
[61] Nella società islamica l’educazione dei figli è tenuta in grande considerazione ed è assegnata alla donna che di buon grado vi si dedica, evitando così di cedere alle lusinghe delle attività lavorative moderne, mantenendo di contro le caratteristiche di quella femminilità, indispensabile perché il rapporto con l’uomo possa risultare perfettamente complementare.
[62] Sarebbe oggi il caso di aggiungere: due genitori ‘di sesso differente’, viste le proposte legislative che vorrebbero affidare l’adozione di bambini anche a coppie omosessuali.
[63] Ogni musulmano non potrebbe che sottoscrivere le parole di Gesù Cristo che fanno parte della preghiera cristiana del Padre Nostro: “Sia fatta la Tua Volontà come in Cielo così in terra”.
[64] Oltre ai noti episodi storici di conversione forzata all’Islam da parte di gruppi di potere del mondo mediorientale, dobbiamo registrare anche inquietanti esempi di conversione forzata al cattolicesimo. Ad esempio, nel 1941 in Croazia, Pàvelic – dittatore fanatico cattolico – impose la pena di morte su coloro che rifiutavano le sue direttive di sposare la fede cattolica; e nonostante che il vescovo A. V. Stepinac si oppose fermamente a ciò, la carneficina non fu evitata.
[65] In tale contesto gli eccessi nazionalistici del movimento sionista, nonché gli integralisti evangelici di radici anglo-americane che lo appoggiano per propri tornaconti ‘escatologici’, sono i ‘frutti’ di una stessa inquietante matrice diabolica che mira al caos, e che secondo le sacre scritture delle tre tradizioni monoteiste in questione, non potrà che condurre alla fine di questo mondo.
[66] Quel che oggi viene considerato ‘progresso’ è nella sua natura essenziale desiderio di denaro e di posizione sociale all’interno di una società secolarizzata, e ciò porta alla distruzione di ogni genuina etica umana.
[67] La maggior parte dei Cristiani sono rimasti dispiaciuti quando nella recente costituzione della Comunità Economica Europea non è stato inserito alcun riferimento alla nostra tradizione religiosa; tuttavia ci viene oggi da pensare che tale omissione potrà addirittura rivelarsi provvidenziale, nel momento in cui le scelte politiche dovessero imporre – a suon di direttive comunitarie – una completa laicizzazione: almeno sarà chiara la posizione del Cristiano autentico in tale frangente, e sarà anche più facile per il Musulmano sentirsi con lui solidale.
[68] Il famoso romanzo Il mondo nuovo dello scrittore inglese del XX secolo Aldous Huxley ne descrive, in modo assai lungimirante, i paradossali, tragici sviluppi. L’utopia è ben altra cosa: ad esempio l’interessantissima proposta di Waleed El-Ansary, di depoliticizzare Gerusalemme e trasformarla in entità spiritualmente sovrana, sotto il comune controllo teocratico dei rappresentanti spirituali delle tre tradizioni monoteistiche. Purtroppo il destino di Gerusalemme – e su questo le Sacre Scritture hanno lasciato molti indizi – sembra essere di natura ben diversa.
[69] “Ci troviamo a vivere proprio nel momento preciso in cui l’ottimismo eccessivo del mondo materialista è precipitato nella rovina spirituale, in una società di gente che ha scoperto la sua nullità, là dove se lo sarebbe meno aspettato: nel bel mezzo della potenza e del successo della tecnica. Ne risulta un’ambivalenza angosciosa, in cui ognuno si trova costretto a riversare sul suo prossimo un fardello di odio di sé, troppo pesante perché la sua anima lo sopporti da sola” (Thomas Merton, Diario di un testimone colpevole).
[70] Tomaso Campanella nel suo Theologicorum (scritto nelle prigioni pontificie nel XVI° secolo) prevedeva che l’Islam avrebbe portato in futuro un aiuto al Cristianesimo, che già da allora mostrava in alcune cattive abitudini (non certo nella sua essenza immutabile), segni di sviamento. Che sia vicino il contesto storico presagito da Campanella?
[71] “Quando un estraneo attraversa un confine per entrare nello spazio di un altro, entrambi – ospitante e ed estraneo – si trovano dinnanzi a ciò ch’è sconosciuto[…]. L’ignoranza d’entrambe le parti provoca paura, che viene troppo spesso risolta in sottomissione, persecuzione o annientamento dell’estraneo […]. Ogni potere che non sia quello dell’Assoluto può essere giustificato soltanto dalla paura dell’altro. Più grande è la volontà di potere, più profonda sarà la paura dell’altro” (Rusmir Mahmutćehajić, The essential Sophia).
[72] Giovanni Paolo II, a Casablanca (19/09/’85), rivolto a migliaia di giovani Musulmani disse: “Cristiani e Musulmani, generalmente ci siamo malcompresi, e qualche volta in passato, ci siamo opposti e anche persi in polemiche e in guerre. Io credo che Dio c’inviti oggi, a cambiare le nostre vecchie abitudini. Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino. Voi sapete, con me, quale è il prezzo dei valori spirituali. Le ideologie e gli slogan non possono soddisfarvi né risolvere i problemi della nostra vita. Solo i valori spirituali e morali possono farlo, ed essi hanno Dio per fondamento. Auspico, cari giovani, che possiate contribuire a costruire un mondo in cui Dio abbia il primo posto per aiutare e salvare l’uomo. Su questo cammino siate certi della stima e della collaborazione dei vostri fratelli e sorelle cattolici, che io rappresento tra voi questa sera”.
[73] “Ogni ‘io’ umano ha bisogno di un ‘te’ per far sì che Colui del Quale entrambi siamo immagine possa essere attestato, e per dare la possibilità che il sé riesca a riconoscersi, visto che potrà vedersi soltanto nell’altro […]. Soltanto nel riconoscimento dell’altro è possibile l’umiltà del sé dinnanzi all’Altro, infatti ogni altro è l’immagine e il segno dell’Altro. Tuttavia, nella prospettiva del mondo moderno, basata sulla nozione dell’autonomia del sé, tale concetto di alterità viene ignorato o addirittura negato” (Rusmir Mahmutćehajić, The essential Sophia). Impossibile a tal proposito non ricordare il passo evangelico (Matteo 26, 40): “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
[74] “Ero un tesoro nascosto ed amavo essere conosciuto, quindi ho creato il mondo” (hadīth del Profeta).
[75] In fondo, tutti coloro che credono in Dio appartengono alla stessa comunità di fede, fanno parte della stessa Umma.
La ricerca alchemica in alcune lettere di Giuseppe Francesco Borri ( XVII secolo).
La ricerca alchemica in alcune lettere di Giuseppe Francesco Borri ( XVII secolo).
Testo:
<<Dalla sua vedo, come nel vicinato della Savoia, V. S. ha trovato alcune miniere il cui valore V. S. non sa per non avere il segreto di estrarre il metallo dalla terra, e come desidera che io glielo dij. Cosa che gli dirò. Che molti s’appongono verso le le Alpi a cercare miniere, ma io stimo che non vi sia profitto di rilievo, perché mi sembra che non vi sia tanto calore che sia sufficiente per cuocere la terra disposta. Pure perché potrei ingannarmi, la sodisferò in quanto mi domanda. In ogni miniera vi è qualche sorta di mercurio volatilissimo, e gran quantità di solfo, pure volatile al maggior grado. Ora questi sono come gli uccelli rapaci, che pigliano sovente il migliore, e se ne volano colla bocca piena, sì che alle fiate se non si trova metallo fino nelle miniere, non è già che non ve ne sia, ma perché il solfo lo porta seco, quando viene scacciato dall’ardore del fuoco. Che bisogna dunque fare ? Bisogna fare in modo di pasturare questo solfo, questo uccello rapace, affinché avendo il becco pieno, non possa pigliare il metallo fino, e così possa rimanere in fondo al crucciuolo, quando coll’ardore del fuoco e del flusso si fa separare dalla terra impura, e si fa staccare da quelle parti terrestri, cole quali è conglutinato dal mercurio.>>
Commento:
<<Dalla sua vedo, come nel vicinato della Savoia, V. S. ha trovato alcune miniere il cui valore V. S. non sa per non avere il segreto di estrarre il metallo dalla terra, e come desidera che io glielo dij. Cosa che gli dirò.>> Il Sig. nn di Torino ha precedentemente informato Borri che ha trovato alcune “miniere” ovvero cercatori di verità e chiede a Borri come procedere nel lavoro con questi. <<Che molti s’appongono verso le le Alpi a cercare miniere, ma io stimo che non vi sia profitto di rilievo, perché mi sembra che non vi sia tanto calore che sia sufficiente per cuocere la terra disposta.>> I cercatori in questione, probabilmente, fanno parte di un circolo di intellettuali e Borri esprime le sue riserve sul freddo intellettualismo. Spesso chi si compiace della propria intelligenza gode della ricerca solo per gratificare se stesso. Il suo intelletto è freddo e calcolatore e non è scaldato dal fuoco di un desiderio di conoscenza che parte dal cuore. Per questo motivo la terra, la personalità, non può essere “cotta”, trasformata. <<Pure perché potrei ingannarmi, la sodisferò in quanto mi domanda.>> Tuttavia Borri non vuole escludere che dietro ad una ricerca di tal fatta vi siano moventi, non apparenti, più profondi. Per questo motivo da istruzioni al sig. nn su come procedere con tali cercatori. <<In ogni miniera vi è qualche sorta di mercurio volatilissimo, e gran quantità di solfo, pure volatile al maggior grado. Ora questi sono come gli uccelli rapaci, che pigliano sovente il migliore, e se ne volano colla bocca piena, sì che alle fiate se non si trova metallo fino nelle miniere, non è già che non ve ne sia, ma perché il solfo lo porta seco, quando viene scacciato dall’ardore del fuoco>>. Prima di tutto Borri spiega che nel cercatore vi è un’anima naturale una “sorta di mercurio volatilissimo” e l’Ego “gran quantità di solfo, pure volatile al maggior grado”. Anima naturale ed Ego dominano su tutto il sistema della personalità. L’Ego lega il sistema a sé e se non acconsente a che il lavoro si compia, erige barriere inormontabili che non lo permettono. <<Che bisogna dunque fare ? Bisogna fare in modo di pasturare questo solfo, questo uccello rapace, affinché avendo il becco pieno, non possa pigliare il metallo fino, e così possa rimanere in fondo al crucciuolo, quando coll’ardore del fuoco e del flusso si fa separare dalla terra impura, e si fa staccare da quelle parti terrestri, cole quali è conglutinato dal mercurio.>> Borri suggerisce di “pasturare” l’Ego, ovvero dargli in pasto un alimento che possa accettare, così che lasci la presa del microcosmo e non impedisca la separazione dei “metalli”, della parte divina dalla “terra impura”, ovvero, dalla natura materiale caduta.
Ma cosa significa pasturare l’Ego?
Ricordo che Max Heindel scrisse che<< quando la mente è appagata lascia la strada libera verso il cuore>>. Concretamente credo significhi dare in pasto all’Ego una filosofia debitamente orientata che sazi la mente e che nel contempo alimenti, quell’io (l’io Giovanni), che risponde positivamente all’impulso che dal cuore del microcosmo spinge alla ricerca, sulla base del pre-ricordo, ovvero del presentimento di un lontano tempo in cui l’Uomo Originale cammminava mano nella mano con Dio. Così facendo, tale “io”, il Giovanni nel cercatore, può crescere e compiere il suo lavoro per rendere diritti i cammini per il Dio in sé. Il legame del micorocosmo con la natura materiale decaduta, dice Borri, “è conglutinato dal mercurio”, ovvero, dall’anima naturale . Questo “io” Giovanni deve attaccare alla radice lo stato d’anima naturale per realizzare la separazione dalle forze di questa natura. Nel resto della lettera Borri prosegue le sue istruzioni in merito ai processi interiori che devono compiersi.
