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IGNORANZA
Il palese distacco di alcuni scienziati per le pericolose ultra-semplificazioni della scienza commercializzata mi ha incoraggiato a sperare che tale disillusione possa compiersi in modo completo. C’è la speranza che questi scienziati non si limitino a tentativi di ‘correzione’ semplicemente tecnica o teorica, ma che si affaccino a un nuovo, o meglio a un rinnovato, approccio allo studio e alla comprensione del mondo vivente.
Nessun cambiamento di questo tipo è prevedibile nei termini delle comuni spiegazioni meccanicistiche delle cose. Tale cambiamento è immaginabile solo se abbiamo voglia di rischiare di far ricorso alla nostra cultura tradizionale, considerata ormai fuori moda. Si può dire che la speranza umana sia sempre considerata nella nostra abilità, in tempi di necessità, di ritornare ai nostri punti di riferimento culturali, per trovare di nuovo un orientamento.
Uno di questi punti di riferimento, nel corso della mia vita, è stata la tragedia shakespeariana di Re Lear.[1] Negli ultimi quarantacinque anni sono ritornato più volte sul Re Lear. Tra gli effetti di quest’opera teatrale che si sono manifestati in me – come, credo, in chiunque la legga con attenzione – c’è il riconoscimento che in ogni tentativo volto a rinnovarci o a correggerci, a scuoterci dalla disperazione, e a trovar speranza, il punto di partenza è sempre e soltanto la nostra esperienza. Possiamo cominciare (e dobbiamo sempre essere in procinto di farlo) solo laddove la nostra storia ci ha condotto finora, con quel che abbiamo fatto.
Recentemente i miei pensieri riguardo alle manipolazioni genetiche, che finiranno inevitabilmente con l’essere commercializzate – come peraltro sta già accadendo, se non altro a livello teorico – mi hanno riportato di nuovo al Re Lear. L’intera opera riguarda la giustezza, sia nel senso comune della parola, che nella sua accezione di veridicità, naturalezza, ovvero conoscenza dei limiti della nostra specifica natura umana. Ma tale questione viene trattata in modo più esplicito in un episodio della trama secondaria, in cui il Duca di Gloucester viene sottratto alla disperazione, e gli viene consentito di morire nella piena dignità umana.
Il vecchio duca è stato accecato per la sua lealtà al re, e in tale fato egli vede una sorta di giustizia dal momento che, come egli afferma, “quando vedevo inciampavo” (Re Lear, IV/1). Come Lear, anch’egli è colpevole di hybris, ovvero di presunzione, di trattare la vita come un qualcosa di conoscibile, prevedibile, e sotto il proprio controllo. Egli ha falsamente accusato Edgar, il figlio fedele, e lo ha allontanato da sé. Esiliato a pena di morte, Edgar si è mascherato da folle mendicante. In tale veste, farà da guida al padre accecato, che gli chiede di condurlo presso Dover, dove intende uccidersi gettandosi da una scogliera. Il compito di Edgar è quello di salvare il padre dalla disperazione, e riesce nel suo intento, tanto che il padre infine muore “tra i due estremi della passione: tra gioia e dolore” (V/3). Muore, cioè, nell’ambito dei vincoli propri allo stato umano. Edgar non vuole che suo padre rinunci alla vita. Rinunciare alla vita significa passare al di là della possibilità del cambiamento, ovvero della redenzione. Quindi non conduce affatto il padre sulla cima della scogliera, ma gli dice di aver eseguito quel suo desiderio. Gloucester rinuncia dunque al mondo, benedice Edgar, figlio che egli crede essere altrove, e secondo le indicazioni scenografiche, “cade in avanti e sviene” (IV/4).
Quando ritorna alla coscienza. Edgar ora si rivolge a lui simulando di essere di un passante che da sotto la scogliera aveva assistito alla caduta di Gloucester. È qui che in modo esplicito emerge il suo ruolo di guida spirituale del padre.
Gloucester, incredulo d’essere ancora in vita, tenta di rifiutare un qualsiasi aiuto, dicendo “lasciatemi morire!” (IV/4).
Ma ecco che Edgar, dopo una breve introduzione in cui si presenta quale estraneo, pronuncia quella strofa filiale (nonché paterna) su cui s’è soffermato il mio pensiero:
La tua vita è un miracolo. Ma parla ancora! (IV/4)
È questa la strofa che richiama Gloucester – dalla hybris, e dal danno e dalla disperazione che inevitabilmente ne segue – alla vita umana subordinata alla gioia e al dolore, dove cambiamento e redenzione sono possibili.
La forza di tale strofa letta nel mare d’innovazione e speculazione della bioingegneria risulterà sicuramente ovvia. Ci si accorge immediatamente che il suicidio non è l’unico modo di rinunciare alla vita. Sappiamo che creature di ogni tipo possono essere uccisi, deliberatamente o inavvertitamente. La maggior parte degli allevatori sa che a qualsiasi creatura che viene venduta si è in un certo senso rinunciato; c’è una grande differenza tra vendere agnelli annualmente, che di per sé, è un qualcosa di relativo, e vendere l’intero gregge, o meglio tutta la fattoria, che contiene invece l’immanenza di una promessa illimitata.
*
Un po’ più difficile da individuare è il pericolo di poter anche rinunciare alla vita presumendo di ‘conoscerla’ – ovvero riducendola ai termini della nostra conoscenza e trattandola in termini meccanicistici di prevedibilità. L’influenza più radicale della scienza riduttiva è stata l’adozione, virtualmente universale, dell’idea che il mondo, le sue creature, e ogni parte delle sue creature siano macchine – cioè, che non vi sia alcuna differenza tra una creatura e una cosa artificiale, tra nascita e manifattura, tra pensiero e computo. Il nostro linguaggio, laddove viene usato, è ora quasi invariabilmente condizionato dalla presunzione che i corpi di carne siano macchine piene di meccanismi, pienamente compatibili coi meccanismi della medicina, dell’industria, e del commercio; e che le menti siano dei computer pienamente compatibili con la tecnologia elettronica.
Tale presunzione potrebbe avere avuto origine come metafora, ma nel linguaggio così come viene usato (e così come influenza la pratica industriale) è evoluta, attraverso una strana equazione, dalla metafora all’identificazione. E tale uso istituzionalizza il desiderio umano, ovvero il peccato di desiderare, che la vita possa essere prevedibile, o che possa essere resa tale.
Ho letto del principio di Werner Heisenberg che “Chiunque tratti organismi viventi come sistemi chimico-fisici allora devono necessariamente, per lui, comportarsi come tali.” Non è nelle mie competenze avere un’opinione se ciò sia vero o meno. Mi sento solo di dire che ogniqualvolta organismi viventi vengono trattati come macchine, ecco che vengono necessariamente ad essere percepiti, nel loro comportamento, come tali. Inoltre si può notare che la proposizione è reversibile: ogniqualvolta organismi animali vengono percepiti come macchine, essi devono necessariamente essere trattati come tali. William Blake colse la medesima intuizione nella sua epoca afflitta di riduzionismo:
Quel che sembra essere, è, per coloro a quali ciò sembra essere, e produce le più terribili conseguenze a coloro ai quali sembra essere così[2]
Per qualche tempo è stato possibile per una persona libera e coscienziosa capire che trattare la vita come una cosa meccanica, prevedibile, o comprensibile, significa ridurla. Ora, quasi improvvisamente, sta diventando chiaro che ridurre la vita nell’ambito della nostra comprensione (qualsiasi ‘modello’ usiamo) significa inevitabilmente renderla schiava, ridurla a un oggetto di proprietà, per poi metterla in vendita.
Questo significa rinunciare alla vita, portarla al di là del cambiamento e della redenzione, e avvicinarsi sempre più alla disperazione.
La clonazione – per usare uno degli esempi più ovvi – non è il modo per migliorare la pecora. Al contrario, è un modo per fissare il lignaggio della pecora, rendendolo definitivamente non migliorabile. Nessun autentico allevatore lo consentirebbe, dal momento che i veri allevatori hanno in mente la loro fattoria e il loro mercato e cercano sempre di allevare una pecora migliore. La clonazione, oltre ad essere un nuovo metodo per rubare le pecore, è solo un patetico tentativo di rendere prevedibili le pecore, Ma questo è un affronto alla realtà. Come ogni pastore sa bene, lo scienziato che pensa di aver fatto una pecora prevedibile non fa che rendersi ridicolo.
Lo stesso tipo di limitazione e di deprecazione la troviamo nella proposta clonazione dei feti per ottenere parti del corpo umano, e in altre misure estreme volte a prolungare vite individuali. Nessuna singola vita è un fine in se stessa. Si può vivere pienamente soltanto partecipando pienamente nella successione delle generazioni, in morte come in vita. C’è chi direbbe (e io sono uno di quelli) che possiamo vivere pienamente soltanto rendendoci reattivi alle sollecitazioni dell’eternità, allo stesso modo in cui lo siamo riguardo a quelle del tempo.
Il problema, così come appare, è che stiamo usando il linguaggio sbagliato. Il linguaggio che usiamo per parlare del mondo e delle sue creature, inclusi noi stessi, ha raggiunto una certa forza analitica (assieme a un vistoso alone da esperti) ma ha perso molto della sua forza nel designare quel che viene analizzato o nell’esprimere qualsiasi rispetto, attenzione, affetto, o devozione, nei suoi confronti. Come risultato abbiamo molte persone in perfetta buona fede che ci chiamano a salvare un mondo che il loro linguaggio simultaneamente riduce a un assemblaggio di ‘ecosistemi’, di ‘organismi’ di ‘ambienti’, di ‘meccanismi’, o di elementi consimili, del tutto privi di spirito o di una qualsiasi caratteristica. È impossibile prefigurare la salvezza del mondo utilizzando lo stesso linguaggio con cui il mondo è stato smembrato e sconvolto.
Mi sembra che attraverso quasi ogni standard, la riclassificazione del mondo dalla creatura alla macchina, implichi quantomeno una pericolosa riduzione della complessità morale. Altrettanto deve accadere nello spostamento del nostro atteggiamento nei confronti della creazione, dalla riverenza alla comprensione. Non di meno deve avvenire in quella che è la relazione tra la nostra percezione della natura da quella di amministratore a quella di proprietario assoluto, manager, e ingegnere. E deve verificarsi anche un passaggio dal ‘santo’ all’‘olistico’.
