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Due possibili profezie di Nostradamus sulle dimissioni di Benedetto XVI
«Vires meas, ingravescente ætate, non iam aptas …ad munus Petrinum æque administrandum».
Due possibili profezie di Nostradamus sulle dimissioni di Benedetto XVI
di PierVittorio Formichetti
Le dimissioni annunciate dal papa Benedetto XVI lo scorso 11 febbraio e previste per il 28 febbraio sono sicuramente un evento epocale, sia per la storia della Chiesa cattolica (un simile fatto non accadeva dai tempi del celebre «gran rifiuto» di Celestino V alla fine del tredicesimo secolo), sia per la storia del mondo intero. Come si suppone sia avvenuto riguardo ad altri avvenimenti storici importanti, è possibile ritrovarne un presagio tra le famose profezie di Nostradamus?
Incredibilmente, anche questo clamoroso avvenimento sembra essere stato adombrato dal celeberrimo veggente in almeno due quartine delle sue Centurie*: la quartina 47 della Centuria III e la quartina 19 della Centuria X. La prima dice:
Le vieux Monarque déchassé de son regne
aux Oreients son secours ira querre;
pour peur des croix ployera son enseigne,
en Mytilene ira par port & par terre.
Il vecchio Monarca scacciato dal suo regno
agli Orienti* andrà chiedendo il suo soccorso;
per paura delle croci piegherà la sua insegna,
in Mitilene andrà per porto e per terra.
La seconda quartina dice:
Iour que sera par Royne saluee
le iour apres le salut la prière;
le compt fait raison & valbuee,
par avant humble oncques ne fut si fiere.
Giorno che sarà dalla Regina* salutata
il giorno dopo il saluto la preghiera;
il conto fatto ragione e valutata,
precedentemente, un umile mai fu così fiero.
Tentiamo di interpretare questi testi a cominciare dal secondo.
Accettando la traduzione (di Mirella Corvaja) di Royne con «Regina» (e non, per esempio, con l’ assonantissimo nome della città francese di Rouen), il primo verso della quartina X, 19 andrebbe letto:
1) Giorno che sarà dalla Regina salutata: Il giorno che sarà caratterizzato, segnato, dalla Regina = la Vergine Maria, Regina del cielo e Regina degli Apostoli, salutata dall’ arcangelo Gabriele nell’ Annunciazione (con la celebre frase tradotta in latino con «Ave, Maria»). Si tratta dunque di un giorno legato alla Madonna.
2) Giorno che sarà segnato dalla Regina salvata: qui la parola francese saluee è letta come salvée, salvata, con una interpretazione che considera la U di saluee come lettera V, che veniva scritta spesso con il carattere U almeno fino alla metà del Seicento, così da supporre che il verbo salvare (sauver) si potesse scrivere anche salver all’ epoca di Nostradamus. Ne risulta: Il giorno che sarà dalla Regina salvata = Il giorno che sarà segnato dalla Vergine Maria, Regina del Cielo // Regina degli Apostoli, salvata dal peccato originale secondo il dogma dell’ Immacolata Concezione (rivelato da Lei stessa a Bernadette Soubirous nelle apparizioni di Lourdes nel 1858, e successivamente accolto ufficialmente dalla Chiesa cattolica, ma elaborato in ambito francescano già dal XIV secolo almeno).
Con il riferimento a Lourdes, entra in campo l’ eventuale secondo soggetto (Bernadette), sebbene nella quartina possa essere del tutto sottinteso; il verso può allora essere letto anche così:
1) Giorno che (Bernadette) sarà dalla Regina salutata = Il giorno in cui Bernadette sarà salutata dalla Vergine Maria Regina del Cielo // Regina degli Apostoli;
2) Giorno che (Bernadette) sarà dalla Regina salvata salutata = Il giorno in cui Bernadette sarà salutata dalla Vergine Maria Regina del Cielo // Regina degli Apostoli salvata dal peccato originale;
3) Giorno che (Bernadette) sarà dalla Regina salutata // salvata // salutata = Il giorno in cui Bernadette sarà salutata dalla Vergine Maria Regina del Cielo // Regina degli Apostoli salvata dal peccato originale, salutata dall’ arcangelo Gabriele.
Nel 1858 le apparizioni di Lourdes avvennero proprio a partire dall’ 11 di febbraio, esattamente la stessa data in cui Benedetto XVI ha ufficialmente annunciato le proprie imminenti dimissioni dal soglio petrino.
L’ interpretazione del secondo verso ci permette di precisare meglio questa data: Il giorno dopo il saluto la preghiera. L’ 11 febbraio 2013 è stato infatti un lunedì, quindi il giorno dopo la domenica, in cui si recita l’ Angelus, preghiera che riguarda proprio il saluto dell’ arcangelo Gabriele a Maria, con cui inizia l’ Annunciazione. Qui si preciserebbe perciò che il giorno segnato dalla Regina (Maria) salvata (dal peccato originale) salutata (dall’ arcangelo) di cui Nostradamus ha parlato nel primo verso della quartina sarebbe proprio il giorno successivo a quello della preghiera dell’ Angelus, dunque un lunedì. Inoltre il lunedì prende nome dalla Luna, che a sua volta è un simbolo di Maria (a partire da una delle interpretazioni di Apocalisse XII, 1): un altro elemento mariano che segna il giorno in questione.
Quanto detto fin qui sembra inequivocabile: si tratta di un lunedì segnato da un legame con la Madonna e successivo al giorno in cui si recita l’ Angelus (domenica). Tuttavia, poiché non sappiamo se Nostradamus abbia previsto, tra gli avvenimenti descritti nelle Centurie, anche le apparizioni di Lourdes, potemmo anche escludere il riferimento a Bernadette come soggetto sottinteso del verbo salutata senza che il preciso riferimento al giorno come giorno seguente a quello segnato dalla Regina (del Cielo // degli Apostoli) salutata (dall’ arcangelo) e salvata (dal peccato originale), cioè il giorno in cui si recita l’ Angelus, subisca alcuna distorsione.
La quartina prosegue con:
Il conto fatto, ragione e valutata,
Precedentemente, un umile mai fu così fiero.
Le parole di Benedetto XVI e i commenti che ne sono seguiti si adeguano perfettamente a questa descrizione: il conto, cioè l’ esame, del proprio operato e delle proprie risorse, fatto dal papa con ragione, e ragione valutata… Corvaja traduce valbuee con valuta (senza peraltro che si comprenda se intenda vàluta o valùta), ma sembra assai meglio tradurre con valutata, dato che la parola francese valbuee è in realtà probabilmente valhuee, con la H minuscola scambiata per una B minuscola a causa dello spessore dell’ impronta di stampa tipica dei testi antichi; verosimilmente il termine potrebbe anche essere evalhuee, «valutata» appunto, con la E iniziale (con cui anche oggi, caduta la H all’ interno, inizia il verbo francese évaluer, «valutare») che Nostradamus avrebbe separato allo scopo di rendere il testo ancora più nebuloso.
La quartina termina, coerentemente nella nostra lettura, appunto con ciò che è stato sottolineato dopo l’ annuncio del papa: prima di lui, mai un pontefice si era dimostrato così umile, e allo stesso tempo così risoluto, nel voler affidare a forze più salde il timone della Chiesa cattolica.
Veniamo alla quartina 19 della Centuria X:
Il vecchio Monarca scacciato dal suo regno
agli Orienti* andrà chiedendo il suo soccorso;
per paura delle croci piegherà la sua insegna,
in Mitilene andrà per porto e per terra.
Vediamo subito che papa Ratzinger, capo supremo della Chiesa di Roma e sovrano della Città del Vaticano, è a tutti gli effetti un anziano monarca, che sta per lasciare il suo regno; «scacciato» si potrebbe intendere come allontanato suo malgrado in quanto contrastato da una parte dell’ opinione pubblica o da alcune fazioni all’ interno dell’ apparato istituzionale della Chiesa romana, senza contare i recenti scandali interni come la fuga di documenti che ha coinvolto il personale domestico del papa nella persona del suo maggiordomo, i gravi casi di preti pedofili coperti dai loro vescovi e le presunte rivalità di potere tra alcuni cardinali e monsignori.
Il secondo verso contiene il termine Oreients, che Corvaja traduce con Orienti, che indica qualcuno presso cui il papa andrà chiedendo soccorso. Se pensiamo che Benedetto XVI ha fatto sapere che, una volta lasciata la Cattedra di san Pietro, si ritirerà in un monastero di clausura femminile all’ interno delle mura vaticane, la parola Orienti potrebbe rimandare alla circostanza storica che vide la nascita dell’ eremitismo e del monachesimo cenobitico, nel III e IV secolo, proprio in Medio Oriente e in Egitto (si pensi agli stiliti e ai monaci della Tebaide seguaci di sant’ Antonio abate). Potremmo pensare anche che il termine possa significare anche Orecchianti, una contrazione del termine ipotetico Oreillants (da oreille, «orecchia»), termine la cui pronuncia sarebbe molto simile proprio a quella di Oreients, dato che i religiosi contemplativi ascoltano (nel leggerla e nell’ ascoltarla letta dal monaco a ciò preposto secondo il calendario religioso della propria regola) e perciò, potremmo dire con una espressione un po’ particolare, pregano con le orecchie. In ultimo si potrebbe pensare anche alla parola latina Orantes, coloro che pregano, che è simile sia a Orienti sia a Orecchianti (Oreillants) ed esprime ancora il carattere di religiosi contemplativi che contraddistingue coloro i quali saranno cercati dal papa come soccorso e ricovero. La prima parte della quartina è dunque chiara: L’ anziano monarca (del Vaticano, il papa) impossibilitato a regnare, lascerà il regno e chiederà soccorso a coloro che pregano in contemplazione.
Il terzo verso è di più facile interpretazione: per paura delle croci, cioè dell’ aggravarsi dei dolori (fisici, dovuti all’ età; morali, dovuti all’ ambiente non proprio limpido che gli ruota intorno e a cui si è accennato; spirituali, dovuti al peso della sua altissima funzione), piegherà la sua insegna, cioè abbandonerà il potere papale e i suoi simboli.
L’ ultimo verso appare più complicato: In Mitilene andrà per mare (porto) e per terra. Sembra che non si possa collegare in alcun modo ai precedenti tre versi della profezia: Mitilene è la città capoluogo dell’ isola di Lesbo, celebre per la poesia greca (un nome per tutti, Saffo), che appunto non ha nulla a che fare con un monastero di clausura in cui il papa sta per ritirarsi; inoltre Benedetto XVI qui si dedicherà alla preghiera e agli studi teologici, non alla poesia greca. L’ unico modo per cercarne una spiegazione è tentare un anagramma di Mytilene nella frase francese En Mytilene ira:
E N M Y T I L E N E I R A
****** ↑ ↑ ↑ ↑ ↑ ↑
****** 3 2 5 4 1 6
Riordinando le lettere numerate in ordine crescente otteniamo: En Lymitene ira. Separando ora le due ultime lettere di Lymitene (NE) otteniamo: En Lymite ne ira par port & par terre = Nel Limite, non andrà per mare (porto) e per terra. Nei limiti in cui si troverà – i limiti fisici, ma anche i limiti della clausura in cui ha voluto ritirarsi, nonché i limiti dello Stato Vaticano, cioè i confini (in latino limites) dello Stato Vaticano, che è intenzionato a non varcare più – il vecchio monarca della Chiesa non viaggerà più per i mari e le terre del mondo, come aveva accettato di fare mentre era pontefice.
Riassumendo le due quartine di Nostradamus:
(X, 19) Il giorno seguente alla preghiera del saluto (l’ Angelus) alla Regina (la Vergine Maria) salutata (dall’ arcangelo) // salvata (dal peccato originale; dogma dell’ Immacolata Concezione), il conto fatto con ragione valutata; mai prima un umile fu anche così risoluto:
(III, 47) l’ anziano Monarca (il papa) costretto a lasciare il suo regno, chiederà ricovero agli Oranti; per paura dei dolori rinuncerà all’ insegna (papale); in questi limiti non andrà (più) per mari e per terre.
Una descrizione abbastanza appropriata del singolare avvenimento che si è verificato nella Chiesa cattolica e che ha aperto una prospettiva inedita nella storia della Chiesa di Roma, a quasi due millenni dall’ istituzione del Ministero petrino.
P. F.
*Mirella Corvaja, Le profezie di Nostradamus. Cosa ci riserba il futuro, Milano, Giovanni De Vecchi, 1981.
BALLATOI TERMINALI E MODELLINI DI NURAGHI MAI ESISTITI
Nel quadro generale di assurdità e di ridicolaggini relative alla civiltà nuragica tracciato da alcuni archeologi, ad iniziare da Antonio Taramelli fino a qualcuno vivente – quadro che è perfino offensivo per la intelligenza di noi Sardi – entrano anche la storiella del «ballatoio o terrazzino terminale» che avrebbero avuto i nuraghi e la storiella dei «modellini di nuraghi». Purtroppo non c’è opera o studio, sia che aspiri ad essere scientifico sia che abbia un intento di divulgazione, che non presenti i nuraghi col ballatoio terminale, come quello delle torri medioevali e post-medioevali. Ed invece questi “ballatoi” e quei “modellini” non esistono affatto e non sono esistiti mai.
I supposti “ballatoi”
L’archeologo che ha scavato il Nuraxi di Barumini ha ritenuto di poter affermare l’esistenza del ballatoio terminale nel grande nuraghe in base al ritrovamento, non in situ, ma sparsi nel terreno, di lunghi massi che egli ha considerato “mensoloni”, i quali appunto avrebbero sostenuto il “ballatoio” terminale dell’imponente edificio.
Egli ha pure disegnato quella che sarebbe stata la posizione originaria di quei mensoloni, ma purtroppo in una maniera tale che è chiaramente contraria alle leggi della statica. Sul piano funzionale egli ha sostenuto che il ballatoio serviva ai guerrieri assediati nella supposta grande fortezza, a far sì che i massi scaraventati sui nemici cadessero a perpendicolo su di essi (quasi che rimbalzando sulla muraglia inclinata non potessero essere altrettanto dannosi!).
Senonché nessun nuraghe ha mai avuto un “terrazzino o ballatoio terminale”, per il fatto essenziale che lo impediva la tecnica costruttiva di allora, fondata sull’uso esclusivo della “pietra”, per di più senza l’uso di alcuna malta.
Si deve considerare che la costruzione dei ballatoi terminali degli antichi campanili, torri e castelli è stata possibile solamente dopo l’uso di mattoni cotti, cementati da malte molto resistenti. Però nessuno studioso ha mai affermato e tanto meno dimostrato che i nuraghi avessero sulla cima ballatoi costruiti con mattoni e cementati con una qualsiasi malta.
Questa “favola” dei ballatoi terminali dei nuraghi, messa in bella mostra dai cartelloni esplicativi di nuraghi monumentali e dei nostri musei e dai pieghevoli pubblicitari ad uso dei turisti, è partita – come dicevo poco fa – dal ritrovamento, ai piedi prima del Nuraxi di Barumini e dopo di numerosi altri nuraghi, di “mensoloni” che avrebbero per l’appunto avuto la funzione di sorreggere quei “ballatoi”.
Io però avevo pubblicato, già nel 1970 e poi di recente nel 2006, le fotografie di mensoloni situati ancora in situ, sulla cima dei Tresnuraches di Nùoro e del nuraghe Albucciu di Arzachena, i quali risultano separati l’uno dall’altro e intervallati, in una posizione che non ha alcuna funzionalità pratica, mentre mostra di averne una semplicemente decorativa, esattamente come fanno i mensoloni che si trovano sulla cima delle torri dell’Elefante e di san Pancrazio di Cagliari e del Castello dei Malaspina di Bosa (M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 64, 65; M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Sassari 2009, II ediz., EDES, pag. 16).
A questi esempi sono oggi in grado di aggiungere le fotografie di un nuraghe dei monti di Baunei, che mi sono state fornite da un mio amico del luogo:
Insomma i mensoloni terminali dei nuraghi in effetti determinavano e costituivano una “corona radiata” con funzione decorativa dell’edificio. Ma oltre che funzione decorativa i mensoloni del Nuraxi di Barumini e di altri numerosi nuraghi potevano forse avere una funzione simbolico-religiosa, indicante i raggi del Sole, divinità che indubbiamente anche i Nuragici adoravano.
I supposti “modellini di nuraghe”
Dei “modellini di nuraghe” per il vero si faceva un gran parlare da molto tempo, ma il loro entrare prepotente nelle discussioni è venuto dopo che – finalmente – sono stati effettuati un po’ di scavi nel sito dove sono stati trovati gli ormai famosi Guerrieri di Monti Prama. Uno degli archeologi che hanno effettuato gli scavi ha ritenuto di aver trovati ben 8 modelli di “nuraghi complessi” e poi altri 13 modellini di “nuraghi singoli”. Per il vero egli ha manifestato una notevole difficoltà quando ha tentato di metter su una spiegazione di questi troppo numerosi “modelli e modellini di nuraghi”, ma soprattutto è caduto nell’errore di interpretare un elemento conico che sta sulla cima di questi “modellini” come «la copertura della scala di accesso al terrazzo superiore».
Ma di che materiale sarebbe stata fatta questa “copertura della scala”? forse di plexi-glas? E quale riscontro archeologico è stato mai trovato per essa? Perché quell’elemento conico o cupoletta risulta al centro della cima del “modellino” e non decentrata, come decentrata risulta essere sempre la scala di tutti i nuraghi?
In realtà i supposti 8 modelli di nuraghi complessi non sono altro – come è stato giustamente detto da un altro archeologo – che “basi di colonne” e “capitelli” del tempio ivi esistente.
E nemmeno le altre 13 statuette, alte una trentina di centimetri, sono “modellini di nuraghe”, I) perché risultano troppo alte e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alte come sono avrebbero dovuto avere anche un segno di qualche finestrone, come di fatto si constata in alcuni nuraghi piuttosto alti.