Note lessicali:
s’appongono = si mettono
Fiata = Volta da cui Fiate = Volte
al maggior grado = moltissimo
conglutinato = tenuto assieme
L’unità organica della conoscenza secondo la Tradizione
L’unità organica della conoscenza secondo la Tradizione
In questo articolo vogliamo affrontare il tema dell’Unità metafisica della conoscenza (concetto a noi particolarmente caro) da un punto di vista organico così come lo intende la Tradizione. Il tema dell’Unità metafisica, peraltro, è stato il filo conduttore di tutti i nostri precedenti articoli, benché talvolta lo abbiamo solamente accennato brevemente o superficialmente. A nostro avviso un riferimento che risulti adeguato a questo tipo di speculazione è da farsi alla dottrina induista del Veda, in quanto è necessario cercare di mantenere un orientamento, citando ancora Evola, “dall’alto verso l’alto”. E’ fondamentale una visione metafisica “pura” di tale concetto, priva di qualsiasi forma di dualismo e di contrapposizione tra spirito e materia (per usare due termini moderni, che in questo caso non si rivelano particolarmente adeguati) e che solo il riferimento a quella Tradizione ci può garantire. In essa, infatti, non si considera il dualismo in antitesi tra spirito e materia, come si potrebbe erroneamente pensare, si tratta, bensì, di un antagonismo illusorio, esclusivamente metafisico, che si identifica e deriva da un unico Principio e Origine. Questo apparente dualismo è costituito da Purusa e Prakrti, Principio dell’assoluto non-manifestato e manifestato. In questa entità metafisica Purusa costituisce l’essenza, mentre Prakrti è l’esistenza o, per usare un termine aristotelico, la sostanza. Pertanto si tratta, non di due realtà separate e distinte fra loro, ma di due “caratteri” del Principio unico a cui appartengono, ontologicamente indirizzato su un piano di manifestazione essenziale, sostanziale ed esistenziale. A questa visione unitaria si potrebbe obiettare argomentando che vi siano state differenti ramificazioni metafisiche e cosmologiche della dottrina vedica, succedutesi e sviluppatesi nei secoli, ma questa non riteniamo sia la sede adatta a dimostrare come queste dottrine non contengano, a rigore, contraddizioni e differenze tali da poter parlare di eterodossia o di ortodossia né, tanto meno, di sincretismi o contrapposizioni. Su questo tema invitiamo a fare riferimento al saggio di René Guenon: L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta. Infatti, Guenon ci spiega che:
“La dottrina del Veda, vale a dire la Scienza Sacra tradizionale per eccellenza, poiché tale è il senso proprio di questa parola, è il principio e il fondamento comune di tutti i rami, più o meno secondari e derivati, che sono quelle concezioni diverse di cui alcuni hanno fatto, a torto, altrettanti sistemi rivali e contrapposti (la radice “vid” da cui derivano Veda e vidya, in latino “videre”, significa nello stesso tempo “vedere” e “sapere”. La vista è presa come simbolo della conoscenza di cui è il principale strumento nell’ambito sensibile. Questo simbolismo è trasposto fin nell’ordine intellettuale puro, dove la conoscenza è paragonata a una “visione interiore” come indica l’uso di termini come “intuizione” ad esempio). In realtà, queste concezioni, fintanto che sono in accordo con il loro principio, non possono evidentemente contraddirsi fra loro, e al contrario non fanno che completarsi e chiarirsi a vicenda.”
Questa Unità identitaria, essenziale e sostanziale, in Mandukya Upanisad, III, 7, viene spiegata nel modo seguente:
“Come l’aria racchiusa nella brocca non è una trasformazione, né una parte dell’aria esterna ad essa, così il sé individuale non è né una trasformazione né una parte del Sé universale.”
Dietro la molteplicità apparente vi è una realtà intenzionale: l’Unità sta nel Fine, che equivale e corrisponde al Principio, ovvero rappresenta il punto coincidente di Origine e Orizzonte allo stesso tempo. Il rapporto tra Unità e molteplicità è il medesimo che intercorre tra qualità e quantità e tra essenza ed esistenza e possiamo spiegarlo richiamandoci all’Uno di Plotino e al processo di emanazione degradante delle ipostasi. Già nel Veda si parla dell’Uno, che nelle Upanisad è rappresentato come Origine divina, Fonte e Fine di tutti gli esseri. Nell’inno 90 del libro X° del Rgveda viene affrontato e risolto il rapporto tra l’Unità e il molteplice: Purusa è allo stesso tempo trascendente ed immanente, ma nel senso che l’immanente non può esistere separatamente e indipendentemente dal trascendente, bensì è con esso in rapporto di coessenzialità; e dunque Prakrti può essere considerata la parte immanente di Purusa. Viene esclusa qualsiasi forma di eterodossia o sincretismo; anzi, al contrario queste cominciano laddove vi è contraddizione e frammentazione. In fondo non è altro che l’ambizione individualista dell’uomo moderno a tendere verso la frammentazione e ad allontanarsi dal Principio, sospingendo all’estremo relativismo ogni forma di conoscenza, che in questo modo viene ridotta a “scienza” e a “sistema”. Risulta evidente che la conoscenza metafisica, la quale considera illusoria la realtà (nel significato che le attribuiamo noi occidentali) e tutto ciò che appartiene all’ambito individuale, è svincolata da ogni contesto relativo e da tutte le contingenze particolari, anche religiose o filosofiche, quando queste abbiano la pretesa di costituire un “sistema”. Infatti la metafisica è essenzialmente “conoscenza dell’Universale” e pertanto non può lasciarsi racchiudere in alcun tipo di sistema in quanto, proprio perché chiuso, è sempre relativo e dunque illusorio. D’altronde, perfino Leibniz aveva dimostrato come la concezione meccanicistica cartesiana non potesse avere altre pretese se non quella di “rappresentare” soltanto le apparenze esteriori delle cose, per questo illusorie e senza alcun valore esplicativo. Abbiamo più volte definito il carattere predominante della scienza moderna come oggettivo e quantitativo, ma se il riferimento alla Tradizione è sempre e incondizionatamente il Principio, qui allora non può che trattarsi di qualità pura. Questo significa che la moderna concezione dell’esistenza tende ad allontanarsi, gradualmente ma inesorabilmente, da quel Principio di Unità che abbiamo definito “qualità pura”, la cui direzione degrada sempre più verso un’esistenza quantitativa e sempre meno qualitativa. La nostra epoca è governata principalmente da una continua rincorsa verso una crescita economica e, quindi, materialistica e quantitativa. Si assiste, quale conseguenza di questa follia, tutta umana e prevalentemente occidentale, ad una mercificazione disinvolta e spregiudicata, dalla quale neppure gli esseri umani sono dispensati, di tutto ciò che può avere una collocazione di “mercato”, ovvero che possa essere acquistato o venduto in cambio di un corrispettivo. Il valore di ogni uomo viene misurato in base a ciò che possiede in termini di ricchezza materiale e alla sua capacità di accrescere tale ricchezza. La conseguenza di questo ha portato ad una semplificazione e ad un appiattimento uniformante del pensiero e alla suddivisione nel mondo in due sole categorie semplici di persone, catalogabili come “offerenti” e “consumatori”. In un simile contesto sociale il valore ha dovuto cedere il suo primato sul prezzo e, di conseguenza, il concetto di quantità ha preso il sopravvento su quello di qualità. L’apparire e il possesso materiale sono divenuti l’ossessione perpetua, in luogo dell’essere se stessi o del divenire se stessi. Sono venuti meno quei bisogni legati, e solidamente strutturati, a più nobili ad elevati concetti, appartenenti a quei valori perdenti o perduti. Le società moderne, le società materialistiche, proiettano il proprio io nella semplicità dell’esistenza, negandone la complessità mediante un rifiuto, o rinuncia: credere che a nulla possa valere succedere la problematicità alla semplicità. Così facendo mettono in atto il dissolvimento del bisogno della possibilità, ovvero limitano il proprio orizzonte visivo e indirizzano l’esistenza in una direzione obbligata e circoscritta, sempre più verso l’oscurità di un individualismo quantitativo. Affinché non vi siano equivoci con la moderna interpretazione del termine “valore”, anche qui prevalentemente quantitativa, si rende necessario fornire un chiarimento sull’interpretazione che vogliamo adottare, di cui è preminente il significato ontologico e tradizionale. Con Platone il fondamento del concetto di valore sta nell’equiparazione di Buono=Bello=Vero. Questa concezione è stata assunta anche dal Cristianesimo, poiché Dio, oltre che onnisciente e onnipotente, è l’essenza della bontà, della bellezza e della Verità. Il concetto di bene, nel suo processo di manifestazione, assume un significato pragmatico e si identifica con quello di “azione buona”, opponendosi a quello di male. Anche a questo proposito, il secondo termine ha assunto nella storia del pensiero occidentale sia un significato morale che ontologico. Nel pensiero orientale il male è anche gnoseologico, perché corrisponde alla “ignoranza del Divino e del Vero”. Dunque il valore diviene un fine e non può subire alcuna limitazione quantitativa né, tanto meno, mercificatoria. Nella società antica, a differenza di quella moderna (se ancora questa può chiamarsi legittimamente società) governava una unità sostanziale, che si manifestava nella ritualità dei gesti quotidiani (mangiare, dormire, andare a pesca e a caccia, offrire sacrifici alla divinità, etc.). Questi gesti, nel richiamarsi continuamente al Trascendente, si fondavano sull’identità unitaria e immediata del singolo con l’assoluto. In questo senso l’Unità diveniva organica, in quanto nessun atto o azione erano esclusi dall’essere compresi essenzialmente e sostanzialmente nella Qualità Divina Trascendente. Identità che viene spazzata via dall’avvento dirompente del moderno meccanicismo quantitativo e dal razionalismo, che degenera nell’ambito dell’individualismo più becero. La volontà soggettiva non era che un momento dello Spirito Universale, dove il singolo era realmente ed effettivamente parte integrante dell’assoluto e dello Spirito Universale e con esso si identificava. Nessun particolarismo turbava il senso etico e la società era caratterizzata da una simbiosi compenetrante tra individui e comunità e dunque tra corpo sociale e assoluto. In quel contesto nessuno dei componenti assumeva carattere individualistico o un ruolo diverso da quello che gli competeva; ognuno si sentiva ed era realmente un “momento cosmico”, allo stesso tempo essenza e forma, che nella tradizione indù viene designato come nāma e rūpa. Il principio formale compenetrava il principio materiale e ne costituiva l’essenza. In questa simbiosi si costituiva la vera Unità organica metafisica del particolare nell’universale. Questo percorso temporale, che va dalla Tradizione all’era moderna, secondo una visione post-tradizionale assume un carattere storico, in quanto si è voluto stabilire un “punto di rottura” tra due tipi di concezione cosmica. Ma mentre per i moderni il punto di rottura in questione costituisce una “separazione” netta e inconciliabile tra due fasi storiche differenti, per noi il termine “rottura” costituisce un punto di collegamento tra due fasi cicliche del nostro Manvantara. Esso è “un ponte e un passaggio” e “discesa verso l’oscurità”; il che ci riconduce al concetto delle fasi cicliche appartenenti all’ambito tradizionale. Nella dottrina indù, ma non solo, si fa riferimento al movimento unitario dei cicli cosmici (in antitesi col tempo storico lineare) di evoluzione e involuzione dell’universo. Uno dei cicli è il Kalpa, che equivale a un giorno di vita di Brahama e comprende sette Manvantara, durante i quali avvengono i processi di emanazione del manifestato: il pralaya, che equivale alla distruzione parziale e alla rigenerazione del cosmo e il mahapralaya, che equivale alla sua distruzione totale, in coincidenza con la fine della vita di Brahama. Secondo questa concezione nella nostra epoca viviamo gli ultimi anni del settimo Manvantara, che corrisponde al massimo grado di decadenza e oscurità di un Kalpa, in cui gli esseri umani improntano la propria esistenza concependola quantitativamente e perdendo di vista, a causa del loro continuo allontanarsi dal Principio, la propria Origine e il proprio Orizzonte. Il punto più basso e più oscuro a cui la nostra epoca deve sottostare corrisponde ad una esistenza basata sulla quantità pura, estranea a qualsiasi concezione qualitativa. Da questo punto di vista la nostra percezione della realtà equivale ad un’ombra riflessa o a un’immagine invertita in cui, come nel mito della caverna di Platone, gli uomini incatenati scambiano la falsa realtà delle ombre riflesse sul muro con la Verità alle loro spalle, nascosta ai loro occhi. Analogamente nella Tradizione mitologica greca si sono teorizzati i cicli di decadenza come Età: Età dell’oro, Età dell’argento, Età del Bronzo ed Età del Ferro, che equivale alla nostra attuale epoca. La connessione identitaria tra Origine e Orizzonte, che si compie alla fine di ogni ciclo, annulla e dissolve l’apparente contrapposizione tra Origine (nascita) e Ritorno (morte, ovvero Orizzonte). L’incontro tra i due poli metafisici rappresenta il Reale punto coincidente del “cerchio vitale e magico”. Il simbolo del cerchio, infatti, rappresenta la sintesi unitaria in quanto non ha né inizio, né fine. Esso simboleggia l’infinito, l’universo e il ciclo vitale che si ripete. L’energia cosmica che lo anima è composta da cinque forme, anch’esse simboliche: Terra, Aria, Fuoco, Acqua e Spirito. La capacità di sintesi consiste nella consapevolezza della realtà illusoria che ci circonda e nella quale siamo immersi; consiste, inoltre, nella conseguente completa assimilazione della molteplicità degli elementi essenziali e sostanziali nell’Unità organica e qualitativa dell’esistenza, che il cerchio rappresenta. Tale Unità si completa nel percorso di Ritorno all’Origine, alla base del quale vi è l’intuizione misteriosofica, capace di correlare l’Idea con la Forma e con l’Essenza. Questo tipo di intuizione è, a sua volta, il punto di “rottura” e di “risalita” di un cammino iniziatico che necessità di capacità di sintesi unitaria, spirituale e interiorizzata, oltre ad una forte sensibilità etica capace di trascendere la materialità e i suoi bisogni. In chiusura di questo articolo desideriamo mettere in risalto le seguenti considerazioni di René Guénon:
“Bisogna concludere che fino a quando il punto più basso non verrà raggiunto dall’umanità queste cose non potranno essere comprese dalla maggior parte della gente, ma soltanto dall’esiguo numero di coloro che saranno destinati, in una misura o un altra, a preparare i germi del ciclo futuro. Per tutto quanto andiamo esponendo è sempre a questi ultimi che abbiamo inteso rivolgerci, senza preoccuparci dell’inevitabile incomprensione degli altri. E’ vero che questi altri, ancora per un certo tempo, sono e devono essere la stragrande maggioranza, ma è appunto nel regno della quantità che l’opinione della maggioranza può pretendere di esser presa in considerazione. Se dunque qualcuno troverà certe considerazioni un po oscure, è soltanto perché queste sono forse troppo lontane dalle sue abitudini mentali, troppo estranee a tutto ciò che gli è stato inculcato dall’educazione ricevuta e dall’ambiente in cui vive. In tal caso non possiamo farci niente in quanto vi sono cose per le quali il solo modo possibile di espressione è quello simbolico e per conseguenza non saranno comprensibili a coloro per cui il simbolismo è lettera morta. Peraltro vogliamo ricordare che tale modo di espressione è l’indispensabile veicolo di qualsiasi insegnamento di ordine iniziatico. Ma anche a lasciar da parte il mondo profano la cui incomprensione è evidente, basta soffermarsi sulle vestigia di iniziazioni che ancora sussistono in Occidente per rendersi conto di come certa gente priva di qualificazione intellettuale, tratti i simboli proposti alla sua meditazione, e per essere assolutamente sicuri che essi, qualsiasi titolo rivestano, o qualsiasi grado iniziatico abbiano virtualmente ottenuto, non riusciranno mai a penetrare il vero significato, anche solo di un minimo frammento della geometria misteriosa dei “Grandi Architetti d’Oriente e di Occidente”.
Sandro Secci
Riferimenti bibliografici:
Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, antichità e medioevo, Garzanti, Milano 1970;
Mircea Eliade,Il Mito dell’eterno ritorno, Edizioni Borla, Roma 2010;
N. Abbagnano, Il pensiero greco e cristiano dai presocratici alla scuola di Chartres, Gruppo Ed. l’Espresso, Roma 2005;
Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992;
René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi edizioni, Milano 2009;
René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi edizioni, Milano, 2011;
L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA – Stefano Arcella
L’INFLUENZA DI G.B.VICO SUL PENSIERO DI J. EVOLA
di Stefano Arcella (da Studi Evoliani 2010) www.fondazionejuliusevola.it
1. I precedenti della ricerca.
La mia attenzione al rapporto fra il pensiero di G. B. Vico e quella di J. Evola è andata maturando gradualmente negli anni, prima in occasione della mia Introduzione alle “Lettere di J.Evola a B. Croce”, poi nella relazione su “Lo Stato Organico nel pensiero di J. Evola”, infine nel contributo apparso in Appendice all’ultima edizione di Maschera e Voltodello spiritualismo contemporaneo. In questi interventi, il mio interesse si è concentrato sui motivi del passaggio di Evola dalla fase filosofica a quella che si può definire ”esoterico-tradizionale” e quindi sull’analisi di alcuni brani dei Saggi sull’Idealismo Magico e di Teoria dell’Individuo Assoluto concernenti il richiamo di J. Evola alla tesi vichiana del “Verum ipsum factum” e la lettura che il filosofo romano elabora di questo assunto filosofico. Il pensiero di Evola, si configura – ed è un tema sul quale tornerò più avanti – come una filosofia della prassi, intesa come azione interiore. Peraltro, questo aspetto del pensiero evoliano non è il solo che susciti un interesse sotto il profilo dei rapporti col pensiero del filosofo napoletano. Vi sono altri profili, quali la concezione ciclica della storia, i richiami molteplici alle “età vichiane”, la scelta del “metodo tradizionale” come approccio in profondità per la comprensione della storia, privilegiando l’attenzione al mito e al simbolo quali espressioni più autentiche dell”’anima” di una civiltà; sono tutti aspetti che completano il quadro dei possibili rapporti fra i due filosofi e che costituiscono, nell’insieme, altrettanti motivi di riflessione. Prima di entrare nel merito di questi aspetti, verificando se e fino a che punto vi siano influenze di Vico su Evola, è opportuno svolgere una ricognizione preliminare sulle citazioni di Vico nei testi del filosofo romano, analizzando il contesto tematico in cui tali citazioni sono state fatte.
2. Le citazioni di Vico nelle opere di Evola.
La prima citazione di Vico che si incontra è contenuta nei Saggi sull’Idealismo Magico (1925), laddove il pensatore romano si richiama alla tesi vichiana “Verum et factum convertuntur” con la quali Vico confuta il razionalismo cartesiano. Si tratta, a mio avviso, di un passo fondamentale per cogliere la peculiarità del pensiero evoliano come filosofia della prassi che sfocia in un vero e proprio superamento, apertamente asserito, della fase speculativa, benché – come ha giustamente notato Piero Di Vona – il profilo filosofico in Evola non si è mai esaurito, perché egli conservò sempre e tenne viva una statura filosofica. Quanto all’opera principale, Rivolta contro il mondo moderno, nell’Appendice dell’ultima edizione Roberto Melchionda, in un suo contributo intitolato Le tre edizioni di Rivolta, osserva che “la seconda edizione si accompagnò ad un discreto intervento sull’apparato con non molti apporti nuovi (solo ora compaiono Vico e il De Maistre de Les soirées du St.Petersboug et Du Pape) e con alcuni sfrondamenti e depennamenti (sparisce Dumézil)”. La prima edizione di Rivolta non conteneva citazioni di Vico e ciò mi sembra significativo; il filosofo romano scriveva sotto la spinta di un impulso intuitivo che solo in una fase successiva – di maggiore sistematizzazione – si arricchiva del supporto di più accurate citazioni bibliografiche. In Rivolta sono tre le citazioni di Vico. La prima, nel capitolo sulla Virilità spirituale, in ordine alla distinzione fra vir e homo e sul senso proprio di viro “Già G. B. Vico – scrive Evola citando La Scienza Nuova del 1725 (III,41) – aveva rilevato come questo termine implicasse una speciale degnità, designando non pure l’uomo di fronte alla donna nelle unioni patrizie e i nobili ma anche magistrati (duumviri, decemviri), sacerdoti (quindecemviri, vi gintiviri) , giudici (centumviri) «talché con questa voce vir si spiegava sapienza, sacerdozio e regno, che si è sopra dimostrato essere stata una stessa cosa nella persona dei primi padri nello stato delle famiglie». Ancora, nel capitolo “Sul carattere primordiale del patriziato, Evola cita Vico e specificamente le articolazioni di ciò che Vico chiamò ‘diritto naturale delle genti eroiche”‘. Nel caso specifico manca una citazione specifica in nota. Il riferimento vi chi ano si colloca subito dopo il riferimento al pater familias, alla sua sacralità ed allo ius vitae neclsque . Infine, nel capitolo Vita e morte delle civiltà, l’Autore osserva, riguardo al tema della decadenza, che “il mos delle vichiane età eroiche mai ha avuto a che fare con limitazioni moralistiche”. Egli sostiene che la causa della decadenza non va vista nella corruzione dei costumi che, semmai, è un effetto, non la causa vera. Orbene, queste citazioni hanno un elemento in comune: esse si situano nella prima parte di Rivolta, dedicata alle categorie spirituali del Mondo della Tradizione intese come categorie “a priori” di valore normativo e metastorico. Il metodo vichiano della ricerca etimologica per risalire alla Sapienza degli antichi Italici – teorizzato dal filosofo napoletano nel De Antiquissima Italorum Sapientia, ancor prima che nella Scienza Nuova - influenza il pensiero evoliano nel momento in cui deve identificare le peculiarità del “Mondo della Tradizione” e illuminarne i significati profondi. Quando Evola deve spiegare il senso profondo di certi vocaboli latini e coglierne l’origine, avverte l’esigenza di richiamarsi a Vico. Altre citazioni di Vico compaiono in Metafisica del Sesso riguardo al concetto di pudore ed al senso del pudore presso gli uomini della vichiana “età degli dèi, ne L’arco e la clava (in tema di nazionalismo, allorché cita la vichiana “boria delle nazioni”) e soprattutto nella Introduzione al Tramonto dell’Occidente di O. Spengler, in tema di concezione ciclica della storia, con riferimento alle età vichiane ed ai corsi e ricorsi storici. Infine, un fugace cenno a Vico compare in un articolo per la rivista Rassegna Italiana del 1952 che concerne la rivoluzione conservatrice come “rivoluzione mancata” ove parla di “ritorno delle stesse forme” come caratteristica della dinamica storica e cita Vico e Spengler. Nei testi della fase ultima – quali Ricognizionil e Ultimi scritti, che sono raccolte di articoli giornalistici – compaiono due citazioni di Vico, rispettivamente in un articolo su “Prospettive della cultura di destra” e su ”La cultura di destra” a proposito della lettura regressiva della storia che, secondo Evola, “al massimo”, può desumersi dalla lettura di Vico. E’ interessante notare – ed il dato non appare casuale – che in tutti questi articoli, nessuno sia dedicato specificamente a Vico nel suo titolo, mentre compaiono molti altri articoli dedicati, nella loro intitolazione, a filosofi e scrittori sia antichi che moderni. Un esame attento e reiterato di tutta la bibliografia evoliana consente di affermare che, nonostante la copiosa produzione giornalistica, nessun articolo, né alcun saggio – fra i tanti che pure pubblicò su molteplici riviste – è dedicato specificamente al pensiero di Vico. L’impressione complessiva è che Vico, pur essendo ben presente nell’orizzonte culturale di Evola, in rapporto a temi significativi e centrali, sia rimasto, per cosÌ dire, “dietro le quinte” della produzione evoliana, a titolo di conoscenza specialistica, citato in alcuni testi per alcuni particolari riferimenti. Tale impressione è confermata dalla mancata citazione di Vico nella prefazione di Rivolta – in tutte e tre le edizioni -laddove illustra il senso e la funzione di quello che chiama “il metodo tradizionale”, riguardo al quale pure ebbe a citare, in varie sedi, il Bachofen e il Fustel de Coulanges. Al filosofo romano pure non poteva sfuggire la rivalutazione del mito come “vero narrativo” che è nella Scienza Nuova da lui citata in rapporto ad alcune etimologie. Peraltro, la pubblicistica su Evola non ha trascurato .di riferirsi in varie occasioni, all’importanza di Vico almeno quale antecedente e precursore - sotto alcuni specifici aspetti – del pensiero evoliano, dalla recensione di Piero Operti a Gli Uomini e le Rovine19 ai contributi di Piero di Vona e di Thomas Hakl che cita proprio Vico quale antecedente, insieme a Bachofen e a Fustel de Coulanges, del metodo tradizionale evoliano. Completato questo sintetico excursus bibliografico che è utile per avere una visione di insieme dello spazio e della collocazione di Vico nella produzione evoliana, occorre ora esaminare se e quali possano essere i punti di contatto fra i due pensatori.