A questo punto mi preme affermare che la poetessa e filosofa Kathleen Raine aveva ragione quando ricordava che la vita, la santità, può essere conosciuta solo avendola vissuta attraverso l’esperienza.[3] Sperimentarla non significa ‘immaginarla’ o comprenderla, ma soffrirla e riconciliarsi in essa così com’è. Nel soffrirla e nel riconciliarsi in essa così com’è, sappiamo poi di non capirla, né di poterlo fare, in modo completo. Sappiamo inoltre di non desiderare di appropriarcene attraverso le affermazioni di qualcuno che ritiene di averla compresa. Sebbene abbiamo vita, essa è al di là di noi. Non sappiamo come l’abbiamo, o perché. Non sappiamo cosa le accadrà, né cosa ci succederà; non è prevedibile. Sebbene siamo in grado di distruggerla, non possiamo costruirla. Non può essere controllata, se non per riduzione, e a serio rischio di provocarle danni. È santa, come disse Blake. Considerare la vita in modo diverso, significa renderla schiava, e fare, non dell’umanità, ma di pochi umani i suoi inetti padroni.
. Abbiamo bisogno di una nuova Proclamazione di Emancipazione, non per una specifica specie o razza, ma per la vita stessa, e ciò credo sia proprio quello che Edgar tende ad esprimere al suo già presuntuoso, ma ora disperato, padre:
La tua vita è un miracolo. Parla ancora
Il tentato suicidio di Gloucester è proprio un tentativo di recuperare il controllo sulla sua vita – un controllo che egli crede (erroneamente) di aver avuto una volta e che ora ha perso:
O voi potenti divinità!
A questo mondo rinuncio, e al vostro cospetto
Scuoto tranquillamente dalle spalle il mio fardello d’afflizioni. (IV/6)
La natura della sua disperazione è delineata nella fede di poter controllare la vita uccidendosi, che è un paradosso che incontreremo ancora trecento cinquanta anni dopo all’estremo dello scontro bellico industriale, quando credevamo di poterci ‘salvare’ attraverso la distruzione.
In seguito, sotto la guida del figlio, Gloucester reciterà una preghiera che è l’esatto opposto delle parole da lui precedentemente pronunciate -
O Dei benigni, fate che io esali l’ultimo respiro.
Ma non fate che il mio angelo cattivo mi tenti ancora
A morire innanzi che l’accordi il piacer vostro. (IV/6)
- in cui rinuncia al controllo sulla propria vita. Ha abbandonato la sua vita quale possesso comprensibile, e l’ha ripresa quale miracolo e mistero. Inoltre la sua dichiarazione di essere umano viene riconosciuta nella risposta di Egdar: “Questa sì che è una bella preghiera, padre!” (IV/6).
Sembra chiaro che gli umani non possano ridurre o attenuare in modo significativo i pericoli inerenti al loro uso della vita accumulando più informazioni o teorie migliori, o realizzando maggiore capacità di predizione o di attenzione nel loro lavoro scientifico e industriale. Trattare la vita come meno di un miracolo significa rinunciarvi.
*
Sono consapevole di quanto possa sembrare invadente questo commento, da parte di uno, che come me, non ha alcuna competenza o erudizione nella scienza. La questione che sto cercando di trattare, tuttavia, non è relativa alla conoscenza, ma all’ignoranza. Nell’ignoranza credo di potermi pronunciare come esperto.
Uno dei nostri problemi è che noi esseri umani non possiamo vivere senza agire; dobbiamo agire. Inoltre, dobbiamo agire sulla base di quel che conosciamo, e quel che conosciamo è incompleto. Quel che siamo arrivati a capire finora è palesemente incompleto, dal momento che continuiamo a imparare sempre più, e non abbiamo il minimo dubbio che la nostra conoscenza diventerà assai più completa. Il mistero che circonda la nostra vita probabilmente non è riducibile in modo significativo. Dunque la questione di come agire nell’ignoranza è d’importanza fondamentale.
La nostra storia ci fa supporre che possa essere giusto agire sulla base di una conoscenza incompleta se la nostra cultura riesce efficacemente a dirci che la nostra conoscenza è incompleta, e anche a dirci come agire in tale stato d’ignoranza. Possiamo procedere sino a dire che sia giusto agire sulla base di una sicura conoscenza, dal momento che i nostri studi e le nostre esperienze ci hanno dato una conoscenza che sembra essere alquanto affidabile. Tuttavia, appare pericoloso agire sulla presunzione che la conoscenza certa sia conoscenza completa – ovvero sulla presunzione che la nostra conoscenza aumenterà così velocemente da affrontare le deleterie conseguenze dell’uso arrogante di una conoscenza incompleta. Fidarsi del ‘progresso’ o del nostro ‘genio’ putativo per risolvere tutti i problemi che causiamo è cosa peggiore di una scienza cattiva; è una cattiva religione.
Un secondo problema umano è che il male esiste ed è una possibilità reattiva e onnipresente Sappiamo che la malevolenza è sempre pronta ad appropriarsi di mezzi che abbiamo inteso per il bene. Ad esempio, i mezzi tecnici in possesso dell’agricoltura industrializzata. Rendendola (attraverso standard molto limitati) più efficiente, facile, e produttiva, l’ha anche resa più tossica, più violenta, e più vulnerabile – l’ha di fatto resa sempre meno affidabile, se non addirittura meno prevedibile, di quanto era una volta.
Un tipo di male certamente è la volontà di distruggere ciò che non riusciamo a costruire – la vita ad esempio – ed abbiamo enormemente aumentato i mezzi per poterlo fare. E cosa dobbiamo fare? Dobbiamo forse permettere al male e alle sue implicazioni su di noi di portarci alla disperazione?
Questa tendenza alla scienza riduttiva – quando permettiamo all’agricoltura di essere invasa dalla tecnologia della guerra e dall’economia dell’industrialismo – ci sta portando alla disperazione, come testimonia l’incidenza di suicidi tra gli agricoltori.
Se ci mancano i mezzi culturali che mantengono la conoscenza incompleta, impedendole peraltro di divenire la base di un comportamento arrogante e pericoloso, allora le stesse discipline intellettuali diventano pericolose. A che serve un ulteriore studio della natura se porta a un ulteriore distruzione della natura? Studiare lo ‘scopo’ dell’organo all’interno dell’organismo o dell’organismo all’interno dell’ecosistema è ancora riduttivo se lo facciamo con la presunzione di poter prima o poi riuscire a trarne conclusioni definitive. Ciò serve solo a catturare il mondo come soggetto di una ‘comprensione’ presente o futura, che diventerà la base di un ulteriore ottimismo industriale e commerciale, che farà poi da fondamento per un ulteriore sfruttamento e distruzione delle comunità, degli ecosistemi, e delle culture locali.
Naturalmente non sto proponendo la fine della scienza e d’altre dottrine intellettive, quanto un cambiamento di standard e di finalità. Gli standard del nostro comportamento devono essere derivati, non dalla capacità della tecnologia, ma dalla natura dei luoghi e delle comunità. Dobbiamo spostare la priorità dalla produzione all’adattamento locale, dall’innovazione alla familiarità, dalla forza all’eleganza, dall’esosità alla frugalità. Dobbiamo imparare a pensare alla proprietà sia nella progettazione che nelle dimensioni, in termini di salute umana ed ecologica. Con questi cambiamenti potremmo ancora dare con la nostra opera una risposta alla disperazione.
Wendel Berry tradotto da Eduado Ciampi
[1] Nota del curatore: per una lettura tradizionale di questa tragedia shakespeariana, rimandiamo il lettore all’omonimo saggio di Martin Lings, contenuto nella raccolta Miti Shakespeariani (Terre Sommerse, 2010) della medesima collana T&T.
[2] William Blake, Complete writings (Oxford, 1966), pag. 663.
[3] Kathleen Raine, The inner journey of the poet (Braziller, 1982).
SARDI ED ETRUSCHI NELL’OPERA DI MASSIMO PITTAU
Nel grigio conformismo del mondo accademico dell’Italia di oggi, che è pari solo all’intricato groviglio di interessi carrieristici, affaristici e politici che ammorba la vita delle nostre Università, esiste da sempre una schiera di studiosi coraggiosi e tenaci, che conducono in modo innovativo e anticonformista i propri studi, finendo per svolgere il ruolo della proverbiale “vox clamantis in deserto” e per essere apprezzati più dai posteri che dai contemporanei. Se questo accade in ogni campo di studi, tanto più ciò si verifica nell’ambito della Linguistica e soprattutto nello studio delle lingue estinte, terreno quanto mai aperto alla massima opinabilità delle ricostruzioni teoriche, quanto mai bisognoso dell’apporto interdisciplinare che altre scienze (storia, antropologia, archeologia, etc.) possono fornire e pure soggetto al rischio di strumentalizzazioni politico-ideologiche di varia natura. In quest’ambito, Massimo Pittau rappresenta senz’altro un orgoglio accademico dell’Italia e della Sardegna, per avere dedicato la propria vita accademica e di studioso all’approfondimento della lingua e delle origini di due tra i popoli più antichi e misteriosi tra quelli che costituiscono il substrato etnico dell’attuale popolazione italiana: i Sardi e gli Etruschi.
Originario di Nuoro, dove è nato nel 1921, Massimo Pittau ha dedicato al dialetto della propria città natale la tesi di laurea in Lettere conseguita all’Università di Torino, sotto la guida di Matteo Bartoli. Dopo una seconda laurea presso l’Università di Cagliari in Filosofia e un perfezionamento alla Facoltà di Lettere di Firenze, dove è stato allievo tra gli altri del grande Giacomo Devoto, nel1959 haconseguito la libera docenza e nel 1971 la cattedra in Linguistica Sarda nell’Università di Sassari, tenendo anche gli incarichi di Glottologia e Linguistica Generale. Di particolare importanza per la sua formazione sono stati anche il cospicuo carteggio epistolare con il grande linguista Max Leopold Wagner, maestro della linguistica sarda, e l’appartenenza quale socio effettivo alla «Società Italiana di Glottologia» e al «Sodalizio Glottologico Milanese». Ha pubblicato circa 50 libri e di più di 400 studi nelle materie di sua competenza, risultando vincitore dei vari premi letterari.
Pur spaziando l’opera del Pittau in vari ambiti, nel presente articolo ci si soffermerà unicamente sugli studi riguardanti la lingua, la storia e la civiltà dei Proto-sardi e degli Etruschi e il rapporto o eventuale parentela tra le due civiltà. La prima opera in cui il Pittau si interessa di problemi storici della Sardegna antica è “La Sardegna Nuragica” (1977), che si interessa dell’annosa questione della funzione dei nuraghi. Contrariamente alla tesi del Taramelli e del “guru” dell’archeologia sarda, Giovanni Lilliu, che consideravano i nuraghi come edifici militari, ovvero fortezze o castelli, presso i quali risiedeva l’aristocrazia nuragica e si radunava la popolazione in caso di pericolo, Massimo Pittau teorizzò per primo la natura di edifici religiosi dei nuraghi, cioè luoghi di culto delle comunità, quelli più grandi, cappelle tribali o anche familiari, quelli più piccoli. In questo, tra i ricercatori sardi, si confronti la tesi di Mauro Peppino Zedda in “Archeologia del paesaggio nuragico” (2009), in modo leggermente diverso ma non incompatibile con quello del Pittau, risolve per l’identificazione dei nuraghi quali torri astronomiche.