In realtà le 13 statuette di Monti Prama non sono altro che miniature di “lucerne” o di “candelabri”, la cui cupoletta finale indica la fiamma accesa.
Si deve considerare con attenzione che la presenza di lucerne o candelabri in miniatura nel sito di Monti Prama ha una sua esatta motivazione nel fatto che erano in un sito sacrale e precisamente in un tempio dedicato al Sardus Pater. Invece eventuali “modellini di nuraghe” quale mai motivazione potevano avere nel tempio e, più in generale, in qualsiasi altro sito? Che senso aveva e quale spiegazione aveva la fabbricazione di molti “modellini di nuraghe” in generale? Nella sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di Alghero la presenza di un altare a forma di coppa o calice ha un senso in vista delle importanti decisioni politico-religiose che vi si prendevano, mentre la presenza di un “grande modello di nuraghe” – come è stato comicamente detto e scritto – non ha alcun senso né alcuna spiegazione.
E pure grandemente errata è la spiegazione che è stata data e corre in giro del cosiddetto “Modellino di Olmedo”. Questo non era affatto il modellino in bronzo di un nuraghe quadrilobato, I) perché i suoi 5 bracci risultano troppo alti e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno, in quella che dovrebbe essere la lunga cerchia muraria, per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alti come sono i 5 bracci e soprattutto quello centrale avrebbero dovuto avere anche il segno di qualche finestrone nella loro muraglia e invece non ne hanno alcuno.
E le stesse identiche obiezioni muovo per il bronzetto di Ittireddu, anch’esso erroneamente interpretato come “modellino di nuraghe”.
Invece, a mio giudizio, anche quelli di Olmedo e di Ittireddu non sono altro che il modellino di una lucerna, una “lucerna plurima” a 5 bracci o becchi, analoga ad una plurima di terracotta che è stata trovata a Sant’Antioco. Ed anche a questo proposito vale la importante considerazione or ora fatta: nelle caratteristiche di sacralità che valeva per tutti i bronzetti nuragici – dato che costituivano tutti altrettanti doni fatti alle varie divinità – la riproduzione di una lucerna plurima si spiega perfettamente, la riproduzione di un nuraghe plurimo o polilobato non trova alcuna spiegazione.
È verosimile che queste due lucerne plurime implichino anche una “simbologia cosmica”, come ha scritto il mio amico architetto Franco Laner: i bracci dei quattro spigoli rappresenterebbero i quattro punti cardinali, mentre il braccio centrale rappresenterebbe la dimensione verticale dell’alto e del basso.
In proposito è da ricordare che questa medesima simbologia probabilmente esisteva anche nella cosiddetta “Tomba di Porsenna” di Chiusi, in Etruria.
La “favola” del ballatoio terminale dei nuraghi è entrata anche nella fabbricazione del cosiddetto “modellino di nuraghe quadrilobato di San Sperate”, in pietra arenaria giallo-rosa, esposto in bella evidenza nel Museo di Cagliari, che io di recente ho dimostrato essere nient’altro che un grossolano ed anche ridicolo “falso”. Che di falso si tratti, scolpito da qualcuno che quasi certamente si potrebbe riconoscere dalle carte che riguardano l’acquisizione dell’oggetto da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari, è dimostrato chiaramente da alcuni fatti, ma soprattutto da due particolari: I) Il supposto modello di nuraghe presenta un “porticato” che costituirebbe la base dell’edificio; 2) Il muro dei quattro torrioni presenta nella sua parte finale una “rientranza circolare”. Senonché si tratta di due particolari costruttivi che da un lato non si ritrovano in nessun nuraghe reale, dall’altro avrebbero impedito la prosecuzione della costruzione del nuraghe stesso, il quale sarebbe crollato subito, con la messa in opera dei successivi cerchi di massi.
Infine l’oggetto sembra appena uscito dall’officina di uno scultore (e ben a ragione!), dato che presenta molti spigoli della pietra ancora vivi ed intatti.
Massimo Pittau
L’Uomo e il Sacro
L’Uomo e il Sacro
Emanuele Maffia
Indagare il rapporto fra l’uomo e il Divino non è cosa facile.
Prima di iniziare questa indagine è necessario fare un po’ di chiarezza su alcuni concetti spesso fraintesi.
Solitamente si definisce mistica una persona estremamente religiosa, che non manca mai alle funzioni della propria chiesa o confessione, che sembra fidarsi cecamente di quanto i ministri di culto le presentano, che non perde occasione per leggere i libri a lei sacri e non esita a profondere parole piene d’emozione parlando del suo credo, che prega molto e che tutto chiede al suo creatore.
Tuttavia questo è un grave errore.
La parola Mistico deriva dal greco Mysté che significa Iniziato (ai misteri).
Quello che si suole comunemente chiamare mistico non è affatto tale, perché in realtà il suo approccio al divino è semplicemente emotivo. Non si tratta di un mistico ma di una persona emotivamente esaltata.
Il vero Mistico è un entusiasta, nel senso etimologico della parola, ovvero, è in Dio.
Anche “entusiasta” è un termine che oggi è utilizzato in un’accezione distante dal suo significato originale, ed esprime anch’esso uno stato emotivo.
Queste premesse erano necessarie per comprendere come, nel tempo, si sia confusa la religiosità con l’emotività.
A questo punto è necessario analizzare il polo solitamente opposto a quello mistico, ossia, quello occulto.
Si definisce occultista una persona che si occupa di esoterismo e soprattutto di pratiche a esso legate. Spesso il termine occultista è usato come sinonimo di mago.
L’occultista, e quindi il mago, è visto come colui che alla fede antepone la conoscenza o la scienza.
Anche questa interpretazione del termine occultista è errata.
L’occultista è chi si occupa di quello che solitamente è nascosto e che pochi conoscono o desiderano conoscere, in altre parole, di ciò che si può quindi considerare esoterico.
Quest’antitesi fra occultista e mistico è solo un errore nato dall’incomprensione del vero senso di questi termini.
Il mago è in realtà un sacerdote che compie i misteri interiori della sua religione, si vedano, per esempio, i magi zoroastriani.
Il Mistico, l’Iniziato deve divenire un Mago che compie i misteri della religione interiore, anche chiamata dalla tradizione “Arte Regale”.
Nell’Antico Egitto il Faraone riuniva in se sia il potere temporale che quello spirituale egli era, infatti, un Re ma anche un ponte fra il popolo e gli Dei, una divinità sulla terra.
Nell’antica Roma il Pontefix Maximus (Pontefice Massimo) era il capo del collegio dei sacerdoti, detti appunto pontefici. Per lungo tempo i Pontefici Massimi ebbero una forte influenza sul diritto romano. Da Giulio Cesare a Graziano, che rinunciò alla carica nel 375 D.C., tutti gli imperatori furono anche Pontefici Massimi.
Questi due esempi ci mostrano come il vero iniziato debba divenire un Sacerdote-Re, proprio come lo era Melkisedek (Re di Salem e Sacerdote dell’Altissimo), capace di esercitare l’Arte Regale e la funzione Sacerdotale.
L’uomo comune si rivolge al Divino per la paura di quello che non conosce o per la soddisfazione dei propri bisogni o desideri.
L’iniziato si rivolge al Divino per comprendere come servirlo al meglio. L’iniziato non chiede nulla a Dio se non un aiuto per comprendere cosa Egli voglia da lui.
L’uomo comune spinto da un’emotività esaltata prega un dio che non è altro che l’immagine sentimentale che se n’è fatta.
L’iniziato prega un Dio che sta iniziando a conoscere, in una lucidità che nulla ha di emotivo, allo stesso tempo egli è pieno di riconoscenza per quanto da esso riceve.
L’iniziato deve divenire quindi un vero entusiasta, uno che dimora in Dio.
Il vero Mistico penetra con il suo pensiero la mente di Dio e con l’intuizione della propria anima, comprende e conosce così i suoi misteri.
Il Mistico non è un Teologo ma un Teosofo, non desidera speculare sulla lettera ma ricevere la saggezza.
Jacob Bohme con la sua Aurora Nascente ben ci mostra quale sia la profondità dell’anima di un vero Mistico e quanto questa possa ricevere da Dio, leggiamo qualche estratto dalla sua “Aurora Nascente”:
<<Non vi è nulla nella natura che non ha la qualità buona e la qualità cattiva…>>
<<Questo doppio impulso, buono e cattivo, il quale si manifesta in ogni cosa, deriva dalle stelle…>>
<<Perciò il Cristo distingue qui il padre suo celeste dal padre della natura, che è le stelle e gli elementi. Le stelle e gli elementi sono il nostro padre naturale da cui siamo formati, nell’impulso del quale viviamo in questo mondo, e che ci alimenta e ci mantiene.>> (da “Aurora Nascente”, ed. FirenzeLibri s.r.l)
Enrico Cornelio Agrippa nel libro primo della sua opera “De Occulta Philosophia” elenca le virtù e la purezza che un mago deve possedere per compiere miracoli, egli infatti scrisse:
<<Diremo ora della cosa arcana e secreta, necessaria a chi voglia bene operare in quest’arte, cosa che è il principio, il complemento e la chiave di tutte le operazioni magiche, cioè la dignificazione stessa dell’operatore ad una tanto sublime virtù e potestà. Solo l’intelletto, che è in noi la più alta espressione, è capace di operare le cose miracolose e se esso è troppo dominato dalla carne, non sarà capace di operare sulle sostanze divine, cosa che spiega il perché tanti ricerchino le arie di quest’arte senza trovarle. Bisogna dunque che noi che aspiriamo a tanta alta dignità, troviamo anzitutto il modo per distaccarci dalle affezioni della carne dal senso mortale e dalle passioni della materia e in seguito cerchiamo per quale via e in qual modo ci eleveremo a quelle altezze dell’intelletto puro, senza le quali non potremo mai felicemente pervenire alla conoscenza delle cose segrete e alla virtù delle operazioni miracolose>>
…
<<Perciò in tale stato di purezza e d’elevazione ci è dato conoscere le cose che sono al di sopra della natura e scrutare tutto ciò che è contenuto nel nostro mondo>> (da “La Filosofia Occulta o la Magia”, Vol I, Edizioni Mediterranee).
Anche il teosofo tedesco Gichtel, Johann Georg nel suo “Theosophica practica” ci mostra come la vera religione non sia la pratica di una cieca fede in esaltazione emotiva, ma la conoscenza dell’uomo e di Dio ottenuta grazie ad una vita in armonia con la sua Saggezza. Nel detto testo leggiamo:
<<Se vogliamo contemplare ed osservare l’uomo nella sua profonda generazione interiore, bisogna che usciamo, con il nostro animo, dalla vita ELEMENTARE e dalla sideralità terrestre e che ci volgiamo alla vita interiore e divina di Gesù Cristo.
Bisogna che invochiamo la grazia di questo caro medico affinché egli si degni di aprire i nostri occhi chiusi dal Diavolo fin dai tempi del Paradiso. Così potremo riscoprire il nostro occhio di luce per riconoscere e contemplare Dio in noi. Senza che questo accada tutto rimarrebbe un MISTERO sigillato ed inconcepibile al nostro occhio sidereo ragionevole.>> (da “Theosophia Practica”, Edizioni Mediterranee)
Il noto alchimista Basilio Valentino, nelle “Dodici chiavi della Filosofia” scrisse:
<<…ti dico, in verità, se ti sforzi di fare la nostra grande e antica Pietra, sii fedele al mio insegnamento e prima di tutto prega il Creatore di ogni creatura che ti accordi per questo scopo la sua grazia e la sua benedizione.>>
…
<<Non essere più malvagio, ma sii virtuoso perché il tuo cuore sia illuminato verso ogni bene>>. (dalle “Dodici Chiavi della Filosofia”, Edizioni Mediterranee)
Basilio Valentino in più occasioni sprona i suoi discepoli a trovare una comunione interiore con Dio, come premessa al vero lavoro alchemico.
Ne “Il cocchio trionfale dell’antimonio”, attribuito a Basilio Valentino si legge:
<<Perocché io come monaco giudico necessario quello che rimarrà sempre necessario, che quando io, e tu tizio [c. 7v] e sempronio, tolti noi via dagli occhi degli uomini, perduta la vita, lasciamo nel mondo una memoria onorifica ad onore di Dio, acciò la maestà divina si onori, e con una debita preparazione al cammino noi ci accingiamo: il mio stato in vero ricerca uno spirito diverso dal volgo. In questa mia considerazione notai cinque cose da osservarsi dall’indagatore dell’arte:
prima: l’invocazione del nome divino;
seconda: la contemplazione dell’essenza;
terza: una vera ed incorrotta preparazione;
quarta: un buon uso;
quinta: i comodi.
Quali cose tutte devono considerarsi dal vero chimico, imperocché senza queste necessariamente neppur si può dire perfetto chimico. Nume[re]ro pertanto questi cinque membri partitamente, ad uno alla volta.
La invocazione di Dio si deve fare con religione celeste di puro cuore, a coscienza sana, senza ambizione, ipocrisia ed altri abusi, quali sono il fasto, la superbia, l’arroganza, la iattanza mondana, la oppressione del prossimo, ed altri tirannidi vizi di questo genere; i quali egli deve radicalmente affatto dal suo cuore estirpare, acciocché quando il dono della grazia vuole ottenere per la sanita del corpo, tolta via la zizzania dal puro grano, un puro ed ottimamente preparato tempio ella ritrovi; imperocché certamente e piú che certo [che j Iddio non si burla, siccome gli scioli ed i sapienti del secolo pensano. Imperocché come Creatore mai vuol essere invocato e conosciuto se non con un vero timore, dovuta ubbedienza ed umilissima supplica, perché non avendo niente l’uomo, se non quello che il benignissimo Creatore gli concede, il quale gli diede il corpo, la vita, lo spirito operante e la nobilissima anima. Ci dono, senza nostro merito, il cibo, la bevanda, le vesti ed altre cose per le necessita corporali, delle quali cose l’uomo in verun modo ne puote esser privo.
E’ dunque giusto che avanti a tutto, con umili ed intime preghiere, ottenga quelle dal primo Padre, il quale creo il cielo, la terra, le cose visibili e l’invisibili, il firmamento, gli elementi, i vegetabili e tutte le cose; onde e vero, ed e certissimo, che niun empio è per acquistare la medicina vera. Pertanto prima, e se specialmente segui questa dottrina, poni ogni tua speranza e fiducia in Dio, supplichevole implora la sua benedizione, accio la tua ricerca incominci dal timore di Dio.>> (dal “Cocchio Trionfale dell’antimonio”, Edizioni Mediterranee)
Anche nella Libera Muratoria i lavori regolari sono sempre svolti Alla Gloria dell’Ente Supremo chiamato in diversi modi secondo il rito. Per esempio, Grande Architetto Dell’Universo, Supremo Architetto dei Mondi, Vero Vivente Iddio Altissimo etc…
Nella Confessio Fraternitatis della Rosacroce classica, a proposito della Sacra Bibbia leggiamo:
<<Benedetto sia chi la possiede. Ancora più benedetto sia colui che la legge diligentemente. Ma più benedetto di tutti sia colui che realmente la comprende, per la qual cosa egli è sommamente gradito a Dio e arriva accanto a lui.>>
<< E ammoniamo tutti quanti di leggere diligentemente e continuamente la Sacra Bibbia, perché colui che potrà penetrare tutti i piaceri che essa contiene, saprà che è stata preparata per lui una splendida via per entrare nella nostra Confraternita.>>
Il nome del Padre e Fratello che fondò l’Ordine è Christian Rosenkreutz che significa Cristiano Rosacroce.
Nella Fama Fraternitatis leggiamo, all’inizio del panegirico riportato alla fine del libro T: <<Granum pectori Iesu insitum, C. Ros. C…>> ovvero <<Cristiano Rosa Croce, seme nascosto nel cuore di Gesù…>>.
Nei versi d’oro di Pitagora possiamo leggere: <<Onora innanzitutto gli dei immortali…>>.
Louise Claude de Saint Martin ne “L’uomo di desiderio” scrive:
<<Uomo, uomo, dove trovare un destino che sorpassi il tuo, giacché sei chiamato a fraternizzare col tuo Dio ed a lavorare di comune accordo con lui!>>
<<E perché Dio è la meta dell’uomo nei cieli, che l’uomo è stato la meta di Dio sulla natura. Cos’è che ci insegna questa verità? Seguite con l’intelligenza, il corso delle sue operazioni.>>. (da “L’uomo di Desiderio”, ed. FirenzeLibri s.r.l)
Tutte queste citazioni hanno due scopi, da una parte volevano mostrare come gli iniziati abbiano sempre praticato i misteri più profondi della religione allo scopo di divenire uno in e con Dio, dall’altra stimolare il lettore ad approfondire gli scritti di questi autori che molto hanno detto sulla religiosità vissuta dagli iniziati.
La fede dell’iniziato non è cieca fiducia ma il risultato di un discernimento della coscienza, di un riconoscimento interiore, del Divino stesso.
L’uomo comune prega per avere per sé o per gli altri, l’iniziato per dare a Dio.
La preghiera del vero Mistico, dell’Iniziato, è un servizio reso al proprio Dio in sé e fuori di sé.
Questo tipo di preghiera è un atto estremamente magico che evoca le forze divine che desiderano salvare l’uomo.
Un Servizio religioso eseguito in armonia con le leggi divine permette alle suddette forze di operare scientificamente, in lui e nella comunità, al servizio del Cammino.
Questa è la vera Teurgia che gli iniziati hanno sempre praticato sul Cammino.
Appare chiaro che, a questo punto, la distinzione che alcune correnti fanno fra “Via Cardiaca” o “Via Teurgica” sia assolutamente artificiale, poiché la Via è una e non può essere percorsa senza evocarne le forze, tuttavia la vera evocazione di tali forze è un atto interiore e non è necessariamente legato a complesse cerimonie esteriori.
Abbiamo detto che il vero Iniziato si trova sul Cammino, ma di quale cammino si tratta?