3. Verum ipsum jactum.
Il De-Antiquissima Italorum Sapientia è dedicato a Matteo Doria, riferimento significativo poiché si tratta di un matematico e filosofo genovese trasferitosi a Napoli, che era attestato su una decisa posizione filosofica neo-platonica ed anti-cartesiana e che si riproponeva di ricostruire e riaffermare la matematica platonica e quindi, in definitiva, si collegava alla matematica pitagorica. Napoli, sin dall’epoca della dinastia aragonese, era un centro della tradizione filosofica ed esoterica neoplatonica. L’Accademia Pontaniana è – forse insieme a quella di Rimini – la piu’ antica Accademia Neoplatonica dell’Italia; essa fu una prosecuzione e una trasformazione dell’Accademia Aragonese. Il legame di Vico con il neoplatonismo rinascimentale è stato approfondito ed evidenziato da Giovanni Gentile, in un suo saggio sul filosofo napoletano. Nella sua opera, Vico attraverso l’originale metodo dell’analisi etimologica e l’individuazione delle voci “dotte” risale ad un antico sapere filosofico degli Italici e cita espressamente gli Ioni e gli Etruschi, valorizzando i primi per la loro sapienza matematica e geometrica, i secondi per la loro scienza rituale e la loro conoscenza dell’architettura, scienze entrambe trasmesse poi ai Romani. Già questo approccio è dirompente rispetto ad una concezione progressi sta della storia, poiché colloca in un lontano passato l’origine di una Sapienza dimenticata e che poi si riscopre attraverso il ricorso all’etimologia, coniugando filologia e filosofia .. Con tale metodo, Vico ritiene di identificare il fulcro di queste antichissime concezioni filosofiche, ossia che Verum et factum convertuntur, il vero e il fatto si convertono reciprocamente, nel senso che io posso conoscere solo ciò che ho fatto, il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto, per cui il campo di conoscenza dell’uomo concerne la matematica e la storia. La prima, perché possiamo dire di conoscere le proposizioni matematiche in quanto siamo noi a farle tramite postulati, definizioni; la seconda – la storia – possiamo dire di conoscerla perché essa è il frutto dell’azione dell’uomo. Noi non potremo dire – secondo Vico – di conoscere la natura perché non siamo noi uomini ad averla creata; essa esula dalle nostre possibilità creative. In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono (Latinis ve rum et factum reciprocantur, seu, ut Scholarum vulgus loquitur, convertuntur). Intelligere è lo stesso che leggere perfettamente, conoscere apertamente. Si diceva cogitare nel senso in cui noi in volgare diciamo: “pensare” e ”andar raccogliendo”. Ratio significava il calcolo aritmetico, e la dote propria dell’uomo, per cui si differenzia dagli animali bruti e li supera; descrivevano comunemente l’uomo come un animale “partecipe di ragione”, non padrone completo di essa. D’altronde, come le parole sono simboli e note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose. Dunque, come legere è l’atto di chi raccoglie gli elementi della scrittura da cui si compongono le parole, così intelligere è il raccogliere tutti gli elementi della cosa atti ad esprimere un’idea perfettissima. Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto …… . Per illustrare tutto questo con una similitudine: il vero divino è una solida immagine delle cose, una specie di plastico; quello umano è un monogramma, un’immagine piana, una specie di dipinto. Pertanto mentre il vero divino è quello che Dio dispone e genera nel momento stesso in cui lo conosce, il vero umano è quello che l’uomo compone e fa nel momento stesso in cui lo apprende. E così la scienza è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa; per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa. Solida per Dio, che comprende tutto; piana per l’uomo, che comprende gli elementi estrinseci” (G.B. Vico. De Ant. , Cap.I, L). In questa prospettiva, Vico anticipa l’idealismo del secolo successivo come ebbe a notare giustamente Giovanni Gentile. ‘ ”Non importa – scrive Gentile – peraltro qui vedere quali scienze Vico conceda alla mente umana; importa invece il carattere che egli attribuisce alla scienza, questo carattere costruttivo della realtà che ne è l’oggetto. Concetto che evidentemente nega la preesistenza dell’oggetto alla mente che lo conosce, e conferisce a questa un’ attività creatrice di quel mondo che essa è in grado di conoscere; sicché la certezza del fatto viene a coincidere con questa intimità della mente al mondo di cui è artefice. E’ la certezza del poeta che è il creatore dei suoi fantasmi, come Dio crea gli uomini vivi; ed è perciò dentro di essi, e ne conosce tutti i segreti. La verità è sì pensiero (evidenza delle idee alla mente) come voleva Cartesio; ma il pensiero non è spettatore di quel che si rappresenta, bensì produttore. Il fatto di cui perciò siamo certi non è quello di cui siamo testimoni; ma quello invece di cui noi siamo gli attori (costruendolo o ricostruendolo ). Orbene, Evola riprende questa tesi vichiana e la estende al campo dell’azione interiore, spirituale. L’uomo può conoscere non solo la storia in senso profano – leggi, costumi, usi civili, organizzazione economica _ ma può conoscere la realizzazione magica, può conoscere l’esperienza del rito e dell’azione sacrale guerriera, nonché le discipline della meditazione, della concentrazione, della contemplazione ma anche perché è egli stesso a farle, ossia a praticarle, a realizzarle con un atto della sua volontà e come contenuto della sua esperienza ”Si è già visto – scrive il pensatore romano – come uno dei princìpi fondamentali che l’idealismo magico, con riferimento alle conquiste della moderna gnoseologia afferma, è che in tanto la conoscenza può essere intesa come capace di fornire un sistema di assoluta certezza, in quanto si va a concepire il pensiero non più come modellantesi sulle cose, bensì come modellante esso stesso le cose, cioè non più come un passivo riprodurre, bensì come una funzione generante, con sua energia, l’oggetto del conoscere nello stesso punto che la conoscenza di esso. Tale teoria fu intravista sin dal Vico, che la fissò nella nota formula: “verum et factum convertuntur” – cioè il vero, l’incondizionatamente certo – si mutua col fatto, ossia con ciò che viene prodotto consapevolmente da un’attività dell’Io: non vi è sapere assoluto, che là dove la scienza trae da se stessa il proprio soggetto … Concezione, questa, che nel Vico fu probabilmente provocata dall’osservazione delle matematiche, nelle quali il carattere di apoditticità e di universale validità si connette appunto al fatto che esse procedono essenzialmente per costruzione, secondo una libera posizione e una legislazione a priori. Senonché il Vico, in quanto si tenne ad un concetto concreto sì, ma unilaterale delle possibilità umane, si trovò costretto dal suesposto criterio a restringere la conoscenza assolutamente certa per l’uomo al dominio alquanto misero della matematica e della storia, sembrandogli questi i soli campi in cui l’Io potesse dirsi effettivamente creatore, laddove, circa la natura, affermò poter venire essa conosciuta secondo sapere assoluto solo da Dio. Evola non si ferma alla posizione del Vico e, richiamandosi al pensiero di Fichte, di Schelling e di Hegel, esprime una esigenza di estensione del dominio del “fatto” all’intero ambito dell’esperienza umana. ”Un sapere – egli scrive – se è parziale, non può avere il carattere di assoluto sapere e spezzare a metà il dominio della certezza implica in verità rovinare ogni certezza, in quanto assoluta certezza’. E poi, più avanti asserisce: “L’esigenza della filosofia di là da Vico è dunque legittima: se, in generale, vi deve essere una certezza assoluta, nulla deve essere per l’Io, che l’Io non abbia posto. Il filosofo critica poi l’astrattezza dell’Io trascendentale della filosofia idealistica e compie l’apertura alle dottrine sapienziali dell’Oriente e dell’Occidente. ”La veduta degli Orientali, che poi riecheggia nella mistica di ogni luogo, è invece che il processo conoscitivo è condizionato dal processo di effettiva trasmutazione e di potenziamento dell’Io concreto, che l’assoluto conoscere è un flatus vocis quando non rappresenti come il fiore o la luce sgorgante da colui che, con la sua potenza, si è compiuto nell’assoluta autorealizzazione del Rishi vedico, dell’Ahrat buddhistico, del Phap taoistico. Infine conclude che solo nell’Individuo assoluto “solo nell’atto interamente sufficiente il mondo diviene certo e, in ciò, è reale,,30. La filosofia di Evola si configura quindi come una filosofia della prassi, ove questo termine si estende al campo dell’azione interiore, volta a riscoprire e a modificare se stessi fino all’apice dell’unione col divino, sul modello e secondo le finalità degli antichi Misteri. Tale elaborazione del retaggio vichiano spiega perché il filosofo romano, in apertura dei saggi, ponga quella citazione di Lagneau secondo cui la filosofia è la riflessione che perviene alla coscienza della propria insufficienza – che come tale va superata – ed alla necessità di una azione assoluta che parta dall’interiorità. Se infatti noi conosciamo solo ciò che facciamo, ciò che è il frutto delle nostre azioni, che apprendiamo nel momento stesso in cui lo facciamo e viceversa, una filosofia intesa come pensiero astratto, scisso dal nostro fare, non ci offre alcuna effettiva possibilità di conoscenza. In questa premessa vichiana sviluppata dal filosofo romano, cogliamo la tendenza al superamento della fase esclusivamente speculativa per andare verso una fase operativa, realizzati va che avrà poi nella esperienza del gruppo di UR la sua espressione più significativa. Il rapporto fra i due pensatori non è, però, riduci bile, a questo aspetto, pur rilevante. E’ un rapporto più ampio e complesso che investe l’aspetto metodologico evoliano. Occorre chiedersi infatti quali siano le radici di questo metodo, se e fino a che punto il pensiero vichiano abbia influito su quello di Evola, o almeno sia un antecedente in termini di filosofia del metodo, di quello evoliano. In altri termini, possiamo considerare Vico quale precursore del metodo tradizionale? La risposta a questa domanda postula una analisi accurata di alcuni aspetti salienti del pensiero vichiano confrontati con l’elaborazione metodologica evoliana.