Dopo questo primo studio, di natura storico-archeologica, il Pittau tornò al campo a lui proprio, ovvero quello degli studi linguistici, con opere quali “La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi” (1981), la cui tematica è stata più tardi ripresa da “Origine e parentela dei sardi e degli etruschi. Saggio storico-linguistico” (1995). Pittau cominciò così ad approfondire il tema dell’origine e dell’appartenenza a una delle famiglie linguistiche conosciute dell’idioma che i Sardi parlavano prima della latinizzazione conseguente alla dominazione romana della Sardegna (238 a.C.-534 d.C.). Il nucleo originario di questa lingua proto-sarda viene ricondotto dal Pittau all’area geografica dell’Anatolia (odierna Turchia) e molto probabilmente alla Lidia. Non può sicuramente essere un caso, tra l’altro, che la capitale dell’antica Lidia portasse proprio il nome di “Sardi”. Questa lingua proto-sarda, inoltre, viene messa in connessione con quella etrusca, anch’essa ritenuta di matrice anatolica e “lidia”. Allo stesso tempo, veniva individuata l’esistenza di numerosi vocaboli appartenenti al “sostrato mediterraneo”, con riscontri lessicali in tutta l’area geografica italiana (penisola italiana, Corsica, Sicilia) e un molto meno consistente sostrato paleo-iberico e delle lingue dell’antica Africa settentrionale. Gli studi del Pittau portarono alla pubblicazione di testi fondamentali, aventi natura istituzionale nella materia della linguistica proto-sarda, quali “La lingua sardiana o dei protosardi” (2001) o, per restare in un ambito più specialistico, il “Lessico etrusco-latino comparato col nuragico” (1984). Del resto, le stesse fonti classiche e i ritrovamenti archeologici testimoniano di un innegabile relazione tra Sardi ed Etruschi sin da epoche lontanissime: si pensi ai molteplici ritrovamenti di manufatti di origine sarda nelle tombe etrusche e nell’affermazione del latino Festo, secondo cui “Soliti sunt esse reges Etruscorum, qui Sardi appellantur. Quia gens etrusca, orta est Sardibus”.
Ben presto, Pittau diresse i propri studi in modo più specifico verso l’approfondimento grammaticale e lessicale delle strutture e del vocabolario della lingua etrusca, della quale aveva messo in evidenza le connessioni con la lingua proto-sarda, e di cui affrontò altresì il ponderoso problema delle origini. Alla lingua etrusca Pittau ha dedicato oltre 30 anni di studi e ben 12 libri e un centinaio di articoli in riviste specializzate, considerevolmente più di ogni altro studioso vivente. Egli ha convintamente sostenuto la necessità di porre termine al maldestro pregiudizio, secondo cui la lingua etrusca sarebbe misteriosa e in attesa di una decifrazione. Tra le opere più cospicue e, per così dire, maggiormente istituzionali di Pittau sulla lingua etrusca, corre obbligo di citarne in primo luogo due. Il primo è “La lingua etrusca. Grammatica e lessico” (1997), è un pregevole testo di riferimento per la conoscenza della lingua etrusca, che nella sua linearità e chiarezza, risulta estremamente convincente nell’evidenziare le innegabili somiglianze strutturali che si possono riscontrare nell’esame della declinazione in casi dei sostantivi e nella coniugazione dei verbi tra l’etrusco e le altre lingue indoeuropee. Il secondo è il “Dizionario della lingua etrusca” (2005), in assoluto il primo e finora unico vocabolario generale mai pubblicato sulla lingua etrusca. Altre opere di notevole importanza, che il Pittau ha pubblicato sul problema della lingua etrusca, sono il “Dizionario comparativo latino-etrusco” (2009) e “Testi etruschi tradotti e commentati. Con vocabolario” (1990), contenente l’interpretazione e la traduzione di 13 maggiori testi della lingua etrusca pervenuti fino a noi (Liber linteus della Mummia di Zagabria, Tabula Capuana, Tabula Cortonensis, Cippus di Perugia, Lamine auree di Pirgi, Fegato di Piacenza, Elogio funebre di Laris Pulenas, Defixio di Monte Pitti, Scritta di San Manno di Perugia, Scritta dell’Arringatore, Scritta sepolcrale dei Claudii, Iscrizione del Guerriero, Lamina di Magliano). La tesi dell’appartenenza dell’etrusco alla grande famiglia delle lingue indoeuropee, come ricorda il Pittau, è stata sostenuta da numerosi linguisti del passato e (in misura crescente) del presente, come W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, V.I. Georgiev, W.M. Austin, R.W. Wescott, A. Morandi, F.C. Woodhuizen, F. Bader, F.R. Adrados. In particolare, devono essere ricordati gli studi del grande linguista bulgaro Vladimir Ivanov Georgiev, membro tra l’altro dell’Accademia delle Scienze di Mosca, che in opere come “Introduzione allo studio delle lingue indoeuropee (1966) e “la lingua e l’origine degli etruschi” (1979) mette in relazione l’etrusco con l’ittita, confermando l’origine indoeuropea anatolica dell’idioma tirrenico, la sua parentela con la lingua di Lemno e la stretta connessione intercorrente tra la realtà storica e il mito dell’emigrazione troiana verso le coste del Lazio e tirrenica dalla Lidia, che adombrerebbero un flusso migratorio dall’Anatolia all’Italia alla fine del II millennio a.C.. Questa tesi, peraltro, è stata recentemente ripresa dall’italiano Leonardo Magini in “L’etrusco, lingua dell’Oriente indoeuropeo” (2007). Le ricerche sul DNA, peraltro, dimostrano che effettivamente vi sono affinità consistenti tra gruppi di Toscani odierni a popolazioni dell’Asia Minore e analoghi studi individuano parentele genetiche tra Sardi e Toscani. Questo, ancora una volta, confermerebbe la tesi tradizionale della storiografia antica, in origine sostenuta da Erodoto e poi ripresa da altri 30 autori greci e latini, secondo cui gli Etruschi vennero in Toscana dalla Lidia.
Per inciso, anche la tradizione mitologica e religiosa conferma l’appartenenza degli etruschi alla famiglia indoeuropea. Il pantheon etrusco è sovrapponibile a quello indoeuropeo, in particolare greco e romano. La triade suprema costituita da Tinia (Giove), Uni (Giunone) e Menrva (Minerva) è identica a quella capitolina. Il mito delle origini della Roma indoeuropea ci tramanda che le tre tribù che contribuirono alla costituzione della città furono i Ramnes latini, i Tities sabini e i Luceres, di stirpe etrusca e di casta guerriera. Sempre dagli Etruschi vennero a Roma i simboli del potere, come la sella curule dei consoli e il fascio littorio. Lo Stato romano finanziava le scuole sapienziali di Arezzo e Perugia, dove si tramandava l’arte degli aruspici, praticata almeno fino al V secolo d.C..
La tesi di Massimo Pittau sull’origine indoeuropea del sardo e dell’etrusco e sulla parentela tra di loro delle due lingue estinte non ha mancato di sollevare obiezioni e anche critiche, a volte non completamente serene. Ad esempio, un deciso avversario delle tesi di Massimo Pittau è il catalano Eduardo Blasco Ferrer, ordinario all’Università di Cagliari. Secondo l’accademico iberico, “la Comunità scientifica ha già stroncato in più sedi internazionali le note ipotesi sulla parentela del Paleosardo con l’Etrusco (Massimo Pittau) e quella più recente che considera la lingua encorica dell’Isola un sistema “italide” vicino al Latino (Mario Alinei)”. Massimo Pittau ha risposto che “con disonestà scientifica e pure umana, il Blasco non ha citato nessun autore e nessuno scritto” a sostegno delle sue tesi e che “per giudicare quella ipotesi è necessario conoscere bene sia il Paleosardo sia l’Etrusco ed è del tutto certo che il Blasco non conosce né l’una né l’altra lingua, per cui parla a vanvera di cose che non conosce”. Blasco Ferrer, in effetti, è principalmente uno studioso di lingue romanze e nella sua bibliografia, fino al 2010 (anno della pubblicazione di “Paleosardo. Le radici linguistiche della Sardegna neolitica”) non figurava alcuno studio sul proto-sardo o sull’etrusco, a fronte della vastissima produzione del Pittau nelle suddette materie. E’ appena il caso di rammentare, peraltro, che oltre a quella del Pittau esistono posizioni di altri autori contemporanei che ascrivono il proto-sardo alla famiglia indoeuropea, anche se a rami diversi da quello anatolico ipotizzato dal Pittau: tra questi Marcello Pili, professore dell’Università La Sapienza e Mario Ligia (ipotesi micenea), Alberto Areddu e Salvatore Mele (ipotesi illirica), oltre all’oristanese Gigi Sanna che ha ipotizzato, sulla base dell’interpretazione di alcuni reperti archeologici, che i proto-sardi parlassero una lingua indoeuropea affine al latino, utilizzando però un alfabeto di tipo semitico. Secondo Giovanni Ugas, invece, sarebbero preindoeuropei (liguri) i Corsi della Gallura, indoeuropei (provenienti dalla penisola iberica)i Balari della Sardegna settentrionale e non indoeuropei gli Iolei della Sardegna meridionale.