Di quello di ritorno alla Casa del Padre, che ogni iniziato deve percorrere, essendo questo l’obiettivo finale di ogni iniziazione, lo scopo per il quale ogni religione è nata.
Il termine religione significa riconnettere, unire nuovamente.
Cose deve essere unito nuovamente? L’uomo con Dio.
L’Arca di Noè, del racconto diluviano che troviamo nel Genesi, è l’immagine di una Scuola dei Misteri che deve portare i suoi iniziati a tornare alla casa paterna.
Questo può accadere solo se l’iniziato si applica in un cammino di auto-rivolgimento interiore.
In ebraico la parola usata in Genesi per arca è Tebah e si scrive תבה se la si capovolge e si pone al centro una yod י,che rappresenta la volontà divina messa in atto, diviene הבית e significa “la casa”.
Questo suggerisce che grazie alla Scuola dei Misteri l’Iniziato deve porre al centro della sua vita la forza dinamica del divino, grazie alla quale applicare il necessario rivolgimento interiore che lo porterà a rientrare come il Figliol Prodigo nella Casa del Padre.
Pensieri sul Cavaliere Rosa Croce del Rito di Menphis Primitivo e Orientale
Da anni colleziono e studio rituali di diverse organizzazioni e fra questi non potevano mancare quelli massonici.
Fra i vari rituali che sono riuscito a reperire sui banchi dei più disparati negozi o bancarelle, oppure acquistare in rete, c’è il rituale del Grado 11° – 18° (Cavaliere Rosa-Croce) dell’Antico e Primitivo Rito Orientale di Menphis per l’Italia e le sue colonie. Questo rituale è del 1923.
Non faccio parte della Massoneria e nemmeno vi ho mai fatto parte prima, quindi le osservazioni che condividerò, con questo testo, sono solo mie riflessioni, sono il frutto di quanto è sorto, da dentro, alla mia coscienza mentre leggevo le righe del rituale.
Per dovere di cronaca devo però dire che da alcuni anni faccio parte di una Scuola Rosicruciana il cui insegnamento ha cambiato l amia vita e mi ha dato la possibilità di comprendere quanto dal profondo voleva comunicarsi alla mia coscienza.
Non conosco l’interpretazione che ne darebbe un Massone aderente al Rito Primitivo di Menphis e nemmeno se concorderebbe con la mia visione. Non so neanche se i lavori condotti nelle logge di tale rito concordino con la mia lettura del rituale in questione. Tuttavia, il piano di lavoro che intravedo fra le righe di questo complesso rituale, a parer mio, non è casuale. Chi scrisse questo rituale forse poteva essere conscio del piano che vi si può leggere o forse, semplicemente, fu così sensibile da coglierlo in modo astratto e immaginifico ma non sufficientemente preparato per decodificarlo. In entrambi i casi quel che conta e quanto le immagini di queste righe possono suggerire all’anima in cammino verso la Casa del Padre.
Subito ho voluto confrontarne il contenuto con l’analogo rituale del Rito Scozzese antico ed Accettato (presente nella raccolta di Salvatore Farina).
Ho immediatamente notato delle differenze. I due rituali, pur condividendo alla radice i medesimi principi di fondo, si specializzano in modo differente. I loro contenuti non si pongono, fra di essi, in contrapposizione o in alternativa l’’uno all’altro. (anche se in taluni passaggi potrebbe sembrare), anzi vi si può notare una certa complementarietà.
Nel Rito Scozzese Antico e Accettato quando i neofiti bussano alla porta del tempio, di loro è detto che sono:
<<Maestro delle Cerimonie – Dei Cavalieri d’Oriente e d’Occidente, erranti nei boschi e per le montagne fin dall’epoca della distruzione del Tempio , sofferenti per la Parola e qui giunti per domandarvela. Sono i Fratelli……..>>
Mentre nell’Antico e Primitivo Rito Orientale di Menphis del neofita che bussa è detto:
<<CAPITANO DELLA OUARDIA :
Sin dalla demolizione del Tempio del Signore egli continuò ad errare nelle tenebre, nei boschi, nelle montagne e per l’oscuro e desolato deserto dell’ignoranza e della superstizione, ed avendo perduto la Parola, chiede la vostra assistenza per ritrovarla.>>
Nel caso del rituale nel Rito Scozzese Antico e Accettato il neofita è afflitto a causa della Parola, che ovviamente non conosce.
Nel Rito di Menphis il neofita è conscio di vivere una vita di ignoranza e superstizione perché ha perduto la Parola. Mentre nel rituale del Rito Scozzese Antico e Accettato il Neofita si pone in modo passivo, infatti giunge al Tempio del capitolo per domandare la Parola, nel rituale di Menphis egli si pone in modo attivo, infatti, chiede l’assistenza del capitolo per cercarla.
Questa sembra una sottile differenza ma in realtà gioca un ruolo fondamentale. E solo quando il cercatore è conscio che questa vita poggia su valori d’ignoranza e superstizione che nasce in lui il desiderio della vera ricerca. Egli cerca un qualcosa che non conosce ma che presente di aver perduto. Si tratta di uno stato di Vita Originale, nel quale l’Uomo viveva prima della Caduta.
[…]
Di quale legge si parla?
Sia nel Rito Scozzese Antico e Accettato sia nel Rito di Menphis la Fede, la Speranza e la Carità sono proclamate come colonne della Nuova Legge.
Nel rituale del Rito di Menphis, in più è detto:
<<
La legge proclamata è questa: “Fate agli altri ciò che vor-reste fosse fatto a voi“. E poi sta scritto: “L’occhio non vide, l’orecchio non udì, né poté l’uomo concepire ciò che Dio ha preparato per coloro che l’amano.” Noi non disperiamo, noi pra-ticheremo la nuova legge della virtù, e, guidati dalla sua dot-trina, procureremo di recuperare la Parola Sacra.
[…]
Oratore cosa ci rimane ora da fare?
ORATORE :
Rispettare i decreti del grande Creatore che è il Padre uni-versale di tutti ed inchinarci davanti a Lui in umiltà e sincerità mentre con la perseveranza, l’abnegazione ed il lavoro diligente,, procureremo di riacquistare la Parola perduta.
SAGGISSIMO.‘.
Rispettabile Cavaliere Conduttore, guidate il Neofita per il Settentrione, per l’Oriente, per il Mezzogiorno e per l’Occidente, affinché egli possa ammirare le bellezze del nuovo Eden, donde scaturì la nuova legge, e specialmente quella dell’amore.
[…]
SAGGISSIMO:
Ed ora attenetevi a queste tre, virtù: alla Fede, alla Speranza, alla Carità, ma non dimenticate che la più grande è la Carità.
CONDUTTORE:
Non fate ad, altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi. Ciò significa giustizia. Fate all’umanità ciò che voi, vorreste vi fosse fatto. Ciò significa Carità (n.d.r: Leggasi Amore).
>>
Da queste parole vediamo che:
1. Per ritrovare la Parola Perduta, lo stato di vita originale, è necessario lavorare con umiltà, in abnegazione, perseverando, nell’osservare le leggi del Creatore, ovvero, vivendo sulla base del Servizio a Dio in noi, in un orientamento in accordo con la Legge del Cuore.
2. La più importante Virtù, quella che può trasformare radicalmente la vita dell’iniziato è l’Amore. Non si tratta dell’amore sentimentale ne dell’umanitarismo, ma del lavoro al servizio dell’umanità che l’Iniziato compie. Egli non desidera liberarsi per lasciare, dietro di sé nel fango della natura tutti gli altri, egli, al contrario, desidera liberarsi e nel contempo, nella misura delle sue possibilità aiutare gli altri a trovare anch’essi la liberazione.
3. La Nuova Legge proviene dal Nuovo Eden, il nuovo campo di Vita, nel qual l’Uomo rigenerato, Trasfigurato, può essere nuovamente ammesso.
I Sette Viaggi
Nel rituale del Rito Scozzese Antico ed Accettato, al candidato vengono fatti fare tre viaggi uno davanti a ciascuno dei tre cartelli “Fede” , “Speranza” e “Carità”.
I Viaggi nel Rito Primitivo di Menphis sono, invece, sette.
Gli elementi di questi sette viaggi sono:
1. Viaggio:
a. L’Arca Santa (quella di Noè) è perduta
b. La Parola è perduta
c. Salomone ricevette a Gabaon, quello che non poté conservare a Zion, compresa la Sapienza <<i suoi errori e la sua illegalità macchiando la gloria la velarono ai suoi occhi>>.
Entrambi i luoghi Gabaon e Zion sono vette (Gabaon è una collina e Zion un monte). La collina è solitamente più bassa del monte. Entrambi sono usati come simbolo del Santuario della Testa, del Potere del Pensiero. Nel caso di Gabaon, l’iniziato si pone con umiltà nei confronti del divino e da questi riceve una prima comprensione dei misteri. Se l’Iniziato innalza il proprio intelletto ad un ruolo che non gli compete, se l’orgoglio prende il posto dell’umiltà, allora egli si macchia con gravi errori e illegalità che velano ai suoi occhi la gloria di Dio. Questo viaggio vuol attirare l’attenzione sulla miseria dello stato umano e sulla necessaria umiltà per ritrovare la strada verso la Casa del Padre.
2. Viaggio:
a. La Scienza ritornò in cielo
b. La pietra cubica suda sangue ed acqua
c. Badate di non farvi forviare da false luci, ma attendete che i vapori pestiferi che sorgono dai pantani della Terra e che lo splendore del sole indorano, siano dispersi.
Questo viaggio suggerisce all’iniziato di non lasciarsi abbagliare dall’illusione, di attendere che quanto ancora impuro in lui sia purificato dal cammino, prima di intraprendere passi successivi.
3. Viaggio:
a. Ritiratevi o neri fantasmi della superstizione, che opprimete la libertà dell’anima.
b. Ritiratevi ostacoli dell’ignoranza e dell’illusione che vorreste ingannare l’intelligenza di chi cerca la verità.
Questo viaggio da una parte incita l’iniziato a liberarsi dalla superstizione e dalla religiosità naturale, piccolo borghese, e dall’altra suona come uno scongiuro con il quale allontanare da lui la nefasta azione di tali neri fantasmi, in altre parole, rassicura il candidato sul fatto che sarà protetto e aiutato da Dio nel suo distacco da tali influenze.
4. Viaggio:
a. Il Grande Adonai renderà vani gli sforzi dei fantasmi della superstizione per cattivare l’anima delle sue creature.
b. La vera sapienza ritornerà sulla Terra.
Questo viaggio, ribadisce il sostegno di Dio all’iniziato ma nello stesso tempo lo informa che il frutto del suo impegno, in quest’opera, sarà il “ritorno della sapienza sulla Terra”, ovvero, egli sarà nuovamente in grado di ricevere il tocco di Dio nel suo Santuario della Testa, il suo Potere del Pensiero potrà nuovamente penetrare i misteri che Dio gli mostrerà.
5. Viaggio:
a. La caduta d’Eden o di Zion non potranno essere più rinnovate.
b. Il Sommo bene ha riservato una splendente beatitudine intellettuale ai suoi fedeli.
Nella nostra vita quotidiana ogni giorno rinnoviamo lo stato di Caduta, in altre parole, continuiamo a permanervi. Il quinto Viaggio, ci dice che se l’iniziato è riuscito nell’opera e la Sapienza di Dio ha nuovamente illuminato il suo Pensiero, allora egli ha superato lo stato di Caduta e quindi non la rinnova più. Questo però non significa che non possa cadere nuovamente, quindi la vigilanza s’impone.
6. Viaggio:
a. Conosciamo la sapienza dell’Ente Supremo:
i. Amate la Fratellanza
ii. Temete Dio
iii. Onorate il Maestro
La vera Sapienza non si acquisisce con lo studio di grossi volumi ma vivendo in armonia con il Logos. Chi pone al centro della propria vita il Dio che vive nel più profondo del microcosmo che egli abita, chi lavora per la Rigenerazione di tale microcosmo, ponendo il proprio ego in uno stato di auto-resa a tale Dio, onora il Maestro Interiore, lo rispetta e desidera offrire la stessa possibilità a tutti quelli che cercano un avia d’uscita alla sofferenza dello stato di caduta. Questo è il messaggio del sesto viaggio.
7. Viaggio:
a. La legge proclamata è “Fate agli altri ciò che vor-reste fosse fatto a voi“
b. L’uomo non può concepire ciò che Dio ha preparato per coloro che l’amano.
c. Praticheremo la nuova legge della virtù, e guidati dalla sua dottrina, procureremo di recuperare la Parola Sacra.
Il Settimo viaggio incita ad una vita di atti concreti, improntati alla dottrina della Virtù di cui L’Iniziato dovrebbe intuire la filosofia per misericordia di Dio. Grazie a questo nuovo stile di vita egli può ritrovare la Parola Perduta, lo stato d’essere dell’uomo originale prima della caduta.
Mi auguro che quanto detto possa trovare una eco negli animi di coloro che seriamente cercano la risposta a quell’inquietante massa di domande che è la vita.
Emanuele Maffia
Del sacro e del profano
Capitolo II
Del Sacro e del Profano
“La mente può sviluppare i nessi logici fino a un determinato punto, raggiunto il quale la prova deve cedere il passo all’evidenza. Li occorre compiere il salto oppure ritirarsi. Il punto di rottura in questione indica un mistero del tempo. I punti di rottura sono dei luoghi di ritrovamenti. Anche la morte è un punto di rottura, non una fine; ed è questo l’orizzonte della parola “Origine” (Ernst Jünger da Uccelli d’altri cieli).