4. Vico precursore del metodo tradizionale?
Nella prefazione a Rivolta, Evola privilegia l’attenzione al mito e al simbolo per comprendere in profondità l’anima di una civiltà e delle civiltà, nel loro contenuto universale e metastorico. Un mito sull’imperatore Federico II dice – in questa prospettiva molto più di quanto dica la storia delle battaglie, delle guerre, dei re e delle corti; esso ci parla dell’anima della civiltà medievale, della sensibilità e della visione del mondo propria all’uomo del Medio Evo. Un mito dell’antica Grecia ci dice della sensibilità e della capacità immaginativa dei Greci, della loro anima, molto più di quanto ci dicano le lotte fra poleis greche. Peraltro il mito e il simbolo – di là dalla varietà delle forme specifiche in cui possono esprimersi e che sono legate alla varietà delle varie culture - risalgono ad un significato universale e metastorico, dimensione che unifica e accomuna le varie civiltà tradizionali, di là dalle differenze di tempo e di spazio. Nell’approfondire il rapporto Vico-Evola sotto l’aspetto della centralità del mito, mi richiamo ad un saggio di Gianfranco Cantelli ed anche al recentissimo libro di Stefano De Rosa su Vico precursore della nuova storia, dove si analizza il rapporto fra il pensatore napoletano e la scuola delle Annales e la cosiddetta Teoria delle catastrofi. Questi interventi riguardano un fondamentale aspetto del pensiero e dell’opera del filosofo napoletano: il mito come particolare tipo di linguaggio, al quale egli attribuisce un carattere di originalità, anzi di unicità. Il punto di vista ordinario, normalmente condiviso vuole che “il linguaggio dei miti, per costituirsi, trasmettersi e svilupparsi abbia come proprio fondamento quello che per noi è il vero linguaggio, cioé il linguaggio articolato” partendo dal presupposto secondo cui “il mito, quale oggi lo conosciamo, sia sempre espresso, sotto forma di racconto, da un discorso che si serve delle stesse parole, della stessa grammatica e della stessa sintassi che si usano per dire qualsiasi altra cosa riguardante l’esperienza umana. Da questo punto di vista il linguaggio dei miti non può quindi essere altro che un linguaggio di secondo livello”. La distinzione fra il significato logico-discorsivo delle parole con le quali viene narrata la storia del mito ed il senso allegorico di ciò cui il mito rinvia, secondo un diverso codice di lettura della realtà, consente a Vico di assumere una posizione del tutto diversa: egli sostiene che il linguaggio dei miti è un linguaggio originario, quindi anteriore al linguaggio articolato; quest’ultimo non avrebbe potuto formarsi senza il linguaggio mitico. ”Il mito – scrive Cantelli interpretando il pensatore partenopeo – è il primo linguaggio che “naturalmente ha parlato l’umanità. Ciò vuoI dire che “la storia procede per miti, e che le sue forze sono mitiche. Anche altri studiosi hanno posto in rilievo che, per Vico, l’invenzione del linguaggio è anteriore allo sviluppo della ragione e che quindi esso, in origine, era un mezzo per comunicare emozioni; i primi uomini espressero le loro idee come poesia. Vico enuncia questa teoria nella Sezione della Scienza Nuova dedicata alla metafisica poetica: “Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita e immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie. L’essere ricorso all’immaginazione poetica per spiegare come i pnll1l uomini abbiano esercitato in modo creativo la loro immaginazione ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, ha consentito a Edmund Leanch di accostare Vico e Lévi-Strauss; quest’ultimo, nel suo strutturalismo, condivide il medesimo punto di vista sull’anteriorità dell’immaginazione poetica rispetto non solo alla ragione ma al linguaggio parlato di tipo logico-discorsivo. E’ interessante notare come Vico parli di una metafisica non ragionata ed astratta, ma “sentita e immaginata”; egli non si limita a dire che essa fu immaginata, ma aggiunge che fu “sentita”, ossia corrispondeva ad un modo di percepire il mondo. Questo brano suscita il confronto con le prime pagine di Rivolta, laddove Evola parla della capacità conoscitiva - propria all’uomo delle civiltà tradizionali – di un diverso ordine di realtà sconosciuto all’uomo moderno. Il filosofo della Tradizione si spinge oltre Vico, parla di capacità percettiva e conoscitiva, mentre Vico parla di un sentire e di un immaginare, ma sempre nel quadro di un processo in cui questa esperienza del mondo è la prima fase, l’infanzia, di uno sviluppo, di una crescita che non è irreversibile e unidirezionale perché può avere anche interruzioni regressive, ma fondamentalmente, nelle grandi linee, si tratta pur sempre di un processo di crescita. E’ stato evidenziato che Vico, oltre a porre in risalto la capacità immaginativa dell’uomo allo stato di natura, arriva a presupporre uno stadio iniziale in cui gli uomini “naturali” vivevano in una condizione di pace beata. “Ma in quei tempi tutti orgoglio e fierezza per la fresca origine della libertà bestiale …. nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e di dormire nelle grotte; nella naturale egualità dello stato, nel quale tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto intendere né froda, né forza, colla quale uno potesse assoggettir tutti gli altri ad una civil monarchia [. ... ] . Qui è evidente l’eco del mito dell’età dell’oro presente in Esiodo e nel mito latino di Saturno, dio dell’aurea aetas, sebbene non su un piano di conoscenza spirituale ma di “rozza semplicità”, che sembra echeggiare una idealizzazione arcadica tipica del gusto e della cultura del ’700. In questo stato naturale, i primi uomini, ancor prima di aver inventato il linguaggio parlato, esercitano in modo creativo, secondo Vico, la loro immaginazione che egli chiama “immaginazione poetica”. ”E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutte robuste forze di corpo che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo essere un gran corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette “maggiori” che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa; e incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza. Noi vediamo il cielo e lo definiamo cielo e diamo per scontato che si sia sempre proceduto così. Ma i primi uomini crearono prima Giove quale ”sostanza animata” e poi definirono il tuono, il lampo e il cielo come manifestazioni di Giove. Ecco il punto in cui Vico capovolge la prospettiva razionali sta e dà risalto ai momenti prelogici dello spirito, con ciò anticipando certi temi del Romanticismo, come il Gentile ebbe giustamente ad osservare circa il carattere “preromantico” del pensatore napoletano. Al riguardo, Evola ebbe a dire, nel saggio sui Misteri di Mithra del 1926, che l’uomo delle civiltà tradizionali non divinizzò i fenomeni naturali in quanto tali ma li percepì come manifestazioni sensibili del sovrasensibile, la natura venendo sentita e vissuta come un grande linguaggio simbolico vivente, animato. In questa lettura evoliana del modo di percepire e vivere la natura si può cogliere l’eco e l’influenza del pensiero di Vico, tanto più che questi non si limitò certo all’esempio di Giove, ma ne fece molti altri (fra i quali Achille, Ercole) visti come modelli tipologici, quelli che lui chiama gli ”universali fantastici”. Resta, comunque, un problema: lo scarto fra il senso letterale dei linguaggi articolati – il nostro linguaggio logico-discorsivo – e il significato di immagini e di simboli che le parole tentano di definire. Vico offre una sua spiegazione di questo scarto. Il linguaggio che noi usiamo e nel quale il mito viene enunciato sotto forma di un racconto si è articolato, costituito e definito all’interno di una esperienza del mondo profondamente lontana dalla esperienza umana che si è formata ed espressa sulla base del mito. Per il pensatore napoletano, i miti sono i resti pervenuti da un mondo umano remoto, che testimoniano di un modo di vivere e di percepire il mondo che non ha più nel nostro linguaggio un adeguato strumento espressivo. Tra mito e linguaggio non c’è, pertanto, solo un divario ma una vera opposizione per cui il senso dei miti non solo è comunicato in modo inadeguato ma viene sistematicamente travisato dalle parole di un linguaggio logico-discorsivo che riflette tutt’altra esperienza del mondo. Eppure, il paradosso è che non abbiamo altro codice espressivo per poter dire il mito. Pertanto, fra l’universo di significati cui rimanda il mito e quello cui fa riferimento il nostro linguaggio, non c’è alcun punto in comune se non quello, paradossale, per cui il secondo si presenta quale l’unico strumento mediante cui il mito può essere trasmesso e comunicato. L’unico pensatore moderno che abbia reinventato un linguaggio miti cosimbolico per dire il mito e farlo parlare all’uomo moderno è il Nietsche di Così parlò Zarathustra, dove l’uso della metafora è frequente, quale frutto di una facoltà creativa che rivive e ripropone il mondo mitico dell’uomo antico. Il nostro linguaggio ordinario esprime un pensiero che nella riflessione e nella concettualizzazione ha già posto le basi per giudicare i contenuti dell’esperienza. Il linguaggio mitico, nelle sue immagini, figure e simboli, esprime un diverso stile di pensiero dominato – secondo Vico - dalla fantasia e dalla immaginazione dove i princìpi e le regole che definiscono il credibile e il verosimile sono abbandonati. Nel pensiero vichiano il linguaggio dei miti è, dunque, un linguaggio autentico e originario, perché originaria è l’esperienza del mondo cui quel linguaggio rinvia. Per Vico la conoscenza e la comprensione dei miti è, dunque, fondamentale, per comprendere la cultura e la storia dei popoli più antichi. In questo senso e sotto questo aspetto, Vico è un precursore del metodo tradizionale di Evola, anche se va subito notata una differenza di fondo fra i due pensatori; per il primo, la visione animata del mondo propria ai primi uomini è il frutto di una immaginazione creativa, il che sottintende che, in fondo, quella esperienza, non è conforme alla realtà ma è reale solo nel senso che quel tipo d’uomo, nella sua “semplicità e rozzezza” percepisce la realtà in quel modo. La visione animata della realtà propria all’ uomo della Tradizione di cui parla Evola è la conoscenza di un ordine di esperienze che è reale in un senso più profondo e che quindi per l’autore di Rivolta ha un valore oggettivo. E’ comunque da Vico che parte il processo speculativo che conduce a riscoprire e rivalutare il mito ed il simbolo nella loro dignità di linguaggio originario. Il pensiero del filosofo napoletano è, a sua volta, figlio di tutto un filone speculativo che risale al neoplatonismo rinascimentale e, in definitiva, a Platone, alla rilevanza che i miti hanno nella sua opera, echi, a loro volta, di antiche tradizioni di tipo misterico. Nell’Accademia Platonica di Firenze – fondata per volontà di Lorenzo il Magnifico – si curava particolarmente lo studio dei miti greci, com’è testimoniato dal Commento al Convito di Platone scritto da Marsilio Ficino. Peraltro, come Evola mette in rilievo che Vico anticipa, per certi aspetti, l’idealismo dell’800, cosÌ Giuseppe Rensi, nella sua introduzione all’opera di Ficino, osserva che questi, in certi passaggi del suo libro ”Sull’Amore” – scritto nell’italiano del ’400 – anticipa il pensiero idealista. E giustamente Giovanni Gentile, in un suo saggio su Vico, pone in rilievo questo legame fra l’autore della Scienza Nuova e i neoplatonici rinascimentali.