Negli anni più recenti, Massimo Pittau ha ripreso a occuparsi del filone storico delle sue ricerche, con opere quali “Ulisse e Nausica in Sardegna”, (1994) e soprattutto con “Storia dei sardi nuragici” (2007) finora la prima e unica opera che si impegna nella ricostruzione unitaria della storia dei Sardi Nuragici come popolo. L’Autore, che ha sempre interpretato i fatti storici alla luce delle testimonianze linguistiche, è arrivato a determinate conclusioni concernenti la più remota storia dell’Isola e del Mediterraneo occidentale. In particolare ha affermato la “strettissima parentela genetica e anche linguistica dei Nuragici con gli Etruschi”, con il corollario della probabile ipotesi di una emigrazione lidio-anatolica che ha toccato in un primo momento la Sardegna e solo in un secondo momento le sponde dell’attuale Toscana. Pittau ha evidenziato il ruolo geopolitico assai importante svolto dalla Sardegna e dai Sardi Nuragici nel II millennio a.C., confermato anche dalla politica delle alleanze e dalla partecipazione alle vicende dei “popoli del Mare” e in particolare all’invasione dell’Egitto. Ha infine identificato la Sardegna con l’isola dei Feaci, dove, secondo il racconto dell’Odissea omerica, sarebbe approdato il naufrago Ulisse, accolto dalla principessa Nausica e dal re Alcinoo. Dato che la narrazione dell’Odissea ha come collocazione geografica il Mediterraneo centrale e come epoca di riferimento il secolo XIII a.C., per spiegare l’incongruenza per cui l’Odissea non cita mai la Sardegna, all’epoca sede della più importante civiltà del Mediterraneo occidentale, si deve ritenere che il poeta si sia riferito ad essa chiamandola in un altro modo, cioè Scherìa o isola dei Feaci. In base alla conformazione dell’isola di Tavolara e al suo aspetto di “nave pietrificata” come quella mitica dei Feaci, Massimo Pittau ha localizzato la civiltà dei Feaci nell’attuale Gallura e la loro capitale sul sito della futura Olbia. Nel suo libro “Il Sardus Pater e i guerrieri di Monte Prama” (2008), Pittau ha argomentato che i 24 Guerrieri di Monte Prama di Cabras (OR) erano le statue-colonna che decoravano il grande tempio del Sardus Pater, ubicato nel Sinis (litorale oristanese) e citato dal famosissimo geografo ed astronomo greco-alessandrino Claudio Tolomeo. In ultimo Massimo Pittau, nel suo libro “Gli antichi Sardi fra i Popoli del Mare” (2012), ha approfondito il tema dei numerosi reperti di origine egizia presenti in Sardegna. Dopo aver osservato che i suddetti reperti non potevano essere stati importati in Sardegna dagli Egizi, che mai hanno intrapreso traffici marittimi a lunga percorrenza, né dai Fenici, il cui arrivo risale a molti secoli dopo l’epoca a cui risale buona parte dei suddetti reperti, Massimo Pittau ha concluso che il ricco materiale religioso egizio, assieme con la pratica della religione egizia, è stati importato in Sardegna dai Sardi stessi, gli antichi “Shardana”, all’epoca della loro partecipazione alle imprese dei “Popoli del Mare” in Egitto. Più controversa, invece, è l’identificazione da parte di Pittau dei Nuragici con gli Shardana, considerato che molti altri autori ritengono i primi, costruttori dei Nuraghi, come antecedenti ai secondi.
Massimo Pittau consegna a noi contemporanei e ai posteri il risultato di una vita di ricerche, con la certezza che in un futuro non lontano il suo nome sarà riconosciuto e celebrato come quello di uno degli indagatori più attenti e geniali del passato della nostra gente e in particolare della storia e dell’idioma dei nostri progenitori Etruschi e Sardi.
Sul Sole e sul numero
“O risplendente Sole, cosa mai saresti tu,
se non ci fossi io, quaggiù, su cui risplendere?”
Nell’ambito della Dottrina Tradizionale quando ci si riferisce, anche in senso generale, alla “solarità” è d’uopo considerare una duplice manifestazione di influenze spirituali, che, se in apparenza posso sembrare opposte, in realtà, sono fasi complementari di un preciso e perfetto processo risolutivo e realizzativo. Per far comprendere al meglio ciò che intendiamo ci si potrebbe riferire al significato ermetico della formula solve et coagula, che effettivamente esplicita tutto il segreto della Grande Opera, riproducendo le due fasi della manifestazione universale. A seconda dello stato che si considera, si avranno processi inversi, complementari e soprattutto simultanei: vi sarà una soluzione, quando, partendo da uno stato di manifestazione, si attuerà un movimento di ritorno verso il non-manifestato; vi sarà una coagulazione, quando, realizzandosi un processo cosmogonico, si passerà da uno stato di non-manifestazione a quello manifestato. Sono le direzioni ascendenti e discendenti che nella tradizione estremo-orientale sono riferite allo yang ed allo yin, al Cielo ed alla Terra, è la duplice funzione della Luce che esprime sia l’Attività del Cielo nel Cosmo, sia la realizzazione dello stesso nell’Unità Primordiale. La solarità, quindi, come processo di irradiazione divina che partendo dal Logos Originario si espande in tutti gli ambiti del creato – si ricordi il Fiat Lux della Genesi -, ma anche come trasmutazione che svincola l’essere dalla propria umanità, dalla propria cosmicità, restituendogli l’edenica spiritualità. Le due fasi indicate possiamo assimilarle ad analoghe simbologie, che in varie forme tradizionali fanno sempre riferimento alle due vie di realizzazione dei piccoli misteri o dei grandi misteri: è tale il significato che alchemicamente si attribuisce all’opera al bianco e all’opera al rosso, come “manifestazione dantesca” del Paradiso terrestre e del Paradiso Celeste, come risoluzione delle Forme e dei Ritmi nel Silenzio e del Silenzio nell’Ineffabile. Questa nostra introduzione sulla solarità la riteniamo indispensabile per addentrarci con maggiore profondità e chiarezza in quello che è l’argomento cardine di codesto scritto, cioè la funzione simbolica che assumono a livello cosmologico certi numeri – in particolare uno, da cui deriveranno tutti gli altri -, che ritrovandosi sistematicamente in più forme della Tradizione, costituisco dei veri e propri archetipi a cui è possibile riferirsi per comprendere il manifestarsi, nel corso della storia dell’uomo, di civiltà diverse da un punto di vista sostanziale, ma simili da un punto di vista essenziale. In precedenza, abbiamo fatto riferimento alla Luce come elemento d’irradiazione di influenze spirituali, ma essa, in ambito divino o umano, promana da un Centro, dal Sole, come sorgente inesauribile di vita, seme di vita, luce delle terra, che in antiche ideografie esprimeva l’Uomo, ove, come nel corso annuale, come nel solve et coagula, vi è un processo di morte e di rinascita, di inverno e primavera; quindi, i ritmi annuali della Luce come legge universale di rinnovamento, il mito solare, presente in tutte le civiltà tradizionali, come espressione di un’ascesa verso il divino. A tal punto, incontriamo il numero simbolico da cui sono derivate tutte le nostre precedenti considerazioni e deriveranno le seguenti: esso è il 12, quante sono, appunto, le suddivisioni dell’anno solare. E’ fondamentale ricordare in merito come René Guénon ne Il Re del Mondo, riferendosi alla gerarchia iniziatica dell’Agarttha, abbia affermato, riprendendo la descrizione di Saint-Yves, che “il cerchio più alto e più vicino al centro misterioso si compone di dodici membri, che rappresentano l’iniziazione suprema e corrispondono, fra l’altro, alla zona zodiacale” e che, riferendosi tale descrizione al Centro Unico e Supremo, ovunque si manifestino certe caratteristiche, è possibile ravvisare la presenza di filiazioni più o meno dirette di tradizioni particolari dalla grande Tradizione Primordiale. Tale struttura iniziatica è possibile ritrovarla nelle più diverse forme tradizionali, nelle civiltà più lontane nel tempo e nello spazio. Considerando le tradizioni d’Oriente, possiamo notare come tale e importante similitudine si riscontri in maniera notevole. Nella tradizione indù vi sono i dodici Aditya (Dhàtri, Mitra, Aryaman, Rudra, Varuna, Sùrya, Bhaga, Vivaswat, Pùshan, Savitri, Twashtri, Vishnu), che sono altrettante forme del Sole, quale essenza unica ed indivisibile, che, alla fine del ciclo, appariranno tutti simultaneamente, reintegrandosi nel principio essenziale della loro emanazione; ai dodici soli, inoltre, nella medesima civiltà corrispondono le dodici partizioni delle Leggi di Manu. Il Consiglio Circolare del Dalai-Lama, nella tradizione tibetana, è costituito da dodici grandi Namshan, come dodici sarebbero i discepoli di Laotze nel Taoismo. Se, poi, consideriamo tradizioni più vicine a noi, notiamo che la gerarchia iniziatica dell’Agarttha si ritrova ovunque: nella tradizione ebraica dodici sono le porte della Gerusalemme Celeste, come dodici sono i discepoli del Cristo o gli eroi divini di Asen del Mitgard nella tradizione nordica. Il numero simbolico preso in considerazione si ritrova in miti raffiguranti un’ascesi guerriera, come nelle dodici battaglie della via solare dell’eroe caldeo Gilgamesh, “di là dalle acque della morte” o nelle dodici fatiche compiute da Eracle. Tale concordanza la ritroviamo fin nel pieno della storia e dei racconti mitici del Medioevo: infatti, dodici erano i Conti palatini di Carlomagno, come dodici erano i cavalieri della Tavola Rotonda di Artù e della ricerca del Santo Graal. Se, poi, facciamo riferimento alla nostra tradizione, a quella greco-romana, la presenza del numero 12 è costante: tale era il numero delle divinità nell’Olimpo, degli avvoltoi che vide Romolo, che gli attribuirono il diritto di dare il suo nome alla città eterna; dodici erano il numero degli ancilia che Numa determinò nel collegio dei Salii per la custodia del pignus imperii; dodici furono a Roma gli altari del dio Giano, come dodici furono, secondo Varrone, le massime divinità romane e soprattutto dodici furono le verghe che costituirono l’emblema dell’universalità romana, il Fascio. Per inciso, ricordiamo anche come dodici fossero gli iniziati SS durante il rito dell’aria soffocante, praticato nel castello di Wewesburg, centro di formazione militar-spirituale tra le due guerre mondiali in Germania. Anche se tutti questi riferimenti possono apparire tediosi o ripetitivi, li reputiamo fondamentali per far comprendere che tutto ciò non può essere ricondotto ad una pura casualità, ma che tutto evidenzia chiaramente la presenza di una precisa ed originaria matrice tradizionale, che ha forgiato nel corso dei secoli le più diverse civiltà, ma sempre sotto le insegne divine della Tradizione. E’ importante, una volta analizzate tali corrispondenze, capire come il numero 12 rappresenti precisamente il piano cosmologico e il suo riferimento zodiacale ne è la riprova, e che la risoluzione di tale status ne è precisamente il superamento, cioè il ritorno allo