Nel definire dialetticamente un concetto trascendente, quale per noi il sacro rappresenta, siamo consapevoli della grande difficoltà insita in tale compito, in quanto questo presuppone necessariamente il ricorso alla ragione e il contestuale superamento dei suoi limiti. Tale superamento è possibile riconoscendo che l’indagine conoscitiva del concetto trascendente e della sua Origine è conducibile solamente oltre quei limiti. Abbiamo ritenuto necessario, pertanto, rinunciare a priori a qualsiasi forma di presunzione ideologica precostituita, per inquadrare il problema entro una dimensione tendente a superare ogni forma di manipolazione filologica, storica, religiosa, ecc.. Crediamo, infatti, che sia di fondamentale importanza cercare di preservare il più possibile la purezza originaria del concetto. Storicamente la definizione di sacro è data come ciò che si contrappone al profano; ovvero è la forma religiosa che si oppone alla secolarizzazione. Ma questa definizione dicotomica a noi non sembra la più adatta alla nostra speculazione, in quanto vogliamo cercare di mostrarne l’unitarietà, concependola come un unico punto coincidente di Origine e Orizzonte. Henri Poincaré ci insegna la scala di osservazione e Mircea Eliade nella prefazione del “Trattato di storia delle religioni” ci fa notare che un naturalista che osservi un elefante esclusivamente al microscopio non potrà che conoscerlo solamente nella struttura e nel meccanismo pluricellulare. Ma anche osservando tutti gli organismi pluricellulari delle diverse specie, questo tipo di osservazione darà sempre il medesimo risultato. Dunque l’osservazione microscopica non è in grado di distinguere la specie elefante da qualsiasi altra struttura organica pluricellulare. La scala visiva umana ha, invece, la facoltà di osservare il fenomeno organico sotto un altro aspetto, che è proprio quello della distinzione della specie. Non si può dire, pertanto, che una delle due osservazioni sia errata e l’altra giusta, semplicemente queste avvengono sotto una differente scala. Solo una visione unitaria, seppure ancora relativa in questo stadio conoscitivo, è in grado di mostrarci il fenomeno elefante come un organismo vivente che possiede una sua forma propria e una struttura e un meccanismo pluricellulare comune ad altre specie. Secondo la nostra concezione il sacro è una forma trascendente non relativa e, pertanto, va osservata attraverso una scala visiva unitaria assoluta, soggettiva e identitaria. Spiegheremo più avanti come intendiamo i concetti di soggettivo e identitario. Asserendo che il sacro è una forma trascendente non possiamo contrapporla ad una forma immanente e finita quale è quella profana, ma dobbiamo considerarla in sé; ovvero affermiamo, come abbiamo cercato di mostrare in altra sede (1), che la forma immanente è un contenuto della forma trascendente. Noi intendiamo il concetto del sacro come ciò che proviene dall’Origine e all’Origine ritorna, ma non quando subisca una manipolazione che definiamo profana. Tuttavia non intendiamo il profano come perdita definitiva dell’essenza sacrale, piuttosto come disgregazione e dispersione della stessa che, come tale, può essere ritrovata, ricostituita e ricondotta all’Origine unitaria trascendente. Approfondiamo questo concetto per poterlo comprendere meglio. Nella coscienza antica, la garanzia del processo conoscitivo viene fornita dalla sicurezza e dalla certezza nell’Origine, dalla quale scaturisce ogni realtà ed ogni scienza. Questa visione, da un punto di vista filosofico, ha il suo fondamento nella logica aristotelica e scolastica, basata sul metodo deduttivo, in cui procedendo dall’universale si arriva al particolare. Nella coscienza moderna, teologia, filosofia e dialettica vengono soppiantate da una coscienza filologica e storica, lineare e progressiva. Si diffonde la convinzione che ogni scienza, sia essa umanistica o naturalistica, possa procedere separatamente dalle altre poiché in sé contiene l’essenza divina e quindi può fare a meno di qualsiasi forma di rivelazione. In concreto, attraverso il passaggio dal metodo deduttivo aristotelico a quello induttivo baconiano si attua la rottura dell’unitarietà del metodo conoscitivo. La ricerca occidentale viene completamente laicizzata e rifiuta di riferire all’Origine trascendente ogni concetto o principio posto al di fuori della competenza razionale. Ma ci sono questioni, parafrasando Pascal, che appartengono alla sfera del “cuore” e che trascendono la sfera razionale e quella geometrica. L’arte e la religione, ad esempio, sono tra queste e sono indagabili solamente con “esprit de finesse”, in quanto presuppongono il possesso di una fede: nell’Idea la prima, in un Essere Supremo o in Dio, la seconda. Nella forma artistica, come nel culto religioso, avviene una rappresentazione della sfera trascendente. Dal modo in cui questa avviene distinguiamo il bello dal sublime nell’arte e il sacro dal profano nella religione. Tale rappresentazione può avvenire, appunto, in due modi: per induzione o per deduzione. Nel primo modo si procede dalla forma immanente verso la Realtà trascendente e si considerano le due forme separate e contrapposte fra loro: questo modo lo chiamiamo positivo. Il termine deriva etimologicamente dal latino positum e sta ad indicare ciò che si fonda nella realtà concreta, contrapponendosi a ciò che è astratto. La peculiarità di questo metodo consiste nel procedere in forma lineare e progressiva. Esso considera e focalizza la sua attenzione sull’oggetto e ricerca nel concreto e nel tangibile, nella realtà formale e apparente, il significato essenziale della Realtà trascendente. Il metodo induttivo implica l’azione e la volontà dell’uomo e, pertanto, rende oggettiva la ricerca sottoponendola ad una manipolazione che definiamo profana. Nel secondo modo la rappresentazione avviene attraverso il procedere della forma trascendente verso la forma immanente, considerando la seconda un contenuto e una manifestazione della prima. Questo modo lo chiamiamo per via negationis econsiste nel riconoscere il manifestarsi dell’Origine attraverso la consapevolezza del limite e della fallibilità della ragione. Qui la forma trascendente procede indipendentemente dal limite razionale e dalla volontà umana. Solo l’annullamento della volontà e il riconoscimento dell’inadeguatezza della capacità razionale, infatti, permette di trascendere e di superare tali limiti attraverso la mediazione della fede. In questa mediazione si annulla il procedere lineare e orizzontale di una forma verso l’altra per risolversi in una assoluta e simultanea identità. Si tratta, allora, di un procedere circolare e soggettivo, che si esplica attraverso un principio di simultaneità unitaria e identitaria. Per comprendere meglio come intendiamo i concetti di soggettivo e di identitario, ci richiamiamo ai riti iniziatici misteriosofici del mondo antico greco e medio-orientale. La genesi dei riti misterici, storicamente, risale all’antico mondo agricolo. In esso rileviamo il fondamento analogico del ciclo vita-morte-rinascita, basato sul processo stagionale ripetitivo della coltura agricola. Questo equivale al ciclo umano di nascita-morte-rinascita. Il rito di iniziazione replica l’alternanza periodica dei fenomeni naturali. La sua peculiarità consiste nel fatto che in esso avviene una rivelazione, rilevabile solamente da colui che abbia una particolare predisposizione a riceverla. La rivelazione avviene non sotto forma di una esposizione o di una spiegazione palese e logica del contenuto esoterico, bensì attraverso l’interpretazione simbolica della ri-evocazione rituale. E’ il rito in se stesso che “comunica”, attraverso la mediazione del Logos, ciò che nel vero iniziato assume valenze e significati che vanno ben al di la della dimensione esteriore. E’ in questo contesto che viene evidenziato il carattere di soggettività tipico dell’esoterismo. Dunque non si tratta di un rituale simbolico e di comunicazione che ha lo scopo di insegnare o palesare gli aspetti e i significati dell’Essere occulto, ma vuole indicare la via di ingresso, la porta di accesso alla dimensione esoterica. L’obiettivo del rito iniziatico, come sostenuto da Guenon, consiste nel suo superamento metafisico, poiché soltanto in questo risiede la possibilità di accesso a dimensioni superiori. Pertanto la predisposizione all’iniziazione del neofita è necessaria, ma non sufficiente. Essa non determina di per sé l’intrapresa del cammino iniziatico ed esoterico e della sua riuscita, ma è necessario che lo studio e lo scopo convergano, escludendo qualsiasi forma di appagamento del proprio ego materiale e corporeo, affinché si possa pervenire ad una sintesi unitaria. Anche nel rito iniziatico, infatti, troviamo un primo dualismo, una doppia componente: una fisica e una metafisica. Il superamento indicato consiste, in primo luogo, nell’affermazione del carattere fisico e tangibile della manifestazione rituale in sé, attraverso gli atti e il verbo, ma, anche e soprattutto, nella sua contestuale e necessaria negazione. Negazione in grado di ricondurre il neofita verso il concepimento di una sintesi universale, che si serve del tangibile come fondamento di comprensione, ma che lo supera e lo riafferma nella necessità del Ritorno all’Unità essenziale. Si rileva, inoltre, un ulteriore significato dualistico, uno soggettivo e uno intersoggettivo. Si verifica, cioè, una trasmigrazione di energie psichiche fra la comunità dei partecipanti e il neofita, il quale le assimila in maniera del tutto soggettiva, dando inizio a quella trasmutazione interiore che potremmo definire di morte e rinascita. Nella rinascita avviene la metamorfosi che consiste nella visione unitaria del Tutto, ovvero nella completa assimilazione di qualsiasi dualismo e molteplicità nell’Unità Divina. In altre parole viene concesso all’iniziando di stabilire, attraverso il trasmutare del proprio stato interiore, un filo diretto e continuo con la Tradizione e con la comunità iniziatica. Anche questo dualismo, che abbiamo chiamato psico-energetico, soggettivo e intersoggettivo, non può che risolversi in una sintesi universale mediata del Logos. La conoscenza esoterica, dunque, è un tipo di conoscenza che, una volta negato e superato il dualismo materia-spirito, si riafferma in una sintesi soggettiva spirituale, ovvero identitaria, basata su evidenti concetti che sono visibili chiaramente, parafrasando ancora Pascal, solo da uno spirito di finezza qual è quello esoterico e non, ovviamente, da uno spirito razionale e geometrico qual è quello moderno. La scienza moderna è, infatti, limitata oggettivamente; ovvero è un tipo di conoscenza che si basa su dati sperimentabili, verificabili e dimostrabili, fino a prova contraria. Dunque il pensiero moderno, con la sua scissione del Reale, ha spezzato la concezione di una conoscenza unitaria e circolare, basata sulla essenziale identità fra soggetto e oggetto, fra trascendenza e immanenza. Unitarietà che nulla esclude, ma procede per gradi attraverso un percorso di affermazione, negazione e sintesi, comprendendo in sé l’initium materiale, simboleggiato dalla materia grezza, o dal neofita, che nella sua metamorfosi da mezzo diviene fine e parte fondante, egli stesso, del Mistero Divino. Sacro dunque è ciò che esiste nella Realtà metafisica e che attraverso una ierofania si manifesta nella natura, di cui l’uomo si sente parte integrante. Ed è solo sentendosi parte del Tutto che egli può completare il ciclo del Ritorno senza che vi sia alcuna manipolazione profana. E’ in questo contesto che la stessa scienza, attraverso le proprie leggi e con la mediazione della fede, può rappresentare una ierogamia, in cuiavviene il contatto e l’unione tra i mondi cosmici (Terra, Cielo, Inferi). In quel luogo, così concepito, si manifesta il sacro e avviene quella che Mircea Eliade chiama una “rottura di livello”. Non si tratta, ovviamente, come già ribadito, di una concezione sacrale dell’elemento fisico in quanto tale, ma di un simbolismo in cui il bisogno di conoscenza, assumendo valore esistenziale, si costituisce e si concepisce come Centro, come ierofania anch’essa. In altri termini, noi ci sentiamo solidali con l’uomo premoderno, il quale, laddove avviene una ierofania, contempla e adora il sacro in quanto tale, nel suo manifestarsi per via negationis e non l’oggetto in sé per via positum. L’era moderna è caratterizzata da una crescente fiducia nel campo scientifico, dovuta alle continue scoperte che, di fatto, alimentano un ottimismo ed un entusiasmo che si traducono in una fede nel progresso in grado di garantire una continua conoscenza e un crescente benessere materiale. Il paradosso è che a quella crescente fiducia nella ragione corrisponde un oscuramento della coscienza, sempre più dominata dal dubbio e dall’incertezza. A tale problema si cerca di rispondere con il paradossale metodo cartesiano, in cui si pretende di fondare ogni certezza sull’incertezza, ovvero su una metodologia basata sul dubbio. Parafrasando Sedlmayr, in questo modo avviene la “perdita del Centro”, dal quale l’uomo aliena sempre di più la sua concezione esistenziale. Nelle culture arcaiche la concezione del Centro non è solamente una esperienza astratta e ideologica, avulsa dalla realtà esistenziale e pratica, ma si trova fortemente radicata tanto nella coscienza singola quanto in quella di gruppo. In questo connubio, infatti, trova fondamento l’importanza del sentimento unitario che è quello di coscienza collettiva. La comune essenza che la determina viene originata dall’angoscia verso il mistero esistenziale e verso l’ignoto, dalla paura del caos e del disordine cosmico. E’ la trascendenza di quel sentimento che governa l’uomo e il suo agire. Egli conforma il suo operare e la propria esistenza alla qualità e alla sacralità del luogo in cui vive e nel quale il Divino si manifesta. La concezione e l’utilizzo dello spazio e del tempo sono vissuti come un valore qualitativo, sacro ed esistenziale. Il tempo sacro nella cultura arcaica è perennemente immobile ed è ri-vissuto all’interno di un ordine geometrico. In esso, attraverso una rigida ripetizione rituale, avviene la ri-evocazione dell’Atto Creativo primordiale. Nel realizzare le proprie opere, i templi, gli edifici, vi è sempre una ri-evocazione dell’Atto Creativo, del prevalere dell’ordine sul caos. Lo spazio sacro è voluto da Dio ed è quello in cui l’uomo vive, al di fuori del quale vi è il caos e lo spazio profano. Con l’avvento dell’era moderna muta radicalmente la concezione e l’utilizzo del tempo e dello spazio. Questi vengono vissuti non più come valori qualitativi ed esistenziali, bensì come funzionali e quantitativi. La stessa religione, trasformandosi da religione dell’angoscia in religione della morale, diviene positiva. Pertanto si relativizza il concetto platonico di Bene, attraverso un processo di adattamento di quel principio trascendente al particolare immanente. Anche l’arte si rende positiva quando si ricerca nella forma esteriore il senso e il significato dell’opera. L’opera d’arte è tale quando vi è una totale identificazione, simultanea e circolare, fra l’Idea, l’autore e la forma. L’essenza artistica della rappresentazione formale è la fede nell’Idea e si esplica attraverso il soggetto che la realizza nell’oggetto. Mediante la fede l’artista crea la soggettività nell’opera in quanto in essa si identifica. Questa diversa concezione determina anche la sostanziale differenza fra l’artigiano e l’artista, nonché degli attributi dell’opera: bella e immanente è l’opera dell’artigiano, sublime e trascendente l’opera dell’artista.
“Voi dite: il divino sovrasta spazio e tempo, ma poi lo racchiudete nello scrigno di un tempio. L’intelletto incerto pretende di capire ciò che è infinito dall’eternità. Solo quando lo spirito, libero da fini e desideri, dimenticherà se stesso e l’apparenza del finito, potrà innalzarsi alla dimensione dell’immenso, unico vero senso della pace di Dio” (Abul ʿAla Al-Maʿarri, filosofo arabo, cieco, del X secolo)
Sandro Secci
(1) Betile n. 6, La trascendenza dell’etica e l’immanenza della morale.
Il senso della storia fra progresso materiale e regresso intellettuale
La filosofia della storia, sorta con lo scopo di ricercare un significato nella storia ed una possibile visione teleologica delle vicende umane può dirsi nata con l’opera ‘La philosophie de l’histoire’, ‘La filosofia della storia’, appunto, scritta da Voltaire nel 1765, anche se la ricerca di un senso della storia è di gran lunga precedente. Mentre l’ultimo grande tentativo di filosofia della storia, è rappresentato dall’opera di Karl Jaspers, Origine e senso della storia.
E’ noto che la filosofia della storia sia oggi screditata, soprattutto nell’ambiente culturale italiano, specie dopo che Benedetto Croce ne decretò la definitiva dipartita. Essa è oggigiorno ritenuta una forma culturale obsoleta, stantia. Ma la ricerca di un senso da attribuire alla storia non lasciò insensibile il genio filosofico di Kant, il quale in uno dei suoi ultimi scritti si chiedeva se il genere umano fosse in costante progresso verso il meglio. A tale quesito giunse a darsi una risposta affermativa, seppur con qualche riserva. Egli, infatti, individuò un segno della disposizione dell’uomo a progredire, nell’entusiasmo sortito nell’opinione pubblica mondiale dalla Rivoluzione francese, considerando ciò “una disposizione morale dell’umanità”.
Per un altro grande maestro del pensiero, Hegel, altresì, la storia andava considerata come storia dello Spirito che si realizza. Spirito inteso come Assoluta Ragione. Ciò significa che tutti i fatti storici sarebbero assolutamente necessari anche se ai più appaiono contingenti, a causa del loro punto di vista limitato, dunque incapace di concepire una visione d’insieme della realtà. Nelle “Lezioni di filosofia della storia” inoltre Hegel spiega come i singoli individui credano di essere protagonisti della storia, ma in realtà sono solo mezzi di cui lo Spirito si serve per realizzare i propri scopi.
Dopo la morte di Hegel nel 1831, nacque un dibattito molto acceso in ambito filosofico, che condurrà in seno alla scuola hegeliana alla nascita delle cosiddette Sinistra e Destra hegeliane, e al di fuori al Positivismo ed al filone irrazionalista cui faranno capo pensatori quali Kierkergaard, Schopenhauer e Nietzsche. Per quel che concerne il Positivismo, è bene parlare di un positivismo di matrice sociale e di un secondo di tipo evoluzionistico. Il positivismo evoluzionistico si basa sulla teoria darwiniana della “selezione naturale“. Teoria darwiniana poi estesa da Herbert Spencer alla totalità del reale, con la nota teoria del darwinismo sociale. Gli ultimi due secoli, come ben sappiamo, sono stati contrassegnati da siffatta visione “progressista”, ed ancora al giorno d’oggi la teoria evoluzionistica tiene banco nelle accademie. Ma, certamente, oggigiorno, nessuno si sentirebbe spinto a sottoscrivere l’idea di un progresso irresistibile, molti invece sono i “progressisti” pentiti.
E’ evidente che la storia umana sia oltremodo complessa, per poter giungere a delle conclusioni in merito. Tuttavia, non possiamo esimerci dall’interrogarci su di essa tenendo conto dei segni offertici dagli avvenimenti. Una cosa è certa, progresso scientifico o tecnico, e progresso morale e spirituale sono due cose ben distinte. E mentre il progresso scientifico e tecnico della nostra epoca appare indubitabile, più difficile è affrontare il problema dell’effettività del progresso morale e spirituale.
E’ illuminante a tal proposito ciò ch’ebbe a scrivere quasi un secolo or sono il pensatore tradizionalista Renè Guènon, quando asserì che: “La civiltà occidentale moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia; fra tutte quelle che sono più o meno completamente conosciute, questa civiltà è la sola a essersi sviluppata in un senso puramente materiale, e questo sviluppo mostruoso, il cui inizio coincide con quello che si è convenuto chiamare Rinascimento, è stato accompagnato, come fatalmente doveva, da una regressione intellettuale corrispondente”. (Renè Guènon, Oriente e Occidente). Ecco perchè è importante che al di là delle giuste analisi sociologico-politiche, mai si dovrebbe dimenticare che l’ampiezza e la profondità della crisi che attanaglia l’Occidente vanno ben oltre ciò che ai nostri occhi si manifesta da un punto di vista prettamente quantitativo ed “esteriore”, essendo il piano finanziario solamente una risultante di un processo degenerativo che interessa lo spirito dell’intera civilizzazione occidentale. Unica cosa da fare è, prendere atto del tipo di civiltà in cui siamo stati destinati a vivere, una civiltà - com’ebbe a dire Julius Evola - “crepuscolare…una civiltà delle masse, civiltà antiqualitativa, inorganica, urbanistica, livellatrice, intimamente anarchica, demagogica, antitradizionale”.
Giovanni Balducci
LA FORZA DEL NOME: LA PREGHIERA DI GESÚ NELLA SPIRITUALITÁ ORTODOSSA
LA FORZA DEL NOME: LA PREGHIERA DI GESÚ NELLA SPIRITUALITÁ ORTODOSSA
Kallistos Ware
(Traduzione di Eduardo Ciampi)
Preghiera e Silenzio
“Quando pregate,” è stato detto saggiamente da uno scrittore Ortodosso, “voi stessi dovete essere silenziosi… Siete voi a dover far silenzio; per far sì che sia la preghiera a parlare.”[1] Ottenere silenzio: questa è di tutte le cose la più difficile e la più determinante nell’arte della preghiera. Il silenzio non è soltanto negativo – una pausa tra le parole, una temporanea interruzione del discorso – ma, compreso nel modo giusto, è assai positivo: un atteggiamento di pronta allerta, di vigilanza e soprattutto di ascolto. L’esicasta, l’uomo che ha ottenuto l’hesychia, tranquillità e silenzio interiore, è per eccellenza uno che ascolta. Ascolta la voce della preghiera proprio nel suo cuore, e comprende che questa voce non è la propria ma quella di Un Altro che parla per lui.
La relazione tra preghiera e mantenimento del silenzio si farà più chiara se prenderemo in considerazione quattro brevi definizioni. La prima è del Dizionario Conciso Oxford, che descrive la preghiera come “… solenne richiesta a Dio…. formula utilizzata nel pregare.” La preghiera viene qui considerata come un qualcosa espresso in parole, e più specificamente quale atto di richiesta a Dio per ottenere un qualche beneficio. Siamo ancora a un livello di preghiera esterna più che interna. Pochi potrebbero rimanere soddisfatti da tale definizione.