5. “Universali fantastici” ed archetipi.
Altro aspetto degno di rilievo e che merita attenta riflessione è la funzione di precursore che Vico ha svolto rispetto alla psicologia del profondo del Novecento, in particolare rispetto agli archetipi di cui parla Jung e che in Vico sono qualificati come “universali fantastici”. Secondo lo psicologo e filosofo americano James Hilmann, Vico può essere considerato un precursore della psicologia archetipica soprattutto per la sua elaborazione del pensiero metaforico. Hilmann coglie alcuni punti di contatto nell’uso vichiano degli archetipi animus ed anima e nell’asserire, come poi sosterrà Jung, l’origine autoctona dei miti i quali - secondo il filosofo napoletano – nascono in modo indipendente, senza un’unica fonte di diffusione fra popoli fra loro sconosciuti e quindi non riferibile a fenomeni migratori. Tale affinità si coglie inoltre nella tesi vichiana secondo cui determinati concetti come quelli espressi nel senso comune, nelle massime, nella saggezza popolare fanno parte di un immaginario di universali mentali ”una lingua mentale comune a tutte le nazioni. ”Per Vico – scrive James – questo tipo di pensiero era primario, come è primario per Jung il pensiero fantastico. Pertanto, la relazione fra i “caratteri poetici” di Vico e il concetto junghiano di archetipo sarebbe strettissima. Questa funzione di anticipazione della psicologia archetipica moderna e contemporanea viene colta da James anche in Plotino e in Ficino. Riguardo a quest’ultimo, si può ricordare che egli, nel suo libro “Sopra lo Amore” (ossia il Commento al Convito di Platone) evoca l’archetipo del dio Amore, come “il più antico di tutti gli dèi” e che la sua lettura del Convito solo in apparenza rispecchia il pensiero platonico, in realtà ricevendo anche, sotto vari aspetti, gli influssi del pensiero di Plotino. Tale comparazione ha un suo interesse ai fini del presente contributo, poiché è noto che Jung lesse e citò La Tradizione Ermetica di Evola, proprio nel quadro del suo approfondimento degli archetipi e dell’inconscio collettivo. Questa comparazione fra Vico e Jung sul tema degli archetipi – e quindi sui contenuti perenni di quella che Evola definisce come la “Tradizione universale” – ci avvicina ad un argomento importante, concernente il significato stesso del concetto di Tradizione nel pensiero di Evola e i suoi eventuali rapporti col pensiero di Vico.
6. Provvidenza vichiana e Tradizione evoliana.
La dottrina di Vico esclude che la “storia ideale eterna” sia trascendente rispetto alla storia temporale, nel senso di essere esterna ad essa e capace di orientarla dal di fuori. Al tempo stesso, il pensiero di Vico esclude che la storia ideale eterna sia immanente nella storia umana e che l’ordine delle vicende umane sia in ogni caso garantito da quella. Se fosse così, il corso delle vicende umane dovrebbe necessariamente conformarsi alla successione ideale delle età, escludendo ogni libero arbitrio dell’uomo, quindi negando la sua libertà: in tal caso la provvidenza sarebbe l’unico vero protagonista. La Provvidenza di Vico non è né trascendente né immanente. Essa è equidistante sia dalla concezione crociana che la voleva priva di riferimenti alla trascendenza, sia dalla lettura anti-immanentista tipica dei filosofi cristiani della storia. Il filosofo Nicola Abbagnano legge la provvidenza vichiana come “una norma ideale cui il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente. In altre parole, la provvidenza vi chiana è un disegno che è, al tempo stesso, un’onnipresente sollecitazione o dover-essere profondo che spinge l’uomo ad agire in vista di valori ideali eterni. Se la provvidenza è un “dover-essere o sollecitazione profonda” vuoI dire che essa ha un valore normativo; se l’uomo, sollecitato dalla provvidenza, agisce per fini ideali eterni, vuoI dire che essa ha un carattere di “apriori”, ossia ha una validità intrinseca, a prescindere dall’esperienza umana. Orbene, nella prefazione di Rivolta e in vari capitoli della prima parte dell’opera, Evola considera la Tradizione come un valore normativo ed il mondo della Tradizione come un insieme di categorie a-priori. Le civiltà tradizionali sono una approssimazione, più o meno imperfetta, al modello dei valori tradizionali, metastorici e universali. Questa Tradizione universale si esprime in una pluralità di forme diverse secondo le differenze di tempo, luogo, etnia, condizione geografica. La Tradizione è dunque per Evola una “Trascendenza immanente”: ossia essa si cala e si esprime nella storia umana ma senza mai esaurirsi nella storia, che è sempre un’approssimazione. La storia dell’ uomo può avvicinarsi o discostarsi dalla Tradizione, perché al centro della storia c’è l’uomo con la sua azione. Evola, infatti, critica la concezione della storia con la s maiuscola tipica dello storicismo e contesta il determinismo. “Il nostro punto di vista – scrive in Orientamenti – non è quello del determinismo. Il fiume della storia scorre nel letto che esso stesso si è scavato . Questa configurazione della Tradizione come un quid né del tutto trascendente né del tutto immanente, poiché essa travalica la storia pur esprimendosi nella storia, presenta, a mio avviso, una qualche affinità con la provvidenza vichiana. Vico si ispira a Platone; la sua “storia ideale eterna” esprime una concezione di matrice platonica, così come la rivalutazione e la riscoperta del mito va collegata alla rilettura di Platone e dei miti che il filosofo ateniese tramanda (celebre, ad esempio, il mito della caverna). Orbene, non è certo un caso che, in apertura de Gli uomini e le rovine, Evola citi una frase di Platone, tratta dalla Repubblica, che dice “Vi è un modello fissato nei cieli che l’uomo possa vedere e, avendolo visto, conformarvisi in se stesso. Ma che esso esista o sia mai esistito, è cosa priva di importanza; perché questo è l’unico modello di cui egli mai possa considerarsi parte”. La “Trascendenza immanente” di Evola ha dunque una ispirazione platonica nel suo essere una norma ideale, un “modello nei cieli” cui l’uomo si conforma interiormente, se sceglie di conformarsi. Credo che i due sistemi di pensiero – quello vi chi ano e quello di Evola - nella loro comune ispirazione platonica abbiano pertanto un punto di contatto, ma anche alcune significative differenze, poiché in Vico la provvidenza si colloca nell’ambito di una concezione religiosa cristiana risolutamente negata dal filosofo romano della Tradizione. Il cristianesimo è visto, infatti, in Evola, come un processo involutivo antitradizionale, quale “sincope della tradizione occidentale” (che è, significativamente, il titolo del capitolo di Rivolta dedicato al cristianesimo) sovversione dei valori tradizionali; una posizione che il filosofo romano mantenne anche negli ultimi anni, com’è dimostrato da ciò che scrisse ne L’arco e la clava sul rapporto fra cristianesimo ed esoterismo tradizionale. La successiva romanizzazione del cristianesimo in cattolicesimo romano viene considerata, nella sua prospettiva, nella misura – e solo nella misura in cui – sono accolti dal cattolicesimo elementi caratteristici della romanità. Lo studio dei rapporti fra i due pensatori è appena iniziato e va ulteriormente approfondito. Intanto un primo punto fermo si può fissare: il filosofo napoletano, nel riscoprire il rilievo del mito per conoscere e comprendere le culture e la storia dei popoli più antichi ha aperto la strada per l’elaborazione di quel metodo di ricerca in profondità della storia universale che Evola definÌ “metodo tradizionale”. Le stesse ricerche e le intuizioni della storiografia romantica dell’800 sono state anticipate da Vico. E la visione della Provvidenza come un “dover-essere” ha aperto la strada per una lettura del rapporto fra Trascendenza e storia che fosse oltre l’esclusiva trascendenza o l’esclusiva immanenza.
INTRODUZIONE da – Immagine umana, immagine divina -
Introduzione da – Immagine umana, immagine divina.
di Philip Sherrard (Denise Harvey Publishing, 1991)
Su una cosa almeno non è più necessario tornare a discutere, ovvero sul fatto che ci troviamo alla soglia di una crisi di dimensioni davvero preoccupanti. Questa crisi tendiamo a chiamarla ‘ecologica’, e tale termine è adatto nella misura in cui i suoi effetti sono evidenti soprattutto nella sfera ecologica. Infatti qui il messaggio è più che evidente: l’intero nostro modo di vivere è suicida, sia a livello umano che ambientale, e se non avviene un cambiamento radicalmente non v’è modo d’evitare la catastrofe cosmica. Senza tale cambiamento l’intera avventura della civiltà giungerà al suo termine nel corso dell’esistenza di molti di coloro che vivono oggi.
Sfortunatamente sembra che non abbiamo ancora capito l’urgenza della necessità di tale cambiamento, e nonostante tutto, continuiamo a persistere sulla stessa strada di devastazione, in una sorta di cieco incubo messo in scena con la stessa inesorabilità d’una tragedia greca, programmando di estendere ulteriormente il nostro dominio di artificiosità sterilizzata e di metodologie specializzate, facendosi largo nelle giungle dell’informatica e dell’elettronica, elaborando sistemi finanziari sempre più estesi e sofisticati, manipolando il naturale processo riproduttivo delle piante, degli animali, degli esseri umani, saturando i terreni e le colture con potenti additivi chimici e con una varietà di veleni che nessuna comunità mentalmente equilibrata si sarebbe mai sognata di portare fuori da un laboratorio, spogliando il mondo di quel ch’è rimasto delle foreste ad una velocità incredibile, e comportandosi generalmente in una maniera tale che, persino se l’avessimo deliberatamente programmata, non avrebbe potuto essere più adatta al nostro auto-annichilimento e a quello del mondo che ci circonda. È come se fossimo nel bel mezzo di una mostruosa psicosi collettiva, come se di fatto un enorme desiderio di morte aleggiasse sul cosiddetto mondo civilizzato. Nella sfera ecologica il messaggio è, come già detto, fin troppo chiaro, per quanto possiamo continuare a ignorarlo. Tuttavia, nonostante gli effetti della nostra crisi contemporanea siano più che evidenti in tale sfera, la stessa crisi non è in primo luogo una crisi ecologica. È innanzi tutto una crisi che riguarda il modo in cui pensiamo. Stiamo trattando il nostro pianeta in una maniera inumana, dissacrante, dal momento che vediamo le cose in modo inumano e dimentico del divino. E vediamo così le cose, poiché fondamentalmente quello è il modo in cui conosciamo noi stessi.
Questa è la prima cosa che dobbiamo assolutamente chiarire se vogliamo almeno cominciare a trovare una via per uscire dagli inferni dell’auto-mutilazione a cui ci siamo condannati. Il modo in cui vediamo il mondo dipende soprattutto da come vediamo noi stessi. Il nostro modello dell’universo – il nostro quadro del mondo, ovvero l’immagine del mondo – è basato sul modello che abbiamo di noi, sull’immagine che ci costruiamo di noi stessi. Quando guardiamo il mondo, quel che vediamo è un riflesso della nostra mente, della nostra modalità di coscienza. La nostra percezione di un albero, di una montagna, di un volto, d’un animale o di un uccello è un riflesso della nostra idea su noi stessi. Quel che sperimentiamo in queste cose non è tanto la realtà o la loro natura in sé, quanto semplicemente ciò che i nostri limiti, spirituali, psicologici e fisici, ci permettono di sperimentarne. La nostra capacità di percepire e sperimentare è stereotipa a seconda di come l’abbiamo forgiata a nostra personale immagine e somiglianza.