stato primordiale di non-dualità, ove tutte le cose si ricongiungono nell’Unità che le ha emanate. A tal riguardo, è interessante notare come aggiungendo l’1 ed il 2 si ottiene il 3, cioè la forma trinitaria, la ricomposizione dell’Unità, la coincidentia oppositorum, il centro della croce ove si riassumono tutte le modalità d’esistenza del manifestato: ecco realizzarsi il senso di ciò che scrivevamo in precedenza sulla formula ermetica solve et coagula! Si ricordi, inoltre, come il numero 12 sia assimilabile alla Terra ed il numero 10 al Cielo, in rapporto con la Luna-yin ed il Sole-yang. Ciò dimostra come nel caso del 10, la via del Cielo, l’Unità vi è già presente (1+0=1), mentre nel 12, numero del Cosmo, tale non-dualità devesi “operare” (1+2=3…1). A questo punto, è necessario andare oltre nel nostro approfondimento concentrandosi su ciò che potremmo definire “l’unità ritrovata”, che ovviamente – riteniamo sia superfluo specificarlo – ha una valenza sia macrocosmica, quanto microcosmica. Per far ciò, dobbiamo riferirci ad un altro numero simbolico, che per i più è indice di cattiva sorte, ma che, grazie alle indicazioni di Julius Evola, nell’ambito degli studi tradizionali ha ritrovato il suo reale significato: ci riferiamo al numero 13. Se abbiamo specificato che il numero 12 segnala la presenza di un centro iniziatico tradizionale, che rappresenta i ritmi del corso annuale, della manifestazione, del Cosmo, abbiamo anche detto che tutto la molteplicità deve ricondursi ad una non-dualità originaria, ad un Centro che vivifica tutti gli esseri di un collegio sacerdotale, di una cerchia guerriera, come quella della Tavola Rotonda, di tutta la creazione, Artù, il Cristo, come Sole Spirituale, che tutta illumina ed unisce…il Tredicesimo! Tale è il posto che viene definito “pericoloso”, perché riservato solo a chi è qualificato ontologicamente a risiedervi, a colui che ha riscoperto l’ineffabilità del Silenzio, colui che, facendo giustizia dentro di sé, ha potuto vincere il Guardiano della Soglia e attraversare la porta stretta, la janua-coeli riservata agli eroi che hanno conquistato l’eterno presente, impresso nel terzo occhio di Shiva e splendente nel terzo volto di Giano…ora visibile! Guai a chi non degno voglia titanicamente appropriarsi del potere, sarà colpito dalle peggiori sventure, la folgore di Juppiter lo punirà irrimediabilmente. Il posto “pericoloso”, il tredicesimo è riservato a Parsifal, eroe del Graal, a sir Gawain, ad Indra giustiziere del mostro Vtra, al misterioso Dux e Veltro di Dante. Ecco esplicitata la valenza nefasta che nel mondo moderno ha tale numero simbolico, essendo oramai l’uomo dei nostri tempi, lontano dalla Tradizione, non più in grado di vincere la sfida per la conquista del posto “pericoloso”, inebetito dalla satanica normalità del progresso. Sono fondamentali certe considerazioni, anche per ben valutare la reale azione contro-iniziatica di certe pratiche neospiritualiste o di certe aggregazioni paramassoniche, che scimmiottano solamente un veritiero processo di ascensione al divino ed oramai inaccessibili centri iniziatici tradizionali. La nostra disquisizione numerologica e solare ha un duplice scopo, principalmente dottrinale, ma anche d’informazione preventiva. Quanto detto sul Tredicesimo, sul posto “pericoloso”, deve metterci in guarda contro le avventure ammaliatrici del panteismo moderno, sia per l’assenza in tutte le organizzazione pseudo-iniziatiche di quel Centro che le conferisce “l’eterna attualità tradizionale”e, quindi, il crisma della Verità, sia per la pericolosità insita nelle diffuse pratiche sincretiche d’oggi giorno, ove si mescola allo yoga un po’ di celtismo o un po’ di ufologia, o altre insalate teosofiche, medianiche o New Age, in cui, invece, di rigenerarsi nel mondo dei Ritmi ed aspirare al Silenzio, si sprofonda terribilmente nel mondo delle Forme. A tal punto, si può facilmente intuire il perché tale numero abbiamo assunto una valenza prettamente negativa, nonostante la sua origine solare e divina: tale è il processo di una tradizione quando perde il cardine della propria esistenza, la sua essenza vitale; diviene un substrato inconscio di credenze volgarizzate, che il folklore, la credenza popolare mantiene in vita come meri fantocci, come composti psichici ormai svuotati della propria scintilla vitalizzante. Concludiamo la nostra esposizione con la speranza di aver offerto ai lettori di questa rivista un’altra accurata analisi dell’aspetto numerologico e solare nelle diverse forme tradizionali, affinchè possano essere spunti di riflessione e introspezione personale:”L’essenza delle cose, che è eterna, e la stessa natura, ammettono sì la conoscenza divina, ma non l’umana oltre questo punto: che non potrebbe alcuno degli enti venir conosciuto da noi, se non esistessero le essenze delle cose, da cui consta l’universo, sia delle limitate sia delle illimitate”(Filolao, fr.16).
Il Neoplatonismo e le sue origini
Il neoplatonismo nasce e si manifesta sulla base dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina e dell’evoluzione dello stoicismo romano dell’ultima stoa, che si caratterizzò in un sempre minore interesse verso i problemi di natura logica e gnoseologica. Mentre a Roma lo stoicismo si evolveva nel modo su descritto, in Alessandria si sviluppavano filosofie di carattere marcatamente spirituale, mistico e religioso. Così la speculazione sui temi riguardanti, ad esempio, la teoria del “fuoco universale”, di cui una scintilla sarebbe presente in ciascun essere umano, si trasferì da una concezione fisica ad una essenzialmente metafisica e panteistica, per sfociare definitivamente in una visione ascetica e introspettiva. L’uomo, pertanto, poteva conquistare la sua vera libertà nel momento in cui fosse riuscito a liberarsi da ogni interesse di carattere materialistico ed esteriore e a rivolgersi verso la propria interiorità dove, solo, avrebbe ritrovato la divinità presente in lui. Uno dei principali tentativi fu quello di unificare e di fondere l’insieme delle antiche sapienze greche ed egizie. Si cercò di conciliare e di trovare una estrema sintesi tra il platonismo, il neopitagorismo, la magia babilonese, la religione ebraica, fino al misticismo indiano. Di questo possiamo trovare significative testimonianze nei libri degli Oracoli caldei attribuiti ad Ermete Trismegisto e comparsi tra il I e il III secolo dopo Cristo, nelle opere di Apuleio da Madaura (Madaura 125-170) e negli scritti del “platonico” Numenio da Apamea (Apamea II secolo d. C.) a cui si attribuisce la seguente asserzione: “Occorrerà che chi si è espresso con le testimonianze di Platone, risalga e si ricolleghi ai detti di Pitagora, faccia appello ai popoli che salirono in fama, allegandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono giudei, brahmani, magi ed egizi”. Una vasta sintesi, pertanto, che avrebbe influenzato tutto il corso del pensiero cristiano e, per tramite di questo, anche quello del pensiero moderno. Il Neoplatonismo, dunque, recupera l’antica tradizione arcaica ripercorrendo le orme dei grandi filosofi greci. Per il greco Eraclito, (Efeso 540-480 a C.) la prima condizione per giungere alla conoscenza è che l’uomo “indaghi se stesso” che guardi dentro di sé e nel proprio infinito mondo interiore: “Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda la sua ragione”. La seconda condizione è la comunicazione fra gli uomini: ciò che accomuna gli uni agli altri e, nello stesso tempo, costituisce la più intima essenza dell’uomo, è il “logos”, il pensiero. Il logos rappresenta il filo comune che unisce gli uomini “desti”, aperti alla comunicazione tramite la ricerca; la stessa che determina l’indole dell’uomo (ethos) e, di conseguenza, il proprio destino. Il cercare assume un doppio significato nel suo volgere verso la conoscenza, in quanto non ha solamente valore contemplativo (noesis), ma diviene anche saggezza di vita e di comportamento (fronesis). Anassimandro (Mileto circa 610-547 a.C) si pone per primo il problema di cercare una risposta sul modo in cui avvenga il processo di derivazione dall’origine e lo indica nella “separazione”. Essa si realizza nella nascita, la quale attuandosi implica la separazione dall’essere originario. E’ dunque una rottura dell’unità e della armonia, dalla quale si separano gli opposti che in essa si compongono: caldo e freddo, secco e umido, finito e infinito, ecc.. Questa separazione, o nascita, secondo Anassimandro è dovuta ad una colpa che consiste nell’atto stesso, inteso come rottura dall’unità e che solo con la pena del vivere potrà essere espiata, per concludersi infine con la morte ed il conseguente ritorno all’unità. Ma il ritorno al principio creatore è opposizione, lotta, discordia, bisogno di ricongiungere il dissonante all’armonico, il discorde al concorde, l’incompleto al completo, poiché solamente dalla riunificazione degli opposti scaturisce l’unità, mentre da essa scaturiscono gli opposti. Il neoplatonismo venne fondato da Ammonio Sacca (175-242 d.C.), ma il principale e maggiore esponente fu il suo allievo Plotino, nato in Egitto, a Licopoli nel 205 e morto a Minturno, in Campania, nel 270. Plotino ebbe anche modo, in occasione di una spedizione romana in Persia avvenuta intorno al 244, di conoscere le dottrine dei maestri sapienti indiani, rimanendone profondamente influenzato. Il rigore morale, la profondità e l’ansia religiosa di questo filosofo cosiddetto pagano, nulla hanno da invidiare al Cristianesimo che, anzi, ne riconobbe il valore della tensione ascetica avvalendosi della sua speculazione. Il pensiero di Plotino è stato tramandato tramite una raccolta di trattati, riordinati dal suo discepolo Porfirio in cinquantaquattro libri suddivisi in sei gruppi di nove saggi dal titolo Enneadi (da “ennéa”, che in greco significa nove). Il significato di Enneade nell’antico Egitto subirà una metamorfosi fino a rappresentare una persona divina le cui membra conserveranno ognuna un’esistenza distinta, formando, al contempo, nove persone in una. Porfirio ordinò i trattati seguendo uno schema ascensionale che parte dalle realtà inferiori in senso ontologico (etica ed estetica), le realtà mondane e la vita terrena (fisica e cosmologia), passa per i livelli metafisici come la provvidenza, gli elementi demoniaci, l’anima e le facoltà psichiche (psicologia), il puro livello intellettivo (metafisica), la realtà divina suprema (logica e teoria della conoscenza) fino a giungere all’l’Uno, origine e meta finale di tutto l’essere. Il suo stile letterario, oltre a mostrare una grande sensibilità verso i miti e la religiosità degli antichi, talvolta è espresso per immagini, per allegorie o per simboli. Questo tipo di tecnica era finalizzata a favorire la comprensione dei contenuti letterari più difficoltosi. La lettura