La nostra seconda definizione, da uno starets russo dello scorso secolo, è assai meno esteriore. Nella preghiera, dice il Vescovo Teofane il Recluso (1815-1894), “la cosa principale è stare dinnanzi a Dio con la mente nel cuore, e continuare a strare dinnanzi a Lui senza posa giorno e notte, sino alla fine della vita.”[2] La preghiera definita in tal modo, non è soltanto un chiedere qualcosa, anzi può sussistere senza l’impiego di alcuna parola. Non si tratta tanto di una attività momentanea quanto di uno stato continuo. Pregare significa stare dinnanzi a Dio, entrare in immediata e personale relazione con Lui; significa conoscere ad ogni livello del nostro essere, dall’istintivo all’intellettivo, dal sub- al super-conscio, che siamo in Dio e Lui è in noi. Affermare e approfondire le nostre relazioni personali con altri esseri umani, non significa necessariamente stare in continuazione a far richieste o usare parole; più riusciamo a conoscere e ad amare un altro, meno avremo bisogno d’esprimere verbalmente quel nostro rapporto reciproco. Lo stesso vale nella nostra relazione personale con Dio.
In queste due prime definizioni, l’accento è posto principalmente su ciò che viene fatto dall’uomo piuttosto che da Dio. Tuttavia nella relazione personale della preghiera, è il partner divino e non quello umano a prendere l’iniziativa, e la sua azione è fondamentale. Ciò emergerà dalla nostra terza definizione, presa da San Gregorio del Sinai (+ 1346). In un elaborato passo, dove egli carica un epiteto sopra l’altro nello sforzo di descrivere la vera realtà della preghiera interiore, conclude improvvisamente con inattesa semplicità: “Perché parlare a lungo? La preghiera è Dio, è Lui che muove ogni cosa in tutti gli uomini.”[3] La Preghiera è Dio – non è qualcosa che inizio, ma qualcosa che condivido; fondamentalmente non è qualcosa che faccio, ma che Dio sta facendo in me: in San Paolo la frase, “non io, ma Cristo in me” (Gal. 2:20). Il sentiero della preghiera interiore è esattamente indicato nelle parole di San Giovanni Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere, e io invece diminuire” (Giovanni 3:30). E’ in tal senso che pregare significa stare in silenzio. “Sei proprio tu quello che deve stare in silenzio; lascia che sia la preghiera a parlare” – o più precisamente lascia parlare Dio. Vera preghiera interiore significa finire di parlare e ascoltare la voce senza parole di Dio che è nel nostro cuore; vuol dire cessare di fare le cose per nostro conto, ed entrare nell’azione di Dio. All’inizio della Liturgia Bizantina, quando i preparativi preliminari sono stati completati e tutto è pronto per l’inizio dell’Eucaristia vera e propria, il diacono si accosta al sacerdote e dice: “E’ giunta l’ora in cui il Signore agisce.”[4] Proprio questo è l’atteggiamento del fedele non soltanto alla Liturgia Eucaristica, ma in tutte le preghiere, pubbliche o private.
La nostra quarta definizione, presa anche stavolta da San Gregorio del Sinai, indica più definitivamente il carattere di questa azione del Signore dentro di noi. “La preghiera”, egli dice, “è la manifestazione del Battesimo.”[5] L’azione del Signore non è naturalmente limitata soltanto ai battezzati; Dio è presente e opera all’interno di tutti gli uomini, in virtù del fatto che ciascuno è creato secondo la Sua immagine e somiglianza divina. Tuttavia quest’immagine è stata oscurata e resa opaca, ma non del tutto rimossa, dalla caduta dell’uomo nel peccato. La restaurazione al suo primitivo splendore e alla sua bellezza avviene attraverso il sacramento del Battesimo, in modo tale che Cristo e lo Spirito Santo vengano a dimorare in quel che i Padri chiamano “l’intima e segreta camera del nostro cuore.” Per gran parte della maggioranza, tuttavia, il Battesimo è qualcosa ricevuto nell’infanzia, di cui non si ha alcuna memoria cosciente. Sebbene il Cristo battesimale e il Paracleto interiore non cessino mai di lavorare in noi neanche per un momento, salvo che in rare occasioni, la maggior parte di noi rimane virtualmente inconsapevole di tale presenza e attività interiore. La vera preghiera, quindi, significa riscoperta e ‘manifestazione’ di tale grazia battesimale. Pregare significa passare dallo stato in cui la grazia è presente nei nostri cuori segretamente e inconsciamente, al punto di piena percezione interiore e piena consapevolezza, quando sperimentiamo e sentiamo l’attività dello Spirito in modo diretto e immediato.
“Nel mio inizio è la mia fine”. Lo scopo della preghiera può essere riassunto nella frase, “Diventa quel che sei.” Diventa, coscientemente ed attivamente, quel che già sei potenzialmente e segretamente, in virtù della tua creazione a immagine divina e della rigenerazione nel Battesimo. Diventa quel che sei: più esattamente, torna in te stesso; scopri Colui che è già tuo; ascolta Colui che non cessa ma di parlare dentro di te; possiedi Colui che già da adesso possiede te, Tale è il messaggio di Dio ad ognuno che vuole pregare: “Non mi cercheresti se mi avessi già trovato.”
Ma come cominciare? Come possiamo imparare a fermare le parole e cominciare ad ascoltare? Invece di parlare semplicemente a Dio, come possiamo fare propria la preghiera in cui Dio ci parla? Come passeremo dalla preghiera espressa in parole alla preghiera del silenzio, dalla preghiera ‘attiva’ a quella ‘auto-agente’, dalla ‘mia’ preghiera alla preghiera di Cristo in me?
Un modo per intraprendere questo viaggio interiore è attraverso l’Invocazione del Nome.
“Signore Gesù….”
Naturalmente, non è l’unico modo. Non può esistere alcuna autentica relazione tra persone senza reciproca libertà e spontaneità, e ciò è vero in particolar modo nella preghiera interiore. Non vi sono regole fisse e invariabili, imposte necessariamente su tutti coloro che cercano di pregare; allo stesso modo non esiste una tecnica meccanica, sia fisica che mentale, che sia in grado di costringere Dio a manifestare la Sua presenza. La sua grazia viene sempre conferita come dono gratuito, e non può essere ottenuta automaticamente da un metodo o da una tecnica. L’incontro tra Dio e l’uomo nel regno del cuore è quindi segnato da un’inesauribile varietà di modalità. Vi sono maestri spirituali nella Chiesa Ortodossa che dicono poco o niente riguardo alla Preghiera di Gesù. Tuttavia, anche se non gode di monopolio esclusivo nel campo della preghiera interiore, la Preghiera di Gesù, per innumerevoli cristiani d’oriente, è divenuta nei secoli il sentiero abituale, la strada regale. E non soltanto per cristiani d’oriente:[6] nell’incontro tra Ortodossi ed occidente avvenuto nei trascorsi sessant’anni, probabilmente nessun elemento della tradizione ortodossa ha destato maggior interesse come la Preghiera di Gesù, e nessun particolare libro s’è rivelato così attraente come i Racconti d’un Pellegrino russo. Questa enigmatica opera, virtualmente sconosciuta nella Russia pre-rivoluzionaria, ha avuto un successo formidabile nel mondo non ortodosso e dagli anni ’20 in poi è stato tradotto in moltissime lingue. I lettori di J. D. Salinger ricorderanno l’impatto che ebbe su Franny questo “libretto dalla rilegatura verde pisello.”
E allora ci chiediamo, dov’è che sta la specifica attrattiva ed efficacia della Preghiera di Gesù? Forse in quattro cose prima di tutto: in primo luogo, nella sua semplicità e flessibilità; in secondo luogo, nella sua completezza; terzo, nel potere del Nome divino; e quarto, nella disciplina spirituale della persistente ripetizione. Ma ora vediamo di ordinare questi punti.
Semplicità e Flessibilità
L’invocazione del Nome è una preghiera di straordinaria facilità, accessibile ad ogni cristiano, tuttavia conduce allo stesso tempo ai più profondi misteri di contemplazione. Chiunque si proponga di recitare la Preghiera di Gesù per lunghi periodi di tempo, e ogni giorno, indubbiamente ha bisogno di uno starets, una affidabile guida spirituale. Tali guide sono estremamente rare al giorno d’oggi. Ma coloro che non hanno alcun contatto personale con uno starets potranno ancora praticare questa preghiera senza timore, finché lo fanno soltanto per periodi limitati – inizialmente, per non più di dieci o quindici minuti alla volta – e finché non fanno alcun tentativo di interferire coi ritmi naturali del corpo.
Non è richiesta alcuna specifica conoscenza o particolare allenamento prima di cominciare la Preghiera di Gesù. All’apprendista novello è sufficiente decidere soltanto di iniziare. “Per camminare è necessario fare il primo passo; per nuotare bisogna gettarsi in acqua. Lo stesso vale per l’Invocazione del Nome. Iniziare a pronunciarlo con adorazione e amore. Avvinghiatevi ad esso. Ripetetelo. Non pensate di stare ad invocare il Nome; pensate soltanto a Gesù in Persona. Pronunciate il Suo Nome in modo lento, dolce, e sommesso.”[7]
La forma esteriore della preghiera s’impara facilmente. Fondamentalmente consiste nelle parole “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me,” o “Signore Gesù”, o persino solamente “Gesù.” Alternativamente, la forma delle parole potrà essere espansa aggiungendo alla fine “misero peccatore”, accentuando così l’aspetto penitenziale. Talvolta viene inserita un’invocazione della Madre di Dio o dei santi. Unico elemento essenziale ed invariabile è l’inclusione del Nome divino ‘Gesù.’
Una simile flessibilità c’è per quel che riguarda le circostanze esterne in cui la Preghiera viene recitata. Si possono distinguere due modalità d’uso della Preghiera: ‘libera’ e ‘formale’. Con l’uso ‘libero’ s’intende la recitazione della Preghiera mentre siamo impegnati nelle nostre abituali attività durante la giornata. Si potrebbe dire di quei vari momenti, che altrimenti più di una volta, andrebbero sprecati spiritualmente: quando siamo occupati con alcuni compiti familiari o semi-automatici, come vestirsi, lavarsi, rammendare calzini, dedicarsi al giardaggio; quando camminiamo o guidiamo, quando siamo in fila in attesa dell’autobus o imbottigliati nel traffico; in un momento di calma prima di qualche incontro particolarmente difficile o problematico; quando non riusciamo a dormire o al risveglio, prima di aver riacquisito piena coscienza. Parte del valore distintivo della Preghiera di Gesù sta proprio nel fatto che, a causa della sua radicale semplicità, può essere eseguita in condizioni di distrazione là dove sono impossibili forme di preghiera più complesse. E’ soprattutto utile in momenti di tensione e di particolare ansia.
Tale ‘libero’ uso della Preghiera di Gesù ci permette di riempire il vuoto tra il nostro esplicito ‘tempo di preghiera’ – sia durante la Messa che da soli nella nostra stanza – e le normali attività di vita quotidiana. “Pregate senza posa,” insiste San Paolo (1Tess. 5:17): tuttavia com’è possibile questo, dal momento che al contempo abbiamo molte altre cose da fare? Il Vescovo Teofane indica il vero metodo nella sua massima, “Le mani all’opera, la mente e il cuore con Dio.”[8] La Preghiera di Gesù, divenendo grazie alla frequente ripetizione quasi abituale e inconscia, ci aiuta a stare in presenza di Dio, ovunque ci troviamo. Quindi diventiamo come Fratello Lawrence, che era “era più unito a Dio durante le sue attività ordinarie che negli esercizi religiosi.” “E’ una grande delusione,” puntualizzò, “immaginare che l’ora della preghiera debba essere diversa da qualsiasi altra, dal momento che siamo ugualmente preposti ad essere uniti a Dio sia nel lavoro, durante l’orario di lavoro, come nella preghiera, durante l’orario di preghiera.”[9] La ‘libera’ recita della Preghiera di Gesù viene resa più affiancata e potenziata dall’uso ‘formale’, quando concentriamo tutta la nostra attenzione nel proferire la Preghiera, sino ad escludere ogni attività esterna. Qui, ancora una volta, non vi sono rigide regole, ma varietà e flessibilità. Non è essenziale alcuna particolare postura Nella pratica ortodossa la Preghiera viene assai spesso recitata seduti, ma può anche essere pronunciata in piedi o in ginocchio – e persino coricati, in casi di debolezza fisica o malattia. Viene comunemente recitata in completa oscurità o ad occhi chiusi, e non ad occhi aperti dinnanzi a un’icona illuminata da candele o da un lumino votivo. Lo starets Silouan del Monte Athos (1866-1938), quando recitava la Preghiera, aveva l’abitudine di riporre il suo orologio in un armadio per non sentirlo ticchettare, per poi calare il proprio pesante cappuccio monastico a coprire occhi e orecchie.[10]
Tuttavia, l’oscurità può avere effetti soporiferi! Se tendiamo ad appisolarci quando recitiamo la Preghiera seduti o in ginocchio, allora dovremmo alzarci in piedi per po’. Potremmo addirittura fare una prostrazione ogni tanto, toccando il suolo con la fronte. La preghiera potrà anche essere recitata in piedi.
Unitamente alla Preghiera, viene spesso impiegato un cordone di preghiera o un rosario, solitamente con cento nodi, non tanto per contare il numero delle volte che viene ripetuta, quanto piuttosto come aiuto alla concentrazione e alla realizzazione di un ritmo regolare. La misurazione quantitativa, sia con un cordone da preghiera che in altri modi, non viene incoraggiata. E’ vero che, nella prima parte dei Racconti d’un Pellegrino russo, viene data grande enfasi dallo starets sul numero preciso delle volte che la Preghiera va fatta quotidianamente. Probabilmente il punto qui non è la semplice quantità ma l’atteggiamento interiore del Pellegrino: lo starets desidera testimoniare la sua obbedienza e la sua prontezza ad applicare una regola definita senza deviazioni. Più preciso è il consiglio del Vescovo Teofane: “Non preoccupatevi del numero di volte che pronunciate la Preghiera. Lasciate che la vostra unica cura sia ch’essa fluisca dal vostro cuore con la forza di una fontana d’acqua gorgogliante. Levatevi completamente dalla testa qualsiasi pensiero di quantità.”
La Preghiera talvolta viene recitata in gruppo, ma più comunemente in maniera individuale; nella recitazione non dovrebbe esservi nulla di forzato o di faticoso. Le parole non andrebbero formate con eccessiva enfasi o con violenza interiore, ma si dovrebbe lasciare che Preghiera stabilisca il proprio ritmo e l’accentuazione, così che col tempo riesca a ‘cantare’ dentro di noi in virtù della sua melodia intrinseca. Lo starets Parfenio di Kiev collegò il movimento fluente della Preghiera ad una energia fatta d’un lieve mormorio.[11]
Da tutto ciò si può comprendere che l’invocazione del Nome è una preghiera per tutte le stagioni. Può essere usata da chiunque, ovunque e ognora. E’ adatta al ‘novizio’ come al più esperto; può essere offerta in compagnia d’altri o da soli; è ugualmente appropriata nel deserto come nella città, sia in ambiente tranquillo che in mezzo al peggior rumore e alla confusione. Non è mai fuori luogo.
Completezza
Teologicamente, come sostiene giustamente il Pellegrino russo, la Preghiera di Gesù “contiene tutta la verità del Vangelo”: è “una sintesi dei Vangeli.”[12] In una breve frase enuclea i due principali misteri della fede cristiana, l’Incarnazione e la Trinità. Parla in primo luogo, delle due nature di Cristo il Dio-uomo (Theanthropos): della Sua umanità, dal momento che viene invocato nel suo nome umano, “Gesù”, che Sua Madre Maria Gli diede dopo la Sua nascita a Betlemme; della Sua eterna Natura Divina, dal momento che viene anche apostrofato come “Signore” e “Figlio di Dio.” In secondo luogo, la Preghiera parla implicitamente, anche se non esplicitamente, delle tre Persone della Trinità. Pur se indirizzata alla seconda Persona, Gesù, è riferita al Padre, poiché Gesù viene chiamato “Figlio di Dio; inoltre lo Spirito Santo viene altresì presentato nella Preghiera, dal momento che “nessun uomo può dire ‘Signore Gesù,’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12:3). Quindi la Preghiera di Gesù è sia Cristocentrica che Trinitaria.
Anche a livello devozionale non è meno completa. Abbraccia i due principali ‘momenti’ della devozione cristiana: il ‘momento’ dell’adorazione, in cui si alza lo sguardo alla gloria Dio e si tende a Lui nell’amore, e il ‘momento’ di penitenza, il senso di inadeguatezza e di peccato. All’interno della Preghiera c’è un movimento circolare, una sequenza di ascesa e ritorno. Nella prima metà della Preghiera saliamo a Dio: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio…”; e poi nella seconda metà torniamo alla nostra compunzione: “…abbi pietà di me misero peccatore”.
Questi due ‘momenti’ – la visione della gloria divina e la consapevolezza della peccato umano – vengono uniti e riconciliati in un terzo ‘momento’ quando pronunciamo la parola ‘pietà.’ “Pietà” serve a stabilire un ponte tra la giustizia di Dio e la creazione decaduta. Colui che dice Dio, “abbi pietà,”denuncia la propria impotenza, ma sta al contempo a testimoniare un grido di speranza. La Preghiera di Gesù non contiene soltanto un richiamo di pentimento, ma un’assicurazione di perdono e di salvezza. Il cuore della Preghiera – per l’esattezza il nome “Gesù” – ha propriamente in sé il senso di salvezza: “ E tu Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il Suo popolo dai peccati” (Matteo 1:21).
Queste sono dunque alcune delle ricchezze, sia teologiche che devozionali, presenti nella Preghiera di Gesù; presenti, peraltro, non soltanto in astratto ma in forma vivificante e dinamica. Il valore speciale della Preghiera di Gesù sta nel fatto che rende vive queste verità, in modo tale da poter essere apprese non solo esternamente e teoreticamente ma con tutta la pienezza del nostro essere. Per capire il perché dell’efficacia della Preghiera di Gesù, dobbiamo prendere in considerazione due ulteriori aspetti, la forza del Nome e la disciplina della ripetizione.