Ciò significa che prima di poter effettivamente trattare il problema ecologico, dobbiamo cambiare la nostra immagine del mondo, e ciò a sua volta significa che dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. A meno che non cambi la valutazione che abbiamo di noi stessi, ovvero di ciò che costituisce la vera natura del nostro essere, non cambierà neanche il modo in cui trattiamo il mondo intorno a noi. E a meno che ciò non accada, la teoria e la pratica della tutela ambientale, per quanto possa essere ben intenzionata e necessaria, non giungerà al cuore del problema. Nel migliore dei casi rappresenteranno uno sforzo nell’affrontare cose che in fin dei conti non sono che sintomi, e non cause.
Non voglio in alcun modo sottovalutare tali sforzi, che sono spesso encomiabili, solitari ed incredibili, contro tutte le avversità. Una delle terribili tentazioni da affrontare è quella di pensare che il problema sia così grande che nulla di ciò che facciamo su scala individuale possa sortire alcun effetto, e che quindi dovremmo lasciarlo alle autorità, ai governi, agli esperti.
Questo atteggiamento è fatale. Ogni singolo gesto compiuto, per quanto insignificante possa sembrare, conta, e può comportare incalcolabili conseguenze. Il pensiero, se non viene accompagnato da una pratica corrispondente diviene subito sterile. Comunque allo stesso tempo la pratica che deriva da un pensiero scorretto diventa facilmente controproducente, poiché tale pratica ha soprattutto a che fare coi sintomi. Le cause sono radicate nel modo in cui pensiamo, ed è proprio per questa ragione che la nostra crisi, prima di tutto, ha a che fare con l’immagine di noi stessi e con la visione che abbiamo del mondo.
È questo il punto cruciale della nostra situazione. L’inferno tecnologico e industriale che abbiamo prodotto attorno a noi, e con cui stiamo oggi devastando il mondo, non è qualcosa che si è verificato accidentalmente. Al contrario, è la diretta conseguenza del fatto che abbiamo permesso a noi stessi di essere dominati da un certo paradigma di pensiero – che comprende una particolare immagine umana e una particolare immagine del mondo – ad un grado tale da determinare ora virtualmente tutti i nostri atteggiamenti mentali e tutte le nostre azioni, pubbliche e private.
È un paradigma del pensiero che ci induce a guardare a noi come poco più che animali bipedi il cui destino e necessità possono essere meglio soddisfatti grazie a un’attività di auto-coinvolgimento sociale, politico ed economico. E per trovare una corrispondenza a tale immagine di sé abbiamo inventato una visione del mondo in cui la natura è vista come un bene economico impersonale, una fonte senz’anima di cibo, di materie prime, di benessere, di potere e così via, che pensiamo di avere il diritto di sperimentare, sfruttare, rimodellare e generalmente di abusarne attraverso qualsiasi tecnica scientifica e meccanica che siamo in grado di approntare e produrre, per soddisfare ed allargare tale interesse. Avendo nelle nostre menti dissacrato noi stessi, abbiamo anche dissacrato la natura nelle nostre menti; l’abbiamo rimossa dalla sovranità del divino e ce ne siamo considerati signori, ed è proprio questo il nostro asservimento: sottomessi alla nostra volontà. In breve, sotto l’egida di questa immagine e di questa visione del mondo siamo riusciti a ridurci nella più depravata e depravante di tutte le creature della terra.
Questa immagine di sé e questa visione del mondo hanno le loro origini in un vuoto di memoria, in una dimenticanza di chi siamo, e nella nostra caduta a un livello d’ignoranza e di stupidità che minaccia la sopravvivenza della nostra razza. Per una logica implacabile inerente a tale origine, siamo costretti a procedere lungo una strada segnata ad ogni passo dalla nostra caduta, in un’ignoranza ancora più profonda della nostra natura e di conseguenza in un’ignoranza altrettanto profonda della natura di ogni altra cosa.
Finché rimaniamo su questa strada, siamo destinati a procedere alla cieca e ad un ritmo ancora più serrato di totale perdita di identità, totale perdita di controllo ed infine totale autodistruzione. E nulla può fermare il processo tranne che una completa virata, un cambiamento radicale del modo in cui osserviamo noi stessi e quindi del modo in cui osserviamo il mondo intorno a noi. Senza questo cambiamento, continueremo semplicemente ad aggiungere combustibile alla nostra pira funebre.
Siamo in grado di compiere tale inversione, tale radicale raddrizzamento? Nessuno può impedirci di farlo tranne noi stessi, questa credo sia la risposta. Nessuno può impedirci di cambiare l’immagine di sé e di conseguenza la nostra visione del mondo tranne noi stessi.
La questione – l’unica vera questione – è quella di sapere quale immagine di sé e quale visione del mondo dobbiamo porre a sostituzione degli stereotipi falliti, le finzioni inanimate che hanno preso il sopravvento su di noi.
Qui è necessaria una particolare azione di recupero. Ho detto che l’immagine di sé e la visione del mondo che ora ci dominano hanno le loro origini in una perdita di memoria, nella dimenticanza d’identità. Cosa voglio intendere con ciò?
Nelle grandi culture creative del mondo, gli esseri umani non si considerano animali bipedi, che discendono dalle scimmie, le cui necessità e soddisfazioni possono essere ottenute perseguendo un proprio interesse sociale, politico ed economico nel mondo materiale, come se la loro vita fosse confinata a una dimensione materiale di spazio-tempo. Al contrario, essi pensano di se stessi in primo luogo ed eminentemente come discendenti degli dei, o di Dio, ed eredi dell’eternità, con un destino che va assai al di là della politica della società e dell’economia, o di qualsiasi altra cosa che possa essere soddisfatta nei termini del mondo materiale o appagando i propri desideri passeggeri e le proprie necessità fisiche. Essi pensano di sé come ad esseri sacri, persino semi-divini, non per proprio diritto, ma perché creati ad immagine divina, l’immagine di Dio, di una forma trascendente e sovrumana di consapevolezza. Provengono da una fonte divina, e il mondo divino è il loro diritto di nascita, la loro vera dimora.
Allo stesso modo, essi non considerano ciò che noi chiamiamo il mondo esterno, il mondo della natura, come una semplice e casuale associazione di atomi o altro, o come qualcosa d’impersonale, privo d’anima, non vivente, che si sentono in diritto di manipolare, comandare, sfruttare e generalmente saccheggiare e devastare per gratificare le loro ingordigie e smanie di potere. Essi considerano anche la natura come creazione divina, piena di saggezza nascosta e, pari a loro stessi, piena di una personale e sensibile anima vivente o di una vita psichica come la loro. Essi riconoscono e comprendono anche nella natura una realtà sacra, una presenza divina invisibile, resa manifesta. Essi sentono che ogni parte della terra – del cosmo intero – è sacra. Nella loro memoria ed esperienza, ogni foglia, ogni granello di sabbia o di terra, ogni uccello, animale e stella, l’aria ed ogni insetto è santo, è istinto dotato di vita. La linfa che scorre nell’albero è sacra proprio come il loro sangue – è parte del loro sangue. Foreste, montagne, laghi, campi, mari, le grandi pianure e persino i deserti non sono ‘risorse’ da sfruttare; sono una modalità di vita. Essi possono far sì commercio dei doni che offrono – in pietre preziose e spezie, in grano e bestiame. Possono nell’ignoranza essere eccessivi nelle loro richieste, nel far brucare i campi ai loro greggi o nell’abbattere troppi alberi. Ma non commerciano deliberatamente nella natura in sé, o a discapito della natura. Non ne inaridiscono, e non avrebbero potuto mai farlo (e non per mancanza di conoscenze tecniche), le viscere testando di bombe nucleari, deturpandone il cielo con lo scarico fumoso e nauseante di aeroplani e navicelle spaziali, non ne avvelenano i fiumi, i laghi, i mari, le fonti d’acqua sotterranee sciogliendovi sostanze chimiche, ed attraverso uno stillicidio velenoso, non la violano nei tanti altri modi che pratichiamo oggi.
E quando dico ‘non avrebbero potuto’, non voglio intendere ciò in senso sentimentale. Si tratta di un divieto radicato nelle profondità più recondite della loro comprensione delle cose. Se la natura è creazione di Dio, ovvero manifestazione di Suprema Saggezza ed Armonia, allora ne segue che è espressione d’un ordine e d’una disposizione divini, ma anche che quest’ordine e questa disposizione rappresentano il meglio che sia possibile, date le condizioni all’interno delle quali la natura viene creata o resa manifesta. Di conseguenza, immaginare che possiamo migliorarla – o rimuovere le imperfezioni che vi si vogliono trovare, interferendo con essa, rimodellandola, trasformandola e così via, in modi che comportano lo sconvolgimento e la perversione dell’ordine e della disposizione divini, come anche i processi organici che sono loro parte integrante – è pura follia e sfrontatezza: è come immaginare di poter intervenire a migliorare la saggezza dell’Assoluta Saggezza. Inevitabilmente, quindi, qualsiasi tentativo da parte nostra di interferire in tal modo su di essa o di rielaborarla potrà soltanto degenerare, creare dei cancri, corrompere e viziare le condizioni in cui dobbiamo vivere la nostra vita sulla terra. Negli ultimi secoli è quindi chiaramente emersa tale verità, e non dovremmo aver più bisogno di ulteriori prove riguardo alla giustezza della comprensione su cui è radicata.
Tuttavia, nonostante ciò, tale comprensione, e il senso della sacralità sia dell’uomo che della natura, come anche il timore reverenziale che essi ispirano, vengono oggi spesso caratterizzati come primitivi, ovvero basati sulla superstizione, e considerati parte dell’epoca pre-scientifica e come qualcosa promosso soltanto da coloro che non sono riusciti, per una qualche ragione, a ‘progredire’ nella direzione del XX° secolo (ovvero il XXI° secolo, dal momento che ci siamo quasi). E quando viene messo in evidenza che le teorie dell’evoluzione biologica, sia in forma darwiniana che post-darwiniana, sono state fraintese, e che gli esseri umani, lungi dall’esser discesi dalle scimmie, sviluppano soltanto tendenze e caratteristiche simili alla scimmia quando pervertono la loro natura umana e diventano subumani, o disumani, non c’è da meravigliarsi se ciò cade nel ridicolo. Insistere sul fatto che non possiamo ottenere alcuna autentica conoscenza del mondo fisico a meno che prima non si sia ottenuta una conoscenza delle realtà spirituali o metafisiche, significa attirarsi accuse d’oscurantismo, se non d’idiozia: tendiamo a prendere per certo non solo che sia perfettamente possibile ottenere una conoscenza del mondo fisico senza alcun riferimento a una qualsiasi idea di Dio, o d’un Creatore, o di qualsiasi soggiacente realtà metafisica che vada al di là dello spazio e del tempo, ma anche che non possiamo decisamente permettere che una tale idea determini sia i metodi che impieghiamo nella nostra ricerca di conoscenza che la sostanza di ciò che consideriamo conoscenza. Possiamo e dobbiamo esaminare la natura visibile (natura naturata) come se fosse indipendente dall’invisibile natura metafisica (natura naturans) da cui deriva e in cui è radicata. Possiamo e dobbiamo spiegare i fenomeni naturali come se fossero indipendenti dal regno del soprannaturale. Possiamo e dobbiamo spiegarli semplicemente nei termini delle leggi della fisica e della chimica, senza alcun riferimento alla natura naturans o al regno del soprannaturale. Tale è il livello a cui l’intelligenza umana è degradata nella sua ricerca degli scopi che caratterizzano il nostro mondo moderno.