dell’opera, complicata e impegnativa nel contenuto ed ermetica nella esposizione, presuppone una notevole concentrazione e la conoscenza delle filosofie antiche e della mitologia. Al centro della dottrina neoplatonica traspare un progetto di ricostruzione dell’uomo, di natura prevalentemente spirituale e religiosa, che vuole stabilirne il ruolo e con esso il determinarsi del rapporto con il mondo e con il divino. Significa, peraltro, definire la propria collocazione al cospetto del cosmo, divenendo un rapporto agente in una posizione intermedia tra il mondo materiale e la perfezione divina. In altri termini l’uomo, riprendendo l’antica tradizione greca ed ermetica, può stabilire la propria identità, ovvero la propria esistenza, ponendosi in rapporto tra ciò che è “fuori da sé” e ciò che è “dentro di sé”, divenendo egli stesso un rapporto agente nell’ambito di tali rapporti. Stabilire la propria collocazione rispetto al cosmo significa determinare anche il proprio ambito di libertà e di responsabilità nella ricerca e nella conoscenza. In questo modo, nella filosofia di Plotino, ritorna centrale e dominante il concetto di coscienza, che già si era affacciato nella speculazione degli stoici, per indicarla come introspezione o auscultazione interiore. Egli adopera espressioni come: “ritorno a se stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé” e contrappone questo tipico atteggiamento del saggio a chi invece, nella condotta della propria vita, si rivolge alle cose esterne e materiali. Nel ruolo di mediazione che attribuisce all’uomo, egli riprende il tema dell’unità che fu di Anassimandro e che considera essenziale al vivere, definendolo con il termine di Uno, concepito come infinito. In polemica con il Cristianesimo Plotino afferma che l’Uno, in quanto infinito, è ineffabile e di lui si può dire soltanto ciò che non è, ovvero a lui non si addice alcuna qualità o determinazione. Dio è al di là dell’essere, della sostanza e della mente, così da essere trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e contenendole tutte in sé. Questo tipo di concezione di fronte alla ineffabilità e assoluta trascendenza del divino è definito teologia negativa. In linea con tutta la tradizione greca, Plotino difende il politeismo come conseguenza necessaria della infinita potenza della divinità: «Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa». Ancora in polemica con il Cristianesimo e come conseguenza di queste tesi, Plotino affronta e risolve il problema della creazione e del processo di derivazione del molteplice dalla semplicità dell’Uno indicandolo come emanazione. Il mondo e tutto il molteplice sgorga da Dio attraverso un processo degradante che avviene per stadi, simile alla luce che si spande dal sole o al calore irradiato da un corpo caldo. Per cui da Dio, che rimane Uno e immutabile, discendono i molti da cui derivano i gradi successivi di realtà, ognuno emanato dal precedente. L’emanatismo ammette una gerarchia degli esseri in relazione alla lontananza da Dio, che si traduce in un progressivo degrado e perdita della perfezione. Ogni stadio del processo emanativo è detto ipostasi. L’Uno è la prima ipostasi, totalmente trascendente e superiore anche all’”essere” di Parmenide (Elea 515-450 a. C.) in quanto il concetto di essere deriva dagli oggetti dialogici dell’esperienza umana. La seconda ipostasi è il nous (l’essere parmenideo) o intelletto puro. Il termine nous è il termine con cui Plotino indica piena “identità indivisa di soggetto e oggetto”, dove non sussiste alcun dualismo, in quanto è auto-contemplazione dell’Uno, un traboccare estatico: estasi significa “uscire fuori da sé”. Il significato greco di noesis è infatti auto-intuizione o autocoscienza. Dal nous, o intelletto, promana l’anima del mondo, che procede dall’autocontemplazione dell’intelletto, ma in questo caso è una unione tra essere e pensiero mediata dal nous, che rende possibile il ragionamento discorsivo-dialettico e che da origine a sua volta all’anima umana e animale e, infine, alla materia. Quest’ultima non viene considerata una vera e propria ipostasi, ma un semplice “non essere”, indicato come il luogo estremo della discesa e delle illusioni sensibili e concepito da Plotino come privazione di realtà e di bene. La materia è all’estremo inferiore della scala alla cui sommità c’è Dio. Essa è l’oscurità che comincia là dove termina la luce, quindi diviene non-essere e male. L’uomo partecipa del mondo sensibile nella corporeità e di quello intellegibile con l’anima. Lo scopo dell’esistenza umana è per Plotino quello di tendere a cogliere l’intuizione del nous, tramite la rinuncia al mondo materiale e corporeo e, grazie ad una pratica purificatrice colta col pensiero, al raggiungimento della unione estatica con Dio. Il ritorno a Dio è un processo di crescita spirituale dell’uomo, che ripercorrendo in senso inverso il cammino delle emanazioni, si eleva fino alla divinità. Le tappe per questo percorso ascetico sono: il rispetto dei dovei sociali e delle virtù civili, tramite le quali l’anima si rende indipendente dal corpo (morigeratezza, rinuncia); la contemplazione della bellezza, la pratica e il godimento dell’arte; l’amore; l’amore per la sapienza e la pratica della filosofia; il superamento finale di ogni dimensione razionale nel raggiungimento dell’estasi. Le parole che seguono, rendono evidente il ruolo di tensione mediatica e di libertà che Plotino assegna all’uomo durante la sua esistenza: “Noi diciamo di patire quando il nostro corpo patisce. Il noi designa dunque due cose: o la bestia aggiunta all’anima o ciò che è sopra la bestia: la bestia è il corpo vivente. Ben diverso è l’uomo vero e puro da queste passioni bestiali, possessore delle virtù intellettuali che risiedono nell’anima stessa separata: difatti anche quaggiù essa può separarsi dal corpo, perché quando lo abbandona del tutto quella vita, che da essa irraggia, se ne va con l’anima e l’accompagna [...] L’uomo è un composto di anima e di corpo: egli può appiattirsi sulla dimensione del corpo o elevarsi a quella dell’anima. L’anima e il corpo diventano così due modi di essere: il primo ci rende liberi, il secondo ci accomuna alle bestie [...] Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria, questo è il consiglio vero che vorremmo raccomandare [...] La nostra patria, da cui siamo venuti, è lassù, dove è il nostro Padre. Ma che viaggio è, che fuga è? Non è un viaggio da compiere con i piedi, che sulla terra ci portano per ogni dove, da una regione all’altra; né devi approntare un carro o un qualche naviglio, ma devi lasciar perdere tutte queste cose e non guardare. Come chiudendo gli occhi, invece, dovrai cambiare il tuo modo di vedere con un’altro, risvegliare la vista che tutti possiedono, ma pochi usano [...] Cercate di congiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo”. Fra tutte le creature viventi, l’uomo è l’unico ad essere dotato della libertà di autodeterminarsi, capace di invertire la necessità della dispersione, volgendo lo sguardo alla contemplazione dell’intellegibile, mediante la risalita o conversione (epistrofé). La condizione affinché questo avvenga è il “sentire”, inteso come “intuire” l’esigenza del ritorno all’unità, che è prerogativa del sapiente, ovvero di colui che “conosce” la meta da raggiungere.
Sandro Secci
Riferimenti bibliografici:
Plotino Enneadi, Rusconi Milano 1992;
Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, antichità e medioevo, Garzanti Milano 1970;
N. Abbagnano, Il pensiero greco e cristiano dai presocratici alla scuola di Chartres, Gruppo Ed. l’Espresso Roma 2005;
I 72 nomi di Dio nella tradizione della Kabbalah
I 72 nomi di Dio nella tradizione cabalistica rappresentano differenti aspetti delle qualità del Creatore. Essi costituiscono un esempio di verità codificata in un testo sacro e sono un insieme di 72 serie di tre lettere ciascuna dell’alfabeto ebraico che, con metodo cabalistico, furono estratti dai tre versetti consecutivi dell’Esodo 14, 19-21 per descrivere l’aprirsi del Mar Rosso e la fine della schiavitù del popolo eletto: 19] L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. 20] Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello di Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante tutta la notte. 21] Allora Mosè stese la mano sul mare e il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’Oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero.
Da questi tre versetti la cabala fa derivare i 72 nomi di Dio, ognuno dei quali è formato da tre lettere, una per verso attraverso la seguente costruzione logica: si prende la prima lettera del primo verso, l’ultima del secondo e la prima del terzo e si forma il primo nome. Poi si prende la seconda lettera del primo, la penultima del secondo e la seconda lettera del terzo verso e si forma il secondo nome, similmente si procede per tutti gli altri nomi, completando la sequenza.
Essi sono uno strumento potente utilizzato per aiutare gli israeliti a liberarsi dal giogo degli egiziani e destinato all’umanità intera per avere il controllo sul mondo fisico, plasmare la materia e sconfiggere l’ego. Insomma, costituiscono una potente tecnologia per l’anima, per mutuare il sottotitolo del best seller di Yehuda Berg “La Kabbalah e i 72 Nomi di Dio”.
I cabalisti sono in grado di utilizzare le 72 triadi, ognuna delle quali è considerata un nome di Dio e, attraverso i principi della Ghematria, si possono stabilire le correlazioni possibili tra le varie parti, per ottenere una autentica trasformazione spirituale. Essi si presentano come una sequenza di vibrazioni che trasmettono informazioni o attributi e servono ai cabalisti per accedere a stati di coscienza spirituale allargata e ad esperienze mistiche singolari, perché agiscono e penetrano nel profondo dell’anima umana.
Ogni nome sacro è composto da svariate combinazioni di lettere dell’alfabeto ebraico e trasmette specifiche combinazioni di Potenza divina, Autorità, Santità e Attributi divini[1]. Rappresentano un veicolo particolare e potente che permette di connetterci all’infinita corrente spirituale che scorre attraverso la realtà[2].
Sono il più antico e più importante strumento che l’umanità abbia conosciuto, una sequenza sacra che esprime tutta la loro influenza quando vengono pronunciate, quantunque secondo Yehuda Berg “è sempre necessario un atto fisico per attivare le forze intangibili nel nostro mondo” e permettere a questa forza di permeare la nostra anima.
Non è possibile afferrare il significato profondo delle lettere in tutta la loro pienezza, occorre uno sforzo spirituale considerevole, per penetrare l’incomprensibile, per esprimere l’inesprimibile, per tradurre l’ineffabile e trovare la chiave che apra le porte inaccessibili della divinità, che ci metta in contatto con la Totalità, con Dio.