La Forza del Nome
“Il Nome del Figlio di Dio è grande e illimitato, e racchiude l’intero universo.” Così viene affermato nel Pastore di Hermas,[13] ma non apprezzeremo il ruolo della Preghiera di Gesù se non sentiamo nel Nome divino un certo senso di intrinseca forza e virtù. Se la Preghiera di Gesù è più efficace che altre invocazioni, ciò è dovuto al fatto che contiene il Nome di Dio.
Nel Vecchio Testamento, come in altre antiche culture, c’è un’identità virtuale tra l’anima di un uomo ed il suo nome. La sua personalità intera, con tutte le sue peculiarità e la sua energia, è presente nel suo nome. Conoscere il nome di una persona significa avere una chiara visione della sua natura, e quindi acquisire una stabile relazione con lui – persino, forse, un certo controllo su di lui. Ecco perché il misterioso messaggero che lotta con Giacobbe presso il ruscello Iabbok rifiuta di rivelare il suo nome (Genesi 32:29). Lo stesso atteggiamento viene riflesso nella replica dell’angelo di Manoach, “Perché mi chiedi il nome? Esso è misterioso” (Giudici 13:18). Un cambiamento di nome indica un decisivo cambiamento nella vita dell’uomo, come quando Abramo diventa Abraham (Genesi 17:5), o Giacobbe diventa Israel (Genesi 32: 28). Allo stesso modo, Saulo dopo la sua conversione diventa Paolo (Atti 13:9); inoltre ad un monaco, alla sua professione, viene dato un nuovo nome, di solito non a sua scelta, ad indicare il radicale rinnovamento intrapreso.
Nella tradizione ebraica, fare una cosa a nome di un altro, o invocare e appellarsi al suo nome sono atti di notevole peso e forza. Invocare il nome di una persona significa fare sì che tale persona sia presente. Ogni cosa che è vera dei nomi umani è vera, a un grado incomparabilmente più elevato, al Nome divino. La forza e la gloria di Dio sono presenti e attivi nel Suo Nome. Il Nome di Dio è numen presens, Dio con noi, Emmanuel. Invocare con deliberata diligenza il Nome di Dio significa porsi dinnanzi alla Sua presenza, aprirsi alla Sua energia, offrirsi come strumento e sacrificio vivente nelle Sue mani. Il senso della maestà del Nome divino era così acuto nel tardo Giudaismo che, nella preghiera della sinagoga, il tetragrammaton non veniva pronunciato ad alta voce: il Nome dell’Altissimo era considerato troppo devastante per essere pronunciato apertamente. [14]
Tale comprensione ebraica del nome passa dal Vecchio Testamento al Nuovo. I demoni vengono scacciati e gli uomini guariti grazie al Nome di Gesù, poiché il Nome è forza. Una volta che tale forza del Nome verrà debitamente apprezzata, molti brani noti acquisteranno maggior vigore e pienezza: la frase nella Preghiera del Padre nostro “Sia benedetto il Tuo Nome”; la promessa di Cristo all’Ultima Cena, “Se chiederete qualcosa al Padre nel mio Nome, Egli ve la darà” (Giovanni 16:23); il Suo finale comandamento agli Apostoli, “Andate dunque, e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel Nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo” (Matteo 28:19); l’annuncio di San Pietro che v’è salvezza soltanto nel “Nome di Gesù Cristo di Nazareth” (Atti 4: 10-12); le parole di San Paolo, “Al Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Filippesi 2:10); il nuovo e segreto nome scritto sulla pietruzza bianca che ci sarà data nel Mondo che Verrà (Apocalisse 2:17).
E’ questa biblica riverenza per il Nome di Gesù che forma le basi e le fondamenta della Preghiera di Gesù. Il Nome di Dio è essenzialmente collegato alla Sua Persona, e così l’Invocazione del Nome divino possiede un carattere genuinamente sacramentale, fungendo da segno efficace della Sua invisibile presenza ed azione. Per il credente cristiano di oggi, come nei tempi apostolici, il nome di Gesù è forza. Nelle parole dei due Anziani di Gaza, San Barsanufio e San Giovanni (6° secolo), “La rimembranza del Nome di Dio distrugge completamente tutto ciò ch’è male.” “Mettete in fuga i vostri nemici con Nome di Gesù,” insiste San Climaco, “poiché non v’è arma più potente in cielo e in terra… Fate che la rimembranza di Gesù sia unita ad ogni vostro respiro, e allora conoscerete il valore della quiete.”[15]
Il Nome è forza, tuttavia una ripetizione puramente meccanica in se stessa non produrrà nulla. Come nelle operazioni sacramentali, all’uomo viene chiesto di cooperare con Dio attraverso la sua fede attiva e uno sforzo ascetico. Siamo chiamati ad invocare il Nome nel ricordo e nella vigilanza interiore, confinando le nostre menti all’interno delle parole della preghiera, consapevoli che ciò che stiamo indirizzando e colui che ci risponde si trova nel nostro cuore. San Gregorio del Sinai parla ripetutamente di “sforzo e fatica” affrontate da coloro che seguono la Via del Nome; è necessario uno “sforzo continuo.”
Questa fiduciosa perseveranza prende forma, soprattutto, da una attenta e frequente ripetizione. Cristo disse ai Suoi discepoli di non usare “vane ripetizioni” (Matteo 6:7); ma la ripetizione della Preghiera di Gesù, quando eseguita con sincerità e concentrazione interiore, non è affatto “vana.” L’atto d’invocazione ripetuta del Nome ha un doppio effetto: rende la nostra preghiera più compatta e allo stesso tempo più interiore.
Unificazione
Non appena facciamo un serio tentativo di preghiera in spirito di verità, diveniamo immediatamente consapevoli della nostra disintegrazione interiore, della nostra mancanza di unità e interezza. Nonostante tutti gli sforzi di giungere innanzi a Dio, i pensieri continuano a muoversi senza posa e senza alcun motivo nella nostra testa, come un ronzio di mosche (Vescovo Teofanio) o come un capriccioso affaccendarsi di scimmie da ramo in ramo (Ramakrishna). Contemplare significa, prima di tutto, essere presenti là dove si è, essere qui e ora. Tuttavia, di solito non siamo in grado di costringere la nostra mente a non vagabondare a caso nel tempo e nello spazio. Richiamiamo a mente il passato, anticipiamo il futuro, programmiamo cosa fare dopo; la gente e i luoghi ci si presentano dinnanzi in interminabile successione. Ci manca la forza di concentrarci nel luogo dove dovremmo essere – qui, alla presenza di Dio; e non riusciamo a vivere pienamente nell’unico momento di tempo che esiste davvero – ora, l’immediato presente. Questa disintegrazione interiore è una delle conseguenze più tragiche della Caduta. Le persone che riescono a combinare qualcosa, è stato giustamente osservato, sono persone che fanno una cosa alla volta. Ma fare una cosa alla volta non significa necessariamente di riuscirci. Mentre è abbastanza facile nei lavori esterni, è assai più difficile nel lavoro di preghiera interiore.
Cosa si deve fare? Come impareremo a vivere il presente, nell’eterno Ora? Come riusciremo ad afferrare il kairos, il momento decisivo, il momento giusto? E’ proprio qui che può essere utile la Preghiera di Gesù. L’invocazione ripetuta del Nome può portarci, con la grazia di Dio, dalla divisione all’unione, dalla dispersione e dalla molteplicità alla semplicità e all’unicità. “Per fermare il continuo sgomitare dei vostri pensieri,” dice il Vescovo Teofanio, “dovete legare la mente ad un unico pensiero, ovvero soltanto al pensiero dell’Uno.”[16]
I Padri ascetici distinguono due modi di combattere i pensieri. Il primo metodo è per il ‘forte’ o il ‘perfetto.’ Questi sono in grado di contraddire i loro pensieri, cioè, affrontarli faccia a faccia e sconfiggerli in aperta battaglia. Ma per la maggior parte di noi tale metodo è troppo difficile e potrebbe, di contro, arrecarci grave danno. Un confronto diretto, il tentativo di sradicare ed espellere i pensieri con uno sforzo di volontà, spesso serve soltanto a dare maggior forza alla nostra immaginazione. Se soppresse con violenza, le nostre fantasie tendono a tornare con maggior vigore. Invece di combattere i nostri pensieri direttamente e cercare d’eliminarli con uno sforzo di volontà, è più saggio lasciar perdere e fissare altrove la nostra attenzione. Piuttosto che guardare verso il basso nella nostra turbolenta fantasia e provare ad opporsi ai nostri pensieri, faremmo meglio a guardare verso l’alto, in direzione del Signore Gesù, ed affidarci alle Sue mani invocando il Suo Nome; e la grazia che agisce attraverso il Suo Nome sconfiggerà i pensieri che non siamo in grado di eliminare con la nostra forza. La nostra strategia spirituale dovrebbe essere positiva e non negativa: invece di cercare di svuotare la nostra mente di ciò che è male, dovremmo riempirla del pensiero di ciò che è bene. “Non contraddite i pensieri suggeriti dai vostri nemici,” consigliano Barsanufio e Giovanni, “poiché ciò è proprio quello che vogliono e non cesseranno mai di disturbarvi. Ma rivolgetevi al Signore per chiedere aiuto contro di loro, denunciando dinnanzi a Lui la vostra inadeguatezza; dal momento che Egli è in grado di eliminarli riducendoli a nulla.”[17]
La Preghiera di Gesù, quindi, è una modo per spostare la prospettiva e guardare altrove. Inevitabilmente, pensieri e immagini ci si presentano durante la preghiera. Non possiamo fermare il loro flusso con un semplice esercizio della nostra volontà. Serve davvero a poco dirci, “Fermati pensiero!”; dovremmo allo stesso modo dire, “Fermati respirazione!” La mente razionale non può restare nell’ozio,” dice San Marco il Monaco; i pensieri tendono a riempirla d’un interminabile chiacchiericcio, come un coro d’uccelli all’alba. Ma mentre non siamo in grado di fare scomparire improvvisamente questo chiacchiericcio, quel che possiamo fare è di distaccarci da esso ‘legando’ la nostra mente sempre attiva “ad un pensiero, ovvero soltanto al pensiero dell’Uno” – il Nome di Gesù. Nelle parole di San Diadoco (5° secolo), “Quando abbiamo bloccato tutti e le vie d’accesso alla mente attraverso il ricordo di Dio, allora ci viene richiesto ad ogni costo qualche compito ch soddisfi la sua necessità di attività. E allora offriamogli come unica attività l’invocazione Signore Gesù…”[18]
“Attraverso la rimembranza di Gesù Cristo,” afferma Filoteo del Sinai (9/10° secolo), “raccogliete la vostra mente disintegrata che è sparsa ovunque.”[19] Quindi, invece di cercare di fermare la sequenza dei pensieri con le nostre proprie forze, ci affidiamo alla forza che agisce attraverso il Nome.
Secondo Evagrio di Ponto (+ 399), “La preghiera è un deporre i pensieri.”[20] Deporre i pensieri: non un conflitto selvaggio, non una furiosa repressione, ma un delicato ma persistente atto di distacco. Attraverso la ripetizione del Nome, siamo aiutati a ‘deporre,’ a ‘lasciar andare,’ le nostre banali e perniciose fantasie, e sostituirle con il pensiero di Gesù. Tuttavia, sebbene la fantasia e il ragionamento discorsivo non debbano essere violentemente soppressi quando si recita la Preghiera di Gesù, essi non vanno certo incoraggiati attivamente. La Preghiera di Gesù non è una forma di meditazione su specifici avvenimenti della vita di Cristo, o su alcuni detti o parabole dei Vangeli; ancor meno è un modo di ragionare e dibattere interiormente alcune verità teologiche come il significato di homoousios, ovvero la Definizione di Calcedonia.
Nel momento in cui invochiamo il Nome, non dovremmo formare deliberatamente nella nostra mente alcuna immagine visuale del Salvatore. Questo è uno dei motivi per cui recitiamo la Preghiera nell’oscurità, piuttosto che con gli occhi aperti dinnanzi a un’icona. “Libera la tua mente dai colori, dalle immagini e dalle forme,” raccomanda San Gregorio del Sinai; nella preghiera fai attenzione alla fantasia (Phantasia) – altrimenti potrai finire per diventare un fantasista più che un esicasta.![21]
Interiorità
L’invocazione ripetuta del Nome, rendendo la nostra preghiera più compatta, la fa allo stesso tempo più interiore, più parte di noi stessi – non un qualcosa che facciamo in momenti particolari, ma qualcosa che siamo in ogni momento; non un atto occasionale ma uno stato continuo. Tale modalità di preghiera diventa davvero una preghiera dell’uomo intero, in cui le parole e il significato della preghiera sono totalmente identificati con colui che prega. Tutto ciò viene ben espresso da Paul Evdokimov, recentemente scomparso (1901-70): “Nelle catacombe l’immagine che ricorre più frequentemente è la figura di una donna in preghiera, l’Orans. Essa rappresenta l’unica vera attitudine dell’anima umana. Non è sufficiente possedere la preghiera: dobbiamo diventare preghiera – preghiera incarnata. Non è sufficiente avere momenti di preghiera; l’intera nostra vita, ogni atto e gesto, persino un sorriso, devono diventare un inno di adorazione, un’offerta, una preghiera. Non dobbiamo offrire quel che abbiamo, ma quel che siamo.”[22] Questo è quel che soprattutto è necessario al mondo: non persone che recitano preghiere con maggiore o minore regolarità, ma persone che sono preghiere.
Il tipo di preghiera che sta qui descrivendo Evdokimov, potrebbe essere esattamente definita come ‘preghiera del cuore.’ Nella Chiesa Ortodossa, come in molte altre tradizioni, la preghiera viene comunemente distinta in tre categorie, che devono essere intese come livelli d’interpretazione piuttosto che stadi successivi: la preghiera delle labbra (preghiera orale); la preghiera della mente (preghiera mentale); la preghiera del cuore (o della mente nel cuore). L’invocazione del Nome ha inizio come ogni altra preghiera come preghiera orale, in cui le parole sono pronunciate dalla lingua attraverso un deliberato sforzo della volontà. Allo stesso tempo, ancora una volta grazie ad una decisione volontaria, concentriamo la mente sul significato di quel che dice la lingua. Nel corso del tempo e con l’aiuto di Dio la nostra preghiera si farà più interiore. La partecipazione della mente diventerà più intensa e spontanea, mente i suoni pronunciati dalla lingua si faranno meno importanti; forse per un periodo di tempo cesseranno del tutto, e il Nome verrà invocato in silenzio, senza alcun movimento delle labbra, soltanto nella mente. Quando arriviamo a ciò, siamo passati per grazia di Dio dal primo livello al secondo. Non che l’invocazione vocale cessi del tutto, dal momento che ci saranno occasioni in cui persino colui ch’è più ‘avanti’ nella preghiera interiore desidererà chiamare il Signore Gesù ad alta voce. (E chi, potrà poi dichiarare di essere ‘avanti’? Siamo tutti ‘principianti’ nelle cose dello Spirito.)
Tuttavia il viaggio interiore non è comunque completo. Un uomo è molto di più che la propria mente cosciente; oltre alle facoltà cerebrali e razionali vi sono le emozioni e gli affetti, la sensibilità estetica, assieme ai profondi strati istintuali della propria personalità. Tutto ciò ha la sua funzione nell’esecuzione della preghiera, poiché è l’uomo intero ad essere chiamato a partecipare all’atto totale di adorazione. Come una goccia d’inchiostro che cade sulla carta assorbente, l’atto della preghiera dovrebbe espandersi uniformemente oltre il centro cosciente e razionale del cervello, sino ad abbracciare ogni parte di noi stessi.
In termini più tecnici, ciò significa che siamo chiamati ad avanzare dal secondo livello al terzo: dalla ‘preghiera della mente’ alla ‘preghiera del cuore.’ In questo contesto il ‘Cuore’ dev’essere inteso in senso semitico e biblico e non nell’accezione moderna, il che significa non solo le emozioni e gli affetti ma la totalità della persona umana. Il cuore è l’organo primario dell’essere dell’uomo, “proprio il più profondo e il più vero sé, che si ottiene soltanto col sacrificio, attraverso la morte.”[23] Secondo Boris Vysheslavtsev, è “il centro non solo della consapevolezza ma anche dell’inconscio, non solo dell’anima ma dello spirito, non solo dello spirito ma del corpo, non solo del comprensibile ma anche dell’incomprensibile; in una parola, è il centro assoluto.”[24] Interpretato in tal modo, il cuore è assai più di un organo materiale all’interno del corpo; il cuore fisico è un evidente simbolo delle illimitate potenzialità spirituali della creatura umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio.
Per realizzare il viaggio interiore ed ottenere la vera preghiera, è necessario entrare dentro questo ‘centro assoluto,’ cioè, scendere dalla mente al cuore. Per essere più precisi, siamo chiamati a discendere non dalla mente ma con la mente. Lo scopo non è soltanto la ‘preghiera del cuore’ ma la ‘preghiera della mente nel cuore,’ dal momento che le nostre forme di comprensione cosciente, inclusa la ragione, siano un dono di Dio e debbano essere usate a Suo servizio, non rifiutate. Questa “unione della mente col cuore” significa la reintegrazione dell’uomo decaduto e della natura frammentata, la sua restaurazione all’originale unità. La preghiera del cuore è un ritorno al Paradiso, un’inversione della Caduta, un recupero dello status ante peccatum. Ciò significa che siamo di fronte a una realtà escatologica, una garanzia e un’anticipazione dell’Era a Venire – qualcosa che, nella presente epoca, non viene mai pienamente e interamente realizzata.