E ciò a discapito del fatto che – per limitarci soltanto alla tradizione europea – non v’è più grande filosofo da Platone a Berdjev, né alcun grande poeta, da Omero a Yeats, che non abbia esplicitamente o implicitamente affermato quel tipo di cosmologia che noi oggi tendiamo tanto a ridicolizzare, a ripudiare, ad ignorare. Uno dei grandi irrisolti enigmi psicologici del mondo moderno occidentale è la questione di cosa o chi ci abbia persuaso ad accettare come virtualmente assiomatica una visione di sé e una visione del mondo che ci richiede, senza mezzi termini, di rifiutare la saggezza e la visione dei nostri maggiori filosofi e poeti per imprigionare il nostro pensiero e il nostro essere nella camera di tortura materialista, meccanicista e dogmatica, costruita da una mente scientifica quantitativa d’infima categoria.
Riguardo a ciò, v’è un particolare errore di cui dobbiamo liberarci, ovvero che le teorie scientifiche contemporanee, e le descrizioni che le accompagnano, siano in un certo qual modo neutre, ovvero libere da certi valori, e che non presuppongano la sottomissione della mente umana a un sistema di supposizioni o dogmi, proprio in quella modalità che si dice sia richiesta a chi vuole aderire a una fede religiosa. Tale idea è, di contro, ancora promossa e persino ritenuta vera da molti degli stessi scienziati. Su di essa si basa l’affermazione che le descrizioni scientifiche delle cose siano oggettive. Non è che questi scienziati neghino che ci siano, o possano esservi, valori. Il fatto è che nel loro ruolo di scienziati, affermano di operare indipendentemente da ogni giudizio di valore, e di essere impegnati in ciò che amano chiamare ‘ricerca scientifica’, puramente disinteressata.
Si tratta di uno degli errori più insidiosi di cui ancora tendiamo a rimanere vittime. Persino persone che affermano di combattere per una nuova filosofia di valori ecologici, come Henryk Skolimowski, continuano a esserne succubi come se fosse fuori discussione. In realtà, lungi dall’essere fuori discussione, ciò rappresenta una vera e propria bugia. Ogni pensiero, ogni osservazione, ogni giudizio, ogni descrizione, sia dello scienziato moderno che di qualsiasi altro individuo, è imbevuto a priori di giudizi precostituiti di valori, supposizioni e dogmi quantomeno così rigidi, se non più (dal momento che sono spesso abbracciati in maniera inconscia), di quelli di un qualsiasi sistema religioso. La vera natura del pensiero umano è tale che non può operare indipendentemente da giudizi di valori, supposizioni e dogmi. Persino l’asserzione che ciò sia possibile, costituisce un giudizio di valore e implica un’intera filosofia, sia che ne siamo consapevoli o no.
Oltre a quest’errore, e strettamente alleato ad esso, ce n’è un altro da cui continuiamo ad essere vittime. Non si tratta della nozione – a cui già abbiamo fatto riferimento – che la scienza moderna sia libera da valori, o che sia l’unica scienza possibile, ma che sia valida in relazione a quell’aspetto limitato delle cose che si presta allo studio – ovvero, il loro aspetto materiale e fenomenico, ed esteso nel tempo e nello spazio. Questa nozione non è intesa a negare che ci sia, o che ci possa essere, un altro aspetto delle cose – ciò che è spirituale ed eterno, e privo d’estensione spazio-temporale – che possa essere anche di per sé studiato e che possa costituire la sfera della conoscenza spirituale o di una scienza spirituale. Essa semplicemente implica l’affermazione che ci sono due livelli di realtà; che ciascun livello possa essere studiato separatamente, e senza alcun riferimento all’altro; e che la conoscenza ottenuta come risultato di aver studiato un livello sia valida nei suoi termini proprio come la conoscenza ottenuta attraverso lo studio dell’altro livello.
Questo modo di affrontare le cose è una falsità poiché il primario elemento determinante della conoscenza (o quel che riteniamo essere la conoscenza), ciò che otteniamo dalle cose non è il particolare livello di realtà a cui tale conoscenza si ritiene sia pertinente. Il suo principale elemento determinante è il livello, ovvero la modalità, di consapevolezza di cui tale conoscenza è espressione. Ciò vuol dire che non si tratta tanto d’una differenza di livelli di realtà da percepire e sperimentare, uno interiore e spirituale e l’altro esteriore e materiale, ciascuno con una scienza indipendente che corrisponde ad essa. Si tratta piuttosto di differenti livelli o modalità di consapevolezza nell’uomo, attraverso cui egli percepisce e sperimenta; così che quel che percepisce e sperimenta dipenderà prima di tutto dal livello o modalità di consapevolezza attiva in lui, e non dal livello di realtà che gli capita di studiare.
Non vi sono due scienze, una che si occupa dell’aspetto materiale ed esteriore delle cose estese nel tempo e nello spazio, e l’altra della dimensione spirituale ed eterna, priva di estensione spazio-temporale. Esiste solo una scienza. Tuttavia ci sono due modalità dominanti di consapevolezza nell’uomo: la consapevolezza dell’ego, che è la sua modalità più bassa di consapevolezza, che corrisponde di fatto a ciò ch’è più inumano e satanico in lui; e la sua consapevolezza angelica o spirituale, che è la sua modalità più elevata di consapevolezza. Naturalmente, ci sono infinite sfumature tra queste due modalità, a seconda che la consapevolezza graviti più o meno da una parte o dall’altra.
La consapevolezza superiore o spirituale percepisce e sperimenta le cose come sono in se stesse, interne ed esterne, spirituali e materiali, metafisiche e fisiche interpenetrandole e formando una singola realtà indivisa e indivisibile. La consapevolezza profana, ovvero dell’ego, non può percepire e sperimentare le cose così come sono. Può percepire e sperimentare soltanto quel che le viene permesso dalla sua opacità e ciò non è la realtà delle cose, ma si tratta di cose avulse dalla loro realtà. Non può esservi una scienza delle cose – dei fenomeni – che ignora la realtà dei fenomeni, in virtù della quale essi sono quel che sono. Non può esservi una scienza valida soltanto nell’aspetto fisico delle cose, per la semplice ragione che la nozione che le cose posseggano un aspetto fisico esteriore staccato dalla loro dimensione spirituale interiore è una nozione illusoria.
Se potessimo percepire e sperimentare con piena chiarezza la nostra consapevolezza superiore e spirituale, saremmo in grado di vedere e capire che di per sé nessuna cosa visibile – nulla che appartiene al mondo dei fenomeni – ha una propria esistenza o un proprio essere. Vedremmo e comprenderemmo che separati da questa dimensione e identità interiore e spirituale non possediamo alcuna realtà di sorta, sia fisica, materiale o sostanziale, e che tale nozione è semplicemente un’illusione o una distorsione inerente al punto di vista della consapevolezza dell’ego. Non è possibile separare in alcun modo la fisica dalla metafisica, e se a tutt’oggi pensiamo che ciò sia possibile, non facciamo che dare prova dell’inanità del nostro pensiero.
Quindi, visto che a tutt’oggi la scienza moderna presuppone la nozione che possiamo ottenere conoscenza dei fenomeni senza alcun riferimento a una precedente conoscenza della loro dimensione interiore e spirituale, e separatamente da essa, allora vuol dire che è basata totalmente sulla consapevolezza dell’ego, ovvero – il che porta alle medesime conclusioni – è ancora al servizio di un dualismo che oppone mente e materia, soggetto e oggetto, conoscitore e conosciuto – un dualismo che rappresenta una totale distorsione della realtà. Ciò significa che tale scienza risulta corrotta da caratteristiche inumane e sataniche in quell’uomo la cui consapevolezza le farà da veicolo. Ecco perché la sua applicazione, nella tecnologia o in altre forme, è suscettibile di essere carica di conseguenze che sono ugualmente inumane e sataniche, sia riguardo al nostro proprio essere che riguardo al mondo fisico naturale.
Ecco dunque perché anche ogni estensione dell’impero e dell’influenza della nostra mentalità contemporanea secolare e scientifica è andata e continua ad andare a braccetto con una nostra corrispondente ed accentuata erosione del senso del sacro. In realtà, non abbiamo alcun rispetto, non parliamo neanche di riverenza, per il mondo della natura poiché fondamentalmente non abbiamo alcun rispetto, né tanto meno riverenza, per noi stessi. E questo perché, dal momento che abbiamo perso il senso della nostra realtà personale, abbiamo perso il senso di qualsiasi altra realtà. E dal momento che paralizziamo e mutiliamo noi stessi, ecco che paralizziamo e mutiliamo qualsiasi altra cosa. La nostra crisi contemporanea non è che la rappresentazione amplificata della nostra personale depravazione.
Quindi l’unica risposta a questa crisi è l’interrompere la nostra depravazione. È recuperare un senso della nostra vera identità e dignità, l’immagine di noi stessi come esseri sacri, come esseri immortali. Una falsa visione di sé alimenta una falsa visione del mondo, e assieme alimentano la nostra nemesi, e la nemesi del mondo. Una volta ritornati in possesso di un senso della santità personale, recupereremo anche il senso di santità del mondo che ci circonda, e agiremo dunque sul mondo attorno a noi con quel timore reverenziale e quell’umiltà che dovremmo avere ogni volta che mettiamo piede in un santuario, in un tempio d’amore e di bellezza dove si prega e si fa adorazione. Soltanto in questo modo riusciremo ad essere consci che il nostro destino e il destino della natura sono una cosa sola. Soltanto in questo modo potremo restaurare un’armonia cosmica. Se non percorreremo questa strada, allora le cose prenderanno un’altra piega, dal momento che non v’è altra via d’uscita. Fallire qui significa fallire irrevocabilmente: non può esservi alcuna via di fuga al nostro genocidio inumano. Senza un senso del sacro (del fatto che ogni cosa che vive è santa) e senza umiltà nei confronti del tutto – verso l’uomo, la natura e verso ciò che sta al di là sia dell’uomo che della natura, loro fonte e origine trascendente – procederemo semplicemente, dritti, dritti, verso un’autodistruzione di cui siamo noi i responsabili.
Tutto ciò significa che se dobbiamo affrontare la nostra crisi contemporanea fino ad andare alle sue radici, il nostro compito è duplice. Dobbiamo prima di tutto far chiarezza nella nostra mente – identificare coerentemente e senza ombra di dubbio – il paradigma di pensiero che soggiace e determina l’attuale immagine di noi stessi e la nostra visione del mondo. Se prima non facciamo ciò potremmo facilmente diventare vittime di una sorta di doppio pensiero, che attacca i sintomi mentre rimane soggetto alle cause che producono i sintomi. E per noi è d’importanza fondamentale, dal momento che abbiamo tendenzialmente dimenticato quelle che sono le presunzioni e le supposizioni che caratterizzano questo paradigma: esse sono profondamente innestate nei baluardi dei nostri processi ordinari del pensiero, e noi siamo inconsapevoli di quanto in realtà stiano alla base di tali processi e di come li determinino.
In secondo luogo, dobbiamo cercare di recuperare, o di riscoprire, la visione dell’uomo e della natura – o piuttosto, la visione teoantropocosmica – che ci permetterà di percepire e quindi di sperimentare sia noi stessi che il mondo in cui viviamo come realtà sacre, ovvero quel che sono; poiché se non recuperiamo il senso della loro sacralità, che è basata su di una coerente comprensione del perché esse siano sacre, i nostri tentativi di riaffermare in loro questa qualità potrà essere inficiata da ciò che alla fine risulta essere poco più che un pregiudizio sentimentale.
La nostra ricerca, quindi, è al contempo antropologica – rivolta alla questione dell’identità dell’uomo – e cosmologica – che vuole rispondere alla domanda sulla natura dell’universo. È in ultima istanza un tentativo di riaffermare le immagini sacre sia dell’uomo che della natura: di affermare un’immagine umana e del mondo che sia sacra.
(Traduzione di Eduardo Ciampi)