Il Pensiero Supremo è al di sopra di ogni cosa ed è inaccessibile e “La gloria del Santo, che sia benedetto, è così elevata sopra l’intelletto umano da restare eternamente segreta. Da quando il mondo è stato creato, non vi è mai stato un uomo che abbia potuto penetrare il fondo della sua saggezza, tanto essa è nascosta e misteriosa” (Zohar, I, 103 a).
Dio, En-Sof, letteralmente “colui che non ha fine” che presiede ogni cosa e si manifesta dappertutto è perfezione assoluta e si svela nelle dieci Sefiroth che includono l’archetipo di ogni cosa creata al di fuori del mondo delle emozioni e delle sensazioni. Anche l’antico testo dello Zohar afferma che l’Essere Supremo è “La Volontà dell’Infinito, la Volontà che regge tutti i mondi in alto e in basso, la Volontà percettibile solo per l’atto che la segue, la Volontà che è destinata a regnare in basso come in alto affinché l’unione del Tutto con la Volontà sia perfetta” (Zohar, I, 45 b) e la cui essenza non può cogliersi semplicemente attraverso i sensi e la mente razionale.
La cabala ci aiuta a capire e a cogliere proprio la dimensione dell’En-Sof e con “il suo slancio prodigioso sembra non arrestarsi davanti ad alcun ostacolo. Con un sol colpo abbraccia l’universo e cerca di farci toccare con mano la natura intrinseca”[3]. Dio è in tutte le cose, è l’Essere Supremo, la Causa Prima (zimzum ha-rishon), generatrice di tutto ciò che esiste che si è in qualche modo ritirato dalla sua propria natura per un atto spontaneo di libera volontà e di amore incondizionato nei confronti della creazione increata.
YHVH, il Tetragrammaton (dal greco “quattro lettere”) è considerato il nome più grande di Dio, dal quale derivano tutti gli altri, il quale non deve essere mai pronunciato e al suo posto viene letto “Adonai”. Ciascuna lettera del tetragramma YHVH ha un valore numerico: questi numeri sommati danno 72.
Quindi, 72 sono gli attributi di Dio; 72 gli Angeli che circondano il suo trono; 72 le lingue secondo il numero delle famiglie presenti in seguito alla confusione della torre di Babele; Gesù Cristo aveva scelto, oltre i dodici apostoli, 72 discepoli, che furono inviati in tutte le parti del mondo per comunicare ai popoli la parola di Dio (Lc 10,1); secondo lo Zohar gli scalini della scala di Giacobbe erano in numero di 72. Nella tradizione biblica, nello Zohar, così come in altri testi sacri dell’antichità ricorre spesso questo numero e ci indica che la strada del cambiamento spirituale non solo è possibile ma altresì doverosa da percorrere.
Si possono compiere prodigiose azioni e operare grandi cambiamenti solo se pronunceremo questi nomi e vivremo secondo le leggi e la volontà di Dio, ottenendo i favori del Divino, protezione spirituale e purificazione interiore.
Secondo i cabalisti, Ein-Sof si rivela attraverso dieci aspetti, attributi od emanazioni dell’essere di Dio, le sefiroth (dall’ebreo sappir). “Ogni parte di Dio ha un nome specifico con una vibrazione specifica, alla quale possiamo accedere attraverso il ‘computer’ universale della Mente di Dio. Ogni sefirah è un modo diverso di percepire e ricevere Dio”.[4]
Attraverso questo potere spirituale si può rafforzare il mondo divino ed aiutare l’umanità intera a ricreare l’originaria armonia dell’Adam Kadmon che contiene in sé tutte le anime possibili. Ogni anima, infatti, è una grande scintilla della grande anima di Adamo.
Utilizzare i Nomi di Dio è l’essenza di ogni cammino spirituale degno di definirsi tale, è il mezzo che ci permette di ritrovare la nostra natura archetipa, l’Adamo Primordiale, l’Adam Kadmon che ci consente di eguagliarci alle qualità del Creatore perché “come l’armonia del nostro mondo dipende dal sostegno divino, così l’armonia del mondo divino dipende dal nostro sostegno”[5].
Domenico Annunziato Modaffari
I SETTE PECCATI CAPITALI ALLA LUCE DEL SIMBOLISMO DEL NUMERO
Nella serie dei numeri a cifra unica ve ne sono due che si distinguono dagli altri dal momento che hanno un significato essenzialmente Divino, stiamo parlando dell’uno e del sette; tra di loro, come tra l’alfa e l’omega, si dipana l’intera rappresentazione dell’esistenza. Uno è il Creatore; due sta a significare lo Spirito,[1] tre il Cielo,[2] quattro la terra e cinque l’uomo, la cui collocazione è quella di quintessenza al centro dei quattro elementi, dei quattro punti cardinali dell’orientamento, e delle quattro stagioni dell’anno, che caratterizzano la condizione terrestre. Tuttavia l’uomo non può realizzare la sua funzione di mediatore tra Cielo e terra senza la dimensione trascendente di profondità ed altezza, l’asse verticale che passa attraverso il centro di tutti i gradi di esistenza e che altro non è che l’Albero della Vita. Tale dimensione sovrumana è implicita nel punto centrale della quintessenza ma non diventa esplicita sino a quando non viene trasceso il numero cinque. E’ attraverso il sei che il centro diviene l’asse, che il seme diviene albero, ed il sei è il numero dell’uomo primordiale nello stato in cui fu creato il sesto giorno. Quale mediatore universale,[3] egli abbraccia, con le sue sei direzioni, l’intera esistenza, peraltro al di là del sei v’è ciò da cui proviene e a cui ritorna l’esistenza. E Dio benedì il settimo giorno, e lo santificò: poiché in esso Lui s’era riposato di tutto il suo lavoro (Genesi II: 3).
Sette sta quindi a significare il riposo nel Centro Divino. Da questo punto di vista è simbolo della Assoluta Finalità e della Perfezione, presente in questo mondo come Sigillo Divino posto sulle cose terrene, come nel numero dei giorni della settimana, i pianeti, i sacramenti della chiesa, e molti altri settenari, la cui menzione ci porterebbe troppo lontano dal nostro argomento. Tuttavia, nonostante queste considerazioni – o piuttosto proprio grazie a queste – c’è, come vedremo, una ragione profonda nel fatto che i peccati capitali debbano essere nel numero di sette.
Alla ricerca della chiave di tale paradosso, la prima cosa da riportare a mente è la fondamentale continuità che esiste tra l’uomo Edenico e l’uomo decaduto. Al tempo della Caduta non ci fu nuova creazione; virtualmente l’uomo è ancora un essere centrale. Se non lo fosse, la sua anima non proverebbe alcuna nostalgia, e la primordiale perfezione umana, invece d’esser una norma ed un ideale, risulterebbe irraggiungibile, considerata come un qualcosa d’estraneo. Tuttavia egli in realtà non è mai stato soppiantato, di qui la dottrina del peccato originale, che in se stessa è un’affermazione della continuità di cui stiamo parlando. Inoltre, la dottrina del peccato implica anche una dottrina d’espiazione: nella misura in cui parliamo di torpore e perversione dell’anima, e non di irrimediabile perdizione, ebbene ci può essere risveglio e reintegrazione.
Tale reversibile continuità tra norma primaria e fatto presente significa che per quanto certe forze dell’anima possano essere ora inclini alla colpa, originariamente erano innocenti. Dobbiamo anche tener presente in tale connessione, l’assioma corruptio optimi pessima, il migliore quando è corrotto diviene il peggiore; e se ci si chiedesse ‘Cosa s’intende per peggiore?’ potremmo rispondere, in relazione all’anima umana, che si tratta de ‘ I sette peccati capitali’.
Comunque, questi peccati possono essere presi come punti di riferimento[4] per ciò che riguarda tutto quel che c’è di più maligno; e le tre parole sette peccati capitali in un certo senso si adattano alla corruptio ottimi pessima, dal momento che il numero sette svela la misteriosa presenza d’un optimum nel contesto di pessima corruptio del peccato capitale. Sta qui anche la soluzione al paradosso della corrispondenza dei peccati capitali coi pianeti, incluse le stelle.
Analizzandoli nel loro tradizionale ordine, la superbia (superbia) è in relazione al Sole, l’avarizia (avaritia) a Saturno, la lussuria (luxuria) a Venere, l’invidia (invidia) a Mercurio, la gola (gula) a Giove, l’ira (ira) a Marte, e l’accidia (accidia) alla Luna. Sarebbe tuttavia erroneo, e persino sacrilego, fraintendere tale modalità d’espressione ed affermare che i peccati sono in realtà rappresentati da questi corpi celesti, i nomi dei quali, in base a grado e luminosità contrassegnano niente di meno che le Sfere Celesti.
Tutto quel che si può dire è che i pianeti sono simboli delle ‘parti migliori’ dell’anima; e quando queste optima sono corrotte, rimangono ancora in relazione coi pianeti, dal momento che ancora continuano a portare il sigillo del sette. In altre parole, quelle forze o tendenze di natura psichica che sono diventate veicoli di peccato capitale erano state enumerate prima della Caduta, quando nell’anima avevano un posto analogo a quello dei pianeti nel firmamento.
Il sette può quindi essere considerato come un marchio usato da un pastore, che sta ad indicare, quando una pecora è smarrita, il gregge a cui appartiene di diritto ed a cui può essere riportata indietro. Nel considerare come sia possibile per la pecora sviarsi in tal modo, cominciamo con un fatto che riguarda uno dei peccati che è generalmente conosciuto, ma raramente ben soppesato, e che non è privo di connessioni con altri peccati. Una caratteristica comune a tutte le religioni è l’approccio all’ira intesa come profana rottura di equilibrio, accanto al concetto della santa ira – esemplificata nel Cristianesimo da Cristo che caccia i mercanti dal Tempio – in relazione a cui lo stesso peccato[5] appare quale parodia. In modo analogo, sebbene il termine santa avarizia non è usato, non si potrebbe forse affermare che un avaro sia una caricatura di un asceta ed in rari casi perfino un potenziale asceta? La tradizionale rappresentazione dell’avaro come un affamato, vestito di stracci, e che porta una borsa d’oro, avrebbe un significato completamente diverso se l’oro lo si intendesse in modo simbolico e non letterale.
Sono state riportate testimonianze riguardo ad alcuni avari capaci di sopportare quelle che sarebbero definite, nel caso d’un santo, come ‘eroiche rinunce’. Ma visto che gli atti s’accompagnano alle intenzioni,[6] le due ‘indigenze’ sono così lontane tra di loro, come l’inferno e il paradiso. Tuttavia – dal momento che per Dio ogni cosa è possibile - se un grande Maestro spirituale dovesse prendere un avaro e fare di lui un Santo, l’avarizia, sebbene necessariamente rigettata non dovrebbe essere sottoposta ad un rifiuto assoluto;[7] tuttavia il termine ‘fare di lui’ è usato qui ponderatamente, poiché la tendenza in questione avrebbe bisogno d’essere completamente riorientata. Ragionando su binari paralleli, non si potrebbe, per esempio, dire qualcosa d’analogo sul peccato della lussuria? La passione, se allontanata dal mondo, può imprimere fretta all’anima nella giusta direzione.