Coloro che, per quanto in maniera imperfetta, hanno realizzato in una certa misura la ‘preghiera del cuore,’ hanno cominciato a compiere quel passaggio di cui palavamo prima – il passaggio dalla preghiera ‘attiva’ a quella ‘che agisce da sé,’ dalla preghiera che pronuncio alla preghiera che ‘parla da sé’ o piuttosto, che Cristo pronuncia dentro di me. Il Cuore ha infatti un doppio significato nella vita spirituale; è sia centro dell’essere dell’uomo che punto d’incontro tra uomo e Dio. E’ sia luogo di auto-conoscenza, dove l’uomo vede se stesso così come realmente è, che luogo di auto-trascendenza, dove l’uomo comprende la sua natura quale tempio della Santa Trinità, dove l’immagine viene faccia a faccia con l’Archetipo. Nella ‘camera interna’ del proprio cuore egli trova le fondamenta del suo essere e quindi attraversa la misteriosa frontiera tra creato e Increato. “Nel cuore vi sono profondità insondabili,” affermano le Omelie di Macario. “.. Iddio è là con gli angeli, luce e vita si trovano là, il regno e gli apostoli, le città celesti e i tesori della grazia: sono tutte lì.”[25]
La preghiera del cuore sta dunque a designare il punto in cui ‘la mia’ azione, ‘la mia’ preghiera, finiscono esplicitamente ad identificarsi alla continua azione di Un altro in me. Non è più la preghiera a Gesù, ma la preghiera di Gesù Stesso. Il passaggio da preghiera ‘sotto sforzo’ ad ‘auto-agente’ viene nettamente indicato ne La Via di un Pellegrino russo: “Una mattina all’alba, poteri dire che fu la Preghiera ha destarmi.”[26]
Finora il Pellegrino si era impegnato a ‘dire la Preghiera’; ora si accorge che la Preghiera ‘procede da sola,’ persino quando dorme, poiché è diventata tutt’uno con la preghiera di Dio dentro di lui.
I lettori de La Via di un Pellegrino russo potranno averel’impressione che questo passaggio dalla preghiera orale alla preghiera del cuore si possa ottenere facilmente, quasi in maniera meccanica ed automatica. E’ bene che sia enfatizzato che tale esperienza, per quanto non unica,[27] è comunque eccezionale. Più spesso la preghiera del cuore si realizza, se mai avviene, solo dopo una vita di duro impegno ascetico. E’ dono gratuito di Dio, elargito quando e come Egli vuole, e non l’inevitabile effetto di qualche tecnica. San Isacco il Siriano (7° secolo) sottolinea l’estrema rarità del dono quando dice che “appena uno su diecimila” può considerarsi degno del dono della pura preghiera, e aggiunge: “Per quel che riguarda il mistero che sta al di là della pura preghiera, è difficile da trovare in un singolo uomo su una generazione che si sia accostato a tale conoscenza della grazia di Dio.”[28] Uno su diecimila, un singolo uomo su una generazione: per quanto raffreddati da tale ammonimento, non dovremmo comunque scoraggiarci. Il cammino verso il regno interiore resta aperto dinnanzi a tutti, e tutti senza distinzione potranno trovare la propria via su di esso. Nella presente epoca, sono pochi a sperimentare con una certa pienezza i misteri più profondi del cuore, tuttavia sono davvero molti a ricevere in modo più modesto e intermittente veri e propri lampi di ciò che viene espresso dalla preghiera spirituale.
La fine del viaggio
Lo scopo della Preghiera di Gesù, come di tutte le preghiere cristiane, è che il nostro pregare venga ad essere progressivamente identificato con la preghiera offerta da Gesù, Sacerdote Supremo ch’è dentro di noi, che la nostra vita diventi tutt’uno con la Sua vita, che il nostro respiro s’assimili al Respiro Divino che sostiene l’universo. L’obiettivo finale potrà essere adeguatamente descritto dal termine Patristico theosis, ‘deificazione’ ovvero ‘divinizzazione.’ Nelle parole dell’Arciprete Serjei Bulgakov, “Il Nome di Gesù, presente nel cuore umano, conferisce ad esso il potere della deificazione.” “Il Logos si fece uomo,” dice San Attanasio, “per poterci rendere divini.” Colui che è Dio per natura prese la nostra umanità, così che noi uomini potessimo condividere la grazia insita alla Sua divinità, diventando “partecipi della natura divina” (2 Pietro 1:4). La preghiera di Gesù, rivolta al Logos incarnato, è un mezzo per la realizzazione dentro di noi di questo mistero della theosis, col quale l’uomo perviene alla vera somiglianza di Dio.
La Preghiera di Gesù, unendoci a Cristo, ci aiuta a condividere in reciproca coabitazione ovvero in perichoresis, le tre Persone della Santa Trinità. Più la Preghiera diventa parte di noi stessi, più entriamo nel moto dell’amore che passa incessantemente da Padre, Figlio e Spirito Santo. Nella tradizione esicasta, il mistero della theosis ha molto spesso assunto la forma esteriore di una visione di luce. Questa luce che i santi vedono in preghiera non è una luce simbolica dell’intelletto, né di tipo sensibile, fisica e creata. Non è altro che la Luce divina non creata della Natura Divina, che splendeva da Cristo alla Sua Trasfigurazione sul Monte Tabor e che l’Ultimo Giorno illuminerà il mondo intero alla Sua seconda venuta. Ecco un passo caratteristico della Luce Divina tratto da San Gregorio Palamas. Egli descrive la visione dell’Apostolo quando fu preso ed innalzato al terzo cielo (2 Cor. 12:2-4): “Paolo vide una luce incommensurabile, sia sotto che sopra o lateralmente; non vedeva alcun limite nella luce che gli apparve brillare attorno a sé, ma era come un sole infinitamente più luminoso e più vasto dell’universo; e nel mezzo del sole stava lui, trasformato in una sorta di occhio.”[29] Tale è la visione di gloria a cui possiamo accedere attraverso l’invocazione del Nome.
La Preghiera di Gesù fa sì che lo splendore della Trasfigurazione penetri in ogni angolo della nostra vita. La ripetizione costante ha due effetti sull’autore anonimo de La Via di un Pellegrino russo. In primo luogo, trasforma il suo rapporto con la creazione materiale attorno a lui, rendendo trasparente ogni cosa, considerata come sacramento della presenza di Dio. Si legge: “Quando pregavo col cuore, ogni cosa attorno a me sembrava deliziosa e meravigliosa. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria , la luce sembravano dirmi che esistevano per il bene dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che ogni cosa era una prova dell’amore di Dio per l’uomo, che ogni cosa pregava Dio e intonava a Lui una lode. Fu così che venni a comprendere ciò che la Filocaliadefinisce ‘la conoscenza della parola di ogni creatura.’… Avvertii un amore bruciante per Gesù Cristo e per le creature di Dio.”[30] Nelle parole di Padre Bulgakov, “Splendendo attraverso la terra, la luce del Nome di Gesù illumina tutto l’universo.”[31]
In secondo luogo, la Preghiera trasfigurò non solo il rapporto del pellegrino con la creazione materiale, ma anche con gli altri uomini. “Mi rimisi in viaggio per i miei pellegrinaggi. Ma ora non procedevo più come prima, pieno di preoccupazione. Era l’invocazione del Nome di Gesù a rallegrare la mia via. Erano tutti gentili con me, come se tutti mi amassero… Se qualcuno mi facesse del male devo soltanto pensare, ‘Com’è dolce la Preghiera di Gesù!’ e ferita e rabbia se ne andrebbero via, dimenticate in un baleno.”[32] “Nella misura in cui lo hai fatto ad uno dei miei fratelli minori, lo hai fatto a Me” (Matteo 25:40): la Preghiera di Gesù ci aiuta a vedere Cristo in tutti gli uomini, e tutti gli uomini in Cristo. La Preghiera di Gesù, perciò, non è una fuga o una negazione del mondo, di contro è intensamente affermativa. Non implica un rifiuto della creazione di Dio, ma la riaffermazione del valore ultimo di ogni cosa e ognuno in Dio.
“La preghiera è azione; pregare significa essere incisivamente efficaci.”[33] Tra tutte le preghiere ciò è particolarmente vero della Preghiera di Gesù. Anche se ne viene fatta menzione nell’officio della professione monastica quale preghiera di monaci e suore,[34] è egualmente una preghiera adatta ai laici, alle coppie sposate, ai dottori e agli psichiatri, ai lavoratori sociali e ai conduttori di autobus. L’invocazione del Nome, ben praticata, coinvolge ciascuno più profondamente nei propri specifici compiti, rendendolo più efficiente nelle azioni, senza tagliarlo fuori dagli altri ma collegandolo ad essi, rendendolo sensibile alle loro paure e alle ansie in un modo che prima non si era mai verificato. La Preghiera di Gesù rende ciascuno un ‘uomo per gli altri,’ uno strumento vivente della pace di Dio, un centro dinamico di riconciliazione.
[1] Tito Collinander, The Way of the Ascetics (Londra, 1960), pag. 79.
[2] Citato da Igumen Chariton di Valamo, The Art of Prayer: An Orthodox Anthology (Londra, 1966), pag. 63.
[3] Capitoli, 113 (PG 150, 1280A). Si veda Kallistos Ware, ‘The Jesus Prayer in St. Gregory of Sinai,’ Eastern Churches Review (1972), pag. 8.
[4] Una citazione dal Salmo 118 [119]: 126. In alcune versioni inglesi della Liturgia ciò viene tradotto con “E’ tempo di fare [sacrificio] per il Signore”, ma la resa alternativa che abbiamo usato è più ricca di significato e viene preferita da molti commentatori ortodossi. L’originale greco usa la parola kairos: “E’ il kairos per il Signore d’agire.” Kairos ha qui lo speciale significato del momento decisivo , il momento opportuno: colui che prega coglie il kairos. E’ un punto questo su cui dovremo tornare.
[5] Capitoli, 113 (PG 150, 1277D).
[6] E’ esistita naturalmente una fervente devozione per il Sacro Nome di Gesù nell’occidente medievale, e non solo in Inghilterra. Se ciò pone alcuni punti di differenza rispetto alla tradizione bizantina della Preghiera di Gesù, non mancano palesi parallelismi.
[7] ‘Un monaco della Chiesa d’Oriente’ [Lev Gilet], On the Invocation of the Name of Jesus (The Fellowship of St. Alban and St. Sergius, Londra, 1950), pagg. 5-6 (ristampato da SLG Press, 1970, pagg. 2-3).
[8] The Art of Prayer, pag. 92.
[9] Fratello Lawrence della Resurrezione (1611-91), Carmelitano Scalzo, The Practice of the Presence of God, ediz. D. Attwater (Paraclete Books, Londra, 1962), pagg. 13, 16.
[10] Archimandrite Sofronio, The Undistorted Image: Atarez Silouan (Londra, 1958), pagg. 40-41.
[11] The Art of Prayer, pag. 10.
[12] Racconti d’un Pellegrino Russo (Rusconi – 1977).
[13] Similitudini, ix, 14.
[14] Per la venerazione del Nome tra i cabalisti ebraici medievali, si veda Gershom Scholem, Major trends in Jewish Mysticism (3a edizione, Londra, 1955), pagg. 132-3; e si metta a confronto la trattazione di questo tema al pregevole romanzo di Charles Williams, All Hallows’ Eve (Londra, 1945).
[15] La Scala, 21 e 27 (PG 88, 945C e 1112C).
[16] The Art of Prayer, Pag.97.
[17] Questions and Answers, edizioni Sotirios Schoinas, 91.
[18] A Hundred Texts on Knowledge and Discernment, 59 (ediz. E. des Places, Sources chretiennes, 5bis [Parigi]), pag. 119.
[19] Capitoli, 27 (Filocalia, vol ii [Atene, 1958], pag. 283).
[20] On Prayer, 70 (PG 79, 1181C).
[21] How the hesichast should preserve in prayer, 7 (PG 150, 1340D).
[22] Sacremente de l’amour. Le mystère conjugal a la lumiere de la tradition ortodoxe (Parigi, 1962), pag. 83.
[23] Richard Kehoe, OP, “The Scriptures as Word of God,” The Eastern Churches Quarterly viii (1947), edizione supplementare su “Tradizione e Scrittura,” pag. 78.
[24] Citato in John B. Dunlop, Staretz Amvrosy: Model for Dostoevsky’s Starets Zossima (Belmont, Mass., 1972), pag. 22.
[25] Hom. xv, 32 e xliii, 7 (ediz. Dorries/Klostermann/Kroeger [Berlino, 1964], pagg. 146, 289).
[26] La Via di un Pellegrino russo, pag. 14.
[27] Lo starets Silouan del Monte Atos ha praticato esclusivamente la Preghiera di Gesù per tre settimane prima che scendesse nel cuore e diventasse senza posa. Il suo biografo, Archimandrite Sofrony, giustamnente evidenzia che si trattò di un “dono sublime e raro”; soltanto in seguito Padre Silouan riuscì ad apprezzare quanto fosse insolito (The Undistorted Image, pag. 24).
[28] Mystic Treatises by Isaac of Nineveh (Amsterdam, 1923), pag. 113.
[29] Triads in Defense of Holy Hesychasts, I, iii, 21 (ediz. Meyendorff, col. I, pag. 157).
[30] La Via di un Pellegrino russo
[31] The Orthodox Church, pag. 171.
[32] La Via di un Pellegrino russo
[33] Tito Collander, The Way of the Ascetics, pag. 71.
[34] All’investitura di un monaco, sia nella pratica russa che greca, è abitudine offrirgli una corda per preghiera. Nell’uso russo l’abate pronuncia le seguenti parole mentre gliela porge: “Prendi, fratello, la spada dello Spirito, che è Parola di Dio, per la preghiera continua a Gesù; poiché devi sempre avere il Nome del Signore Gesù nella mente, nel cuore, e sulle labbra, dicendo sempre: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me misero peccatore.” Si veda N. F. Robinson, SSJE, Monasticism in the Orthodox Churches (Londra/Milwaukee, 1916), pagg. 159-60. Si noti la solita distinzione tra i tre livelli della preghiera: labbra, mente, cuore.
Il Senso, la Passione, la Teoria
La VI Edizione de
Le Connessioni Inattese 2012 avrà come tema:
Il Senso, la Passione, la Teoria
Inizierà sabato 17 novembre 2012 con il consueto Convegno organizzato da
ALTANUR e da Istituto italiano per gli Studi Filosofici
a Palazzo Serra di Cassano – Via Monte di Dio, 14 Napoli
e proseguirà fino ad aprile 2013 con altre attività culturali
I RELATORI del Convegno 2012
GRAHAM HANCOCK
(Saggista, sociologo, giornalista – Edimburgo – U.K. )
Stati Alterati, Dio e il Diavolo, Dimensioni Parallele, e il Futuro dell’Uomo.
STEFANO MANCUSO
(Direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale – Univ. di Firenze)
Cognizione e comunicazione nelle piante
EMILIO DEL GIUDICE
(Fisico teorico – INFN Milano – Prigogine Medal 2009)
L’oscillazione quantistica alla base dell’essere
PATRIZIA STEFANINI
(Fondatrice Istituto Europeo di Shiatsu di Milano e Firenze)
Il viaggio dalla Scienza positiva alla Medicina energetica e ritorno.
NICOLA DE PISAPIA
(Ricercatore – Dip.di Scienze della Cognizione – Univ.di Trento)
L’allenamento mentale dal pensiero antico alle neuroscienze.
STEFANO ARCELLA
(Saggista, docente Fondazione Humaniter – NA)
Il pensiero vivente nella Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner
LORENZO CECCHINI
(Fondatore MEDICITALIA.IT – SV )
Connessioni di successo e successo di connessioni
Omaggio a Ottorino Pietro Alberti
Reading a cura di Gianfranco Murtas
Allestimento scenico e musicale di Francesco Aresu
Partecipano Gianluca Medas, Alessandra Agnesa, Bruno Caddeo, Anselmo Concas, Tonio Marongiu, Mario Paoli, Nunzia Pica, Armando Serri, Lucia Valentina Spina
Letture da Terra barbaricina, La legge e la macchia, Atene sarda, Nuoro ieri e oggi, Scritti di storia civile e religiosa, Il Cristo di Galtellì, La Sardegna nella storia dei Concili, I Vescovi sardi al Concilio Vaticano I, Il Vescovado di Dolia, Chiese e arte sacra in Sardegna, Dono e conquista, Virgilio Angioni: una Chiesa per gli ultimi, Una mistica della carità: beata Giuseppina Nicoli, ecc.
Testimonianze di Efisio Spettu, Tito Aresu, Marco Lai
Gli anni di formazione nella Nuoro degli anni ’30 e ’40 – Liceale al Giorgio Asproni, esploratore scout ed assistente ecclesiastico – Il corso universitario alla facoltà di Scienze agrarie nell’ateneo di Pisa – Studente del Seminario maggiore romano e della Pontificia università lateranense – Ordinato sacerdote nel 1956, dottore in teologia nel 1957, professore di lettere al diocesano di Nuoro e di estimo all’istituto geometri, collaboratore di curia ed assistente degli Insegnanti elementari e medi – Segretario generale della Lateranense e professore di Cosmologia e Filosofia della natura – La produzione scientifica e saggistica degli anni ’50, ’60 e ’70 – Rettore del Seminario maggiore regionale della Sardegna fra 1971 e 1973, dopo il trasloco da Cuglieri – L’elezione all’episcopato e la missione apostolica nelle chiese di Spoleto e Norcia – Promotore di comunità di recupero per tossicodipendenti già dal 1974, presente nei cortei operai e nelle tendopoli dei terremotati umbri – Membro della congregazione per le Cause dei santi – La nomina alla sede arcivescovile di Cagliari e la presidenza della CES e del Concilio Plenario Sardo
LO SPIRITO DELL’UOMO PREMODERNO
Capitolo I
Lo spirito dell’uomo premoderno
Definire lo stereotipo dell’uomo vissuto in una determinata epoca, civiltà o popolo è, generalmente, compito dello storico. Ma quando si voglia tracciarne i caratteri e le affinità da un punto di vista ideologico, filosofico e umanistico, perfino religioso, rinchiudendolo in un recinto culturale delimitato, questo diventa assai più arduo e più complesso; crediamo perfino ingiusto e limitativo. Tali e tante sono le diversità e le particolarità tra individui, che in nessuna epoca si è potuta riscontrare una totale omogeneità dei singoli caratteri umani e ideologici. E’ vero, peraltro, che se si generalizza il concetto e si parla di spirito ideologico predominante, o di indirizzo e direzione verso cui tende tale spirito, in grado cioè di influenzare e determinare il pensiero e la morale dei più, allora si riescono a trovare analogie e assonanze, non solo tra singoli individui, ma anche tra civiltà e popoli delle diverse epoche. Ma è altrettanto vero che il valore aggiunto di queste ideologie predominanti è rappresentato dall’uomo singolo e da lui solamente, attraverso la sua visione universale delle cose umane, la sua creatività, la sua capacità di distinguersi dal luogo comune e dal pensiero di massa. Questi uomini eccezionali sono coloro che hanno consentito, in ogni epoca, di mantenere vivo e critico il dibattito culturale, facendo in modo che l’ideologia predominante non assumesse caratteri dogmatici e assolutistici. Questi uomini sono stati dichiarati molto spesso eretici dai loro contemporanei, martiri e santi dalle generazioni future. Essi hanno contribuito allo sviluppo critico del pensiero dell’uomo, della sua libertà e della sua dignità, permettendogli di avere una visione d’insieme più articolata e completa, non definitiva, del suo percorso verso il futuro. L’auspicio è che in ogni tempo nascano nuovi eretici, vivano e operino all’interno e nell’interesse della società e dello stato, in grado di apportare quell’elemento di criticità, ma anche di novità e di scandalo, quando necessario. In grado, cioè, di risvegliare le coscienze intorpidite, affinché possa nascere, in un prossimo futuro, l’”Uomo nuovo”, ovvero colui che sappia conservare il suo dono più prezioso e, nella sua metamorfosi, da artigiano sappia divenire artista. Definire l’uomo premoderno, dunque, significa collocarlo all’interno di una ideologia graduata e temporale, generalizzandone il contesto e cercando di estrapolarne gli aspetti e i caratteri più significativi, allo scopo di poter avere un confronto tra antico e moderno.
“Qual’è il senso della vita o della vita organica in generale? Rispondere a questa domanda implica una religione. L’uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili prive di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita” (A. Einstein, da Il mondo come io lo vedo)
L’era così detta moderna ha inizio, a grandi linee, nel Rinascimento, prosegue con l’Illuminismo e termina all’inizio del XX° secolo, per lasciare spazio a quella che Lyotard chiama “postmodernità”. L’era moderna è dominata culturalmente da una visione scientifica relativista, dualistica e radicale, che prima pretende di fissare i propri sommi principi razionalmente, secondo una concezione kantiana, per poi tentare di scomporli deduttivamente, separando e frammentando irrimediabilmente, nell’utilizzo di questo metodo, il mondo razionale dal soprannaturale. La separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica, operata dall’Illuminismo, ha, inoltre, consapevolmente o meno, rinunciato a quel fine comune spirituale che gli antichi attribuivano alla conoscenza. Nell’antichità la riflessione sistematica e metodologica mira alla ricerca della Verità ed è condotta riconoscendo che vi sono leggi che rientrano nelle facoltà umane, limitate e circoscritte, ma che oltre a queste leggi ve ne sono altre che non rientrano in quelle facoltà. Tale riflessione, in ogni epoca, fino all’avvento della cosi detta era moderna, mira a superare tali limiti, sviluppando un proprio metodo di ricerca che definiamo naturale, mitologico, religioso e filosofico. La scienza e la storia, intese come discipline a sé stanti, così come le intenderà l’uomo moderno, ne fanno parte integrante e non separata. Nell’era che precede la civiltà classica, l’uomo è capace di cogliere, attraverso una interpretazione simbolica della natura, il significato trascendente delle manifestazioni fenomeniche. I fenomeni fisici sono, per la sua coscienza ingenua e pura, il manifestarsi del Trascendente, dove il concetto del sacro viene inteso come ciò che proviene dall’Origine (ierofania) e non ciò che vi fa ritorno, ovvero che ha subito una manipolazione profana. Egli, attraverso una lettura simbolica della natura, è capace di abbracciare e di comprendere in sé il significato universale della propria esperienza esistenziale, che va oltre l’illusione della realtà apparente. Perciò è persuaso che indagando la natura può conoscere se stesso e il proprio destino. Per questo si identifica e vuole sentirsi un tutt’uno con la natura e con l’infinito, vivendo il suo tempo in forma ciclica, dove nascita e morte, succedendosi in maniera perpetua, rappresentano il ripetersi dei fenomeni naturali e il loro avvicendarsi, così come accade al giorno con la notte. L’incontro tra la vita e la morte, tra la morte e la vita, tra il giorno e la notte e tra la notte e il giorno, viene considerato il “punto d’origine” del cerchio vitale e temporale: ad ogni morte corrisponde una nuova nascita e un passaggio di livello successivo, di elevazione o di regressione. Quell’uomo possiede la concezione del “Centro” come Origine del tutto, da cui le cose si separano e si contrappongono, generando il bisogno e la necessità del “ritorno” all’Origine unitaria. La cultura umanistica e quella scientifica, come su menzionato, negli antichi non conosce distinzione, ma forma un “unicum” spirituale. Anche il fine a cui tende, ovvero la ricerca della Verità o del Principio, è il medesimo, di natura spirituale. Da un punto di vista metodologico, due possono essere le vie da seguire per il raggiungimento del fine: il primo attraverso una “prassi”, che presuppone l’azione, ovvero la ricerca, lo studio e la riflessione verso la sapienza e la conoscenza dell’etica, allo scopo di stabilire il miglior agire umano; il secondo presuppone il conseguimento dell’episteme come fine, in cui si determina lo scopo dell’attività intellettuale. Esiste un filo comune che unisce e collega, tra di loro e con quelle più moderne, le antiche civiltà e il loro pensiero; ma oggi, forse per la prima volta, nella nostra epoca cosiddetta postmoderna, questo rischia seriamente di spezzarsi. Quel filo comune, su menzionato, che Eraclito chiama “Logos” riguarda essenzialmente il tramandarsi della tradizione spirituale ed è quella particolare sensibilità metafisica, mistica e religiosa che, ancora oggi, percorre e attraversa il pensiero dell’umanità nella sua millenaria storia. Per convenzione storica, tendiamo a separare determinati periodi di civiltà, come, ad esempio, avviene negando la derivazione della filosofia greca dalle dottrine ebraiche, egiziane, babilonesi e indiane, con la pretesa di tracciarne una netta linea di demarcazione, da giustificarsi col fatto che tra queste civiltà non vi sia soluzione di continuità. Questo è vero solo in parte, cioè solo quando ci si riferisce al metodo di ricerca e di realizzazione della propria cultura, del pensiero e della dottrina filosofica, in una parola della propria ideologia. E’ vero, infatti, che la tradizione orientale è essenzialmente dominata dall’interesse religioso, il cui patrimonio di conoscenza appartiene ad una casta sacerdotale ristretta, la quale la custodisce e la conserva, preoccupandosi di tramandarla nella sua purezza. Dunque il fondamento della sapienza orientale è la tradizione, mentre nella filosofia greca è essenzialmente la ricerca. Il metodo è differente, ma l’oggetto della sapienza orientale e della ricerca greca è il medesimo: il Principio. Un esempio per tutti valga la teoria interiorizzante della dottrina mistica vedica nelle Upanishad, che intende penetrare i misteri dell’esistenza e che asserisce l’identità fra l’Atman, l’anima o spirito singolo e il Brahman, l’anima o spirito universale, attraverso la circolarità delle reincarnazioni (metempsicosi). Da essa si evince una evidente assonanza con la visione filosofica della scuola pitagorica, nonché platonica, neoplatonica e con un certo tipo di concezione panteistica marcatamente spirituale. Il fine della ricerca greca è, dunque, la sapienza; si tratta però di un tipo di sapienza accessibile solo a chi “sente” il desiderio e la necessità di pervenirvi nella persuasione più intima e completa. Il vero sapiente è colui che “sa di non sapere”; colui, cioè, che perviene alla consapevolezza della propria esistenza in un mondo illusorio e privo di certezze, ma che aspira a conoscere la Verità. Pertanto, possiamo riassumere questa visione ideologica nel detto socratico: “Io so di non sapere, ma un giorno saprò”. Non si può definire, peraltro, il vero sapiente se non si stabilisca, in primo luogo, quale sia la sostanziale distinzione tra verità ed illusione. Il mito della caverna di Platone, in questo senso, è ben esaustivo: la via della conoscenza consiste nell’abbandonare il mondo sensibile per quello intelligibile, attraverso l’ascesi conoscitiva, che conduce alla contemplazione del Bene in se stesso. Il dovere del sapiente è quello di trasmettere la sapienza; tuttavia, pur avendo trovato la via della conoscenza ed essendo sostenuto dalla forza interiore della Verità, il sapiente ha il dovere di rifuggire dalla tentazione di allontanarsi dal mondo sensibile e di ritornarvi a vivere. Da questa premessa deriva una visione metafisica di tale orizzonte, inteso come fine-perpetuo, ma non come meta-traguardo finale. Tale è l’Idea platonica che, in quanto perfetta, viene intesa come l’orizzonte di un percorso esistenziale “autentico”, di crescita morale, etica e spirituale, in perenne tensione verso quella perfezione-conoscenza. Essa è autodeterminazione e rappresenta “la giusta via”, l’Origine e l’orizzonte dell’uomo premoderno: egli predilige, in luogo della casualità, la ricerca del senso e della direzione della propria esistenza. Cercare il senso dell’esistenza, infatti, significa ammettere a priori l’esistenza di un Essere Supremo, a differenza della casualità che tende ad escluderlo. Il meta-traguardo finale deve ricondurre l’uomo al cospetto del Trascendente, attraverso la conoscenza del sacro, che però non necessariamente deve avvenire in questa esistenza o dopo la morte. Questa vita, infatti, può essere intesa in senso neoplatonico, come una tappa intermedia, dove far prevalere la necessità di rivalutare i valori permanenti qualitativi in luogo di quelli contingenti, quantitativi e labili. In questa struttura ideologica si riflette la stessa struttura sociale di quei tempi, prima classica e poi medievale. Se nell’età classica della Grecia prevale lo spirito genuino della ricerca, dunque della libertà e della creatività individuale, nel medioevo prevale, analogamente all’era pre-classica, la visione di un mondo costituito gerarchicamente e sorretto da un’unica forza che dall’alto ne dirige e ne determina tutti gli aspetti. Tale concezione si ispira, sostanzialmente, ad una visione sincretica della dottrina filosofica stoica e neoplatonica, alla quale vengono ridotte ed adattate le dottrine aristoteliche e platoniche. La concezione del mondo è quella di un ordine perfetto e necessario, al quale l’uomo deve conformarsi, tramite il ruolo e il posto a lui assegnati. Pertanto la libertà e il libero arbitrio possono essere esercitati utilmente solo in vista di questa conformità. E’ veramente libero solo colui che attraverso il pensiero e la ricerca interiore sappia riconoscere e percorrere la giusta via: il Bene e Dio sono il Principio, il Mezzo e il Fine. Il medioevo, dunque, così come la cultura greca lo era stata per le tradizioni antecedenti, si configura come la continuazione delle culture che lo avevano preceduto, attraverso uno sviluppo dialogico e interpretativo del classicismo, che trova nel Cristianesimo il suo principale interlocutore. Temi e concetti classici, come l’idea del Bene, vengono posti al centro di questo fervido dibattito, non con l’intento di formulare nuove dottrine, ma di interpretarli nel giusto senso. Il principale problema, che il nascente Cristianesimo si trova a dover affrontare, è quello posto dalla visione platonica dell’idea-conoscenza e quello aristotelico del divenire nella ricerca dell’idea-conoscenza, ovvero di intendere la Verità come già data o di trovarla attraverso la ricerca individuale. Tale dicotomia, sappiamo, si è concettualmente ramificata, ponendo al centro del dibattito questioni e problemi come quelli del rapporto tra fede e ragione, tra essenza ed esistenza, tra conoscenza e scienza, tra dogma e ricerca e, dunque, tra essere e divenire. Ma, sopratutto, esso è il problema dell’ambito di libertà, del libero arbitrio, che l’uomo può avere nella ricerca della Verità, considerando, in primo luogo, i suoi limiti razionali. Nel medioevo la relazione autentica tra libertà e Verità assoluta, unita al desiderio per la conoscenza (l’eros platonico), è il presupposto necessario che conduce alla fede. Questa impostazione, che pone la fede come base per la conoscenza e come obiettivo della ricerca e non, viceversa, come sua premessa, determina che la ricerca senza il suo fine non avrebbe ne direttiva ne guida. Perciò, come sosteneva lo stesso Sant’Agostino, la fede diviene la condizione della ricerca, ma allo stesso tempo la ricerca è la condizione della fede, nel momento in cui ci si rivolge ad essa nel desiderio di chiarirne i problemi che suscita e di approfondirne incessantemente il suo significato più intimo. Problemi, questi, che l’Umanesimo sente particolarmente nel tentativo di ricostruzione del suo “uomo nuovo”, il cui fondamento è rappresentato dalla dignità e dalla libertà, attraverso una grande sintesi di tutto il pensiero antecedente. Marsilio Ficino occupò gran parte della propria breve esistenza nella traduzione di testi classici proprio nel tentativo di dimostrare, attraverso un arcaico percorso che va da Zarathustra fino a Ermete Trismegisto, a Pitagora e Platone, per confluire infine nella religione ebraico cristiana e nel misticismo neoplatonico, che non vi è, in linea di massima, disaccordo fra Platonismo e Cristianesimo, fra magia e religione. Al contrario, in queste tradizioni così apparentemente diverse tra loro, vi è un comune nucleo di verità, che egli riassume nella formula “homo copula mundi”, rappresentato dalla dignità cosmica dell’uomo. L’uomo è il centro (copula), un’entità intermedia nel creato a metà strada tra l’animale e l’angelo. Per questo si trova perennemente di fronte alla sua responsabilità di scegliere, alla sua libertà di autodeterminarsi, tendendo verso la perfezione angelica o verso il degrado animalesco. Ciò nonostante l’uomo è costretto entro i propri limiti razionali, dai quali deriva l’impossibilità di conoscere Dio e i suoi attributi in forma razionale. Dalla finitezza della ragione umana, circa l’inconoscibilità di Dio e dei suoi attributi, deriva la necessità di una teologia negativa, che si rifà alla tradizione areopagitica, al misticismo tedesco, al neoplatonismo e alla teoria di emanazione, o processione, di Proclo. Dal misticismo tedesco, dalla tradizione areopagitica e dal Neoplatonismo deriva l’impossibilità di conoscere gli attributi divini, che non sia per via simbolica; da Proclo deriva la teoria della creazione come rapporto fra complicatio ed explicatio: le cose sono contenute in Dio e si pongono in essere svolgendosi e procedendo da Lui. Ma se la ragione umana è finita e ugualmente si pone in essere l’esistenza di Dio come certa, pur determinandola in forma negativa e di infinità, ciò rappresenta per la ragione stessa una sfida. Lungi dal ritenersi sconfitta, essa ripone nella ricerca l’obbiettivo di spostare sempre in avanti il limite di conoscenza a cui poter accedere. La teologia negativa si muove, pertanto, in una duplice direzione: da un lato la consapevolezza della finitezza e l’abbandono totale del credente in Dio; dall’altro lo stimolo continuo alla ricerca e alla tensione verso Dio nella conoscenza e nell’esplorazione della natura, nella quale Egli si manifesta e nella quale si può esaltare la libertà e la dignità dell’uomo. Data l’inconoscibilità di Dio, vi è la necessità’ di una religione universale, che si ponga al di sopra di tutte le altre, abbracciandole e contenendole tutte in sé nei principi di fratellanza, uguaglianza e tolleranza. Da tale prospettiva viene ispirato l’evento centrale di Pico della Mirandola, attraverso l’iniziativa del fallito congresso che avrebbe dovuto riunire, in un intento conciliatorio, i rappresentanti delle tre religioni rivelate. A tal proposito nel 1486 egli scrive novecento tesi ispirate alla filosofia, alla cabala e alla teologia, tratte dalle fonti più diverse, come Aristotele, Ermete Trismegisto, Tommaso d’Acquino, Platone, Avverroè. Il congresso viene proibito per il sospetto di eresia su alcune tesi, ma Pico si difende prima con una “Apologia” nel 1487 e poi con le “Conclusioni” che sviluppano le tesi incriminate. Viene imprigionato per eresia mentre tenta di fuggire in Francia e solo l’intervento di Lorenzo il Magnifico gli permette di ottenere il perdono di papa Alessandro VI e di riottenere la libertà. Oggi, più che mai, sentiamo il bisogno di riscoprire e di riflettere quell’antica passione umana, incoraggiando l’uomo a valorizzare le proprie facoltà intellettive e impedendo che venga dispersa e annullata la propria dignità in un dischiuso mondo del luogo comune e dell’opulenza mercantile, basata su fattori quantitativi. Bisogna riscoprire il mondo-della-vita-autentica, trasformando la scienza, che oggi si prefigura come un fine, in un mezzo. Apprendere la scienza significa sviluppare la capacità di utilizzo dei propri mezzi intellettuali, di arricchimento interiore e della propria capacità razionale; significa trasformare l’uomo, da modello conformato ad artefice attivo della propria esistenza da un punto di vista qualitativo e spirituale. Oggi più che mai, all’uomo che non voglia privarsi della sua dignità, occorre riscoprire e far rivivere taluni concetti di valore umano e universale. “Ecco perché i tiranni hanno paura. Possono ridurre all’ubbidienza milioni di uomini, ma non quell’uno che in sé ha ridotto in schiavitù la morte. Egli ristabilisce la dignità dell’uomo…” (Ernst Jünger da Tre Ciottoli).