In connessione con un altro peccato capitale, possiamo ricordare le parole del Decalogo: Io il Signore Dio tuo, sono un Dio geloso. Non che ‘geloso’, così com’è usato qui, sia sinonimo di ‘invidioso’, ma si può dire che i due termini abbiano una comune radice, ovvero il rifiuto d’accettare che un altro abbia, o riceva, qualcosa che si è convinti debba spettare soltanto a se stessi.
Potremmo dire che ogni studioso di metafisica condivide la gelosia Divina dal momento che è geloso di Dio, rifiutando che al relativo si lasci ricevere ciò che è appannaggio dell’Assoluto. E’ in tale ragionamento, inutile dirlo, e non nella sua peccaminosa parodia, che viene tirato in ballo Mercurio. Esotericamente la gelosia può essere trasportata ancora una volta dalla modalità oggettiva a quella soggettiva come rifiuto del permettere che l’ego empirico usurpi i diritti del vero Sé.
un livello meno accentuato possiamo anche ricordare che la parola invidia è spesso usata in un senso del tutto privo di biasimo, come nella frase: ‘Invidio quella tua natura calma’. Per fare un altro esempio, una tradizione islamica ci racconta d’un uomo che, essendosi svegliato tardi, arrivò alla moschea con l’intento di fare la preghiera mattutina, ma solo per incontrare sulla soglia gli uomini che uscivano. ‘Avete già fatto la preghiera?’ chiese al primo di questi; ed alla risposta affermativa, lanciò un tale lamento di rammarico che l’uomo da lui interrogato disse, ‘Prendi tu la mia preghiera, e lascia a me quel tuo lamento!’. Tale invidia spirituale ha il suo archetipo paradisiaco nella mutua meraviglia delle anime beate che ammirano ciascuna la perfezione dell’altra.[8]
Per quel che riguarda il peggiore peccato di tutti, è significativo che nell’Islam uno dei novantanove nomi Divini sia ‘il Superbo’. Il Corano usa esattamente la stessa parola per glorificare Dio come per condannare Faraone; e se Dio è Superbo, allora la superbia deve anche essere un aspetto della perfezione umana, fatta a Sua immagine. Ci troviamo di fronte ad una virtù ed a un vizio che portano lo stesso nome pur trovandosi ai poli opposti della possibilità umana; e la verità corruptio optimi pessima si erge come un ponte attraverso il golfo che sembra separarli. Rimane da vedere come sia possibile che tale ponte possa essere attraversato, sia con la corruzione che, per altro verso, col cammino di redenzione.
Per quel che riguarda la corruzione, potremmo trovare la risposta nel simbolismo di un altro numero tradizionalmente associato ai peccati capitali, ovvero il numero otto[9], dal momento che se il sette denota semplicemente il migliore, l’otto nella sua accezione positiva[10] denota l’esatto grado in cui questo particolare migliore, il migliore dei corruttibili, è inserito nella gerarchia universale. Nel suo articolo sul simbolismo dell’ottagono, René Guénon fa presente che nell’architettura sacra ogni struttura ottagonale serve da supporto ad una cupola, accentuando così la transizione dalle fondamenta quadrate alla sommità circolare, cioè, dal numero terrestre quattro a quello celeste nove.[11] In altre parole, l’otto denota la regione intermedia tra terra e Cielo, ovvero a livello microcosmico, tra corpo e Spirito; peraltro l’ottagono che sorregge la cupola è qui particolarmente rilevante quale simbolo della ‘parte migliore’ della sostanza psichica, quella parte che serve da veicolo per la luce spirituale, simbolizzata dalla cupola stessa. Questo ottagono ha in realtà un triplice simbolismo, dal momento che non solo è un supporto della cupola ma esprime anche, essendo immediatamente adiacente ad essa, la vicinanza al Cielo degli elementi psichici in questione, ed essendo quasi circolare nella forma, non esprime altro che la loro natura spirituale. Inoltre, otto è il numero dei venti, che hanno significato d’ispirazioni, ovvero di ricettività dei suddetti elementi. Ma appartenendo all’anima, e non allo Spirito, queste relative altezze sono per definizione corruttibili; e non soltanto il diavolo vi ha accesso ma è soprattutto qui che interviene,[12] dal momento che non può arrecare gran danno all’anima umana a meno che non riesca prima a pervertire uno o più dei suoi più elevati elementi, che altrimenti, continuando a svolgere la loro funzione intuitiva, rimarranno come vigili sentinelle, sempre pronte a suonare l’allarme. La tentazione originale di Satana non fu certo rivolta alle facoltà inferiori, bensì a quelle che costituiscono le tendenze dell’uomo verso l’altro mondo: le sue speranze d’immortalità, le sue aspirazioni per ciò che va al di là del transitorio. Ciò emerge chiaramente dal racconto Coranico della caduta: Allora Satana sussurrò dentro di lui[13] e disse: “O Adamo, vuoi che ti mostri l’albero dell’immortalità ed un regno che non tramonta mai?” (XX:120)
Citiamo anche il seguente commento relativo:
‘Tutta la sua capacità d’inganno attraverso i secoli[14] è sintetizzata nel suddetto verso; egli senza tregua promette di mostrare all’uomo l’Albero dell’Immortalità, riducendo gradualmente, con tale mezzo, le facoltà superiori e più centrali dell’anima a favore di quelle esteriori, in modo da lasciarle imprigionate proprio lì dove c’è attaccamento a quegli oggetti contraffatti, da lui forgiati e messi ben in vista. È proprio la presenza di quelle facoltà pervertite – sia nello scontento, per il fatto che non riescono mai a trovare vera soddisfazione, sia in fine per un certo stato di atrofia per cui non sono mai messe propriamente in uso – che causa tutto quel disordine e quella ostruzione nell’anima dell’uomo decaduto.’[15]
Scendendo nei particolari, si potrebbe dire che il peccato di gola è causato dalla erronea presenza – nella parte esterna o inferiore dell’anima, quella parte che sta vicina ai sensi – di un elemento psichico pervertito, il cui giusto posto sta sulla soglia del Paradiso e la cui funzione regolare è di rappresentare, per l’individuo in questione, ciò che potrebbe essere definito il senso dell’Infinito. Fedele alla sua natura, cerca ancora infinita soddisfazione, ma è condannato a fare ciò nel più limitato degli ambiti. Potremmo dire che una simile erronea presenza stia alla radice del già citato peccato di lussuria.
D’altra parte, i peccati statici o contrattivi dell’ozio e dell’avarizia possono essere ascritti ad un senso pervertito d’Eternità. L’uno è l’afflato di realizzare la pace eterna in un ambito provvidenzialmente concepito per essere in movimento e nella vicissitudine. L’altro è il tentativo di mantenere eternamente ciò che è, per propria natura, effimero; è anche la cecità di attribuire al ‘tesoro terreno’ quell’assoluto valore che appartiene solo al tesoro Celeste.
Eternità ed Infinità sono dimensioni dell’Assoluto, e potremmo dire che il senso travisato dell’Assoluto – in modo diretto, o anche attraverso una di queste dimensioni – sia alla radice di ogni peccato capitale. E’ il ‘riverbero’ dell’assoluto, che per quanto in modo remoto, può da solo provocare la mostruosità delle più o meno malsane esagerazioni in questione.
Il peccato d’ira presuppone come nell’avarizia, altrettanta mancanza di senso della proporzione, sebbene su di una modalità complessivamente diversa; potrebbe anche essere descritto come effetto ‘assoluto’ d’una causa relativa.
Tuttavia l’avarizia è la deificazione d’un oggetto materiale, mentre l’ira, come anche i peccati d’invidia e d’orgoglio, implica una certa deificazione dell’ego, la presunzione di possedere diritti che appartengono soltanto all’Assoluto, ovvero al Supremo Sé. Comunque, alla sommità dell’anima del Santo ci sono necessariamente elementi di sublime ‘tuono e lampo’, proprio come ci sono necessariamente elementi che si può dire appartengano alla gelosia divina, dal momento che ‘lesinano’, con cauto discernimento, l’attribuzione di qualsiasi valore assoluto ad ogni cosa, tranne che al Sé. In modo simile, avendo realizzato la risposta alla domanda ‘Chi sono?’,[16] il Santo non può non partecipare all’Orgoglio Divino, che si rifletterà nella parte più esterna dell’anima, non come peccato d’orgoglio, ma come virtù di dignità e talvolta persino di maestà.
La parte intuitiva della sostanza psichica, la parte attraverso cui si può dire che l’anima colga il senso dell’Assoluto, dell’Infinito e dell’Eterno, può essere pienamente operativa soltanto se tutti i suoi elementi si trovino al posto giusto. L’anima del Santo è in perfetto ordine ed armonia; le anime decadute si trovano in uno stato di disordine che varia in modo incalcolabile da individuo a individuo. Ovviamente s’intende che parte della sostanza più elevata debba rimanere relativamente in uno stato non decaduto. Altrimenti non ci sarebbe alcun anelito per l’aldilà, e all’individuo in questione non riuscirebbe mai d’essere iniziato al cammino spirituale. Ma per quel che riguarda quegli elementi più elevati che sono disgregati e decaduti, finché non smetteranno di vivere al di sotto di loro stessi, cioè fin quando non abbandoneranno quei posti che hanno impropriamente occupato alla periferia dell’anima, ebbene lì continueranno a causare perversione o ostruzione a seconda che siano virulenti o intorpidenti.
In connessione col diffuso torpore degli elementi psichici, è particolarmente paradossale il fatto che la nozione di sincerità – o piuttosto la semplice parola, poiché raramente esprime qualcosa di più – debba apparire davvero grande nel compiacimento del ventesimo secolo, poiché la sincerità, che implica una vigilanza integrale, è proprio quel che manca all’uomo moderno. Le ormai trite parole ‘la sincerità è tutto quel che conta’ esprimono, se ben soppesate, una profonda verità; tuttavia, quasi ci si dimentica che la sincerità non può essere stabilita senza sapere riguardo a cosa si è sinceri. In altre parole, la qualità della reazione soggettiva è inestricabilmente dipendente dalla qualità dell’oggetto. Per fare qualche esempio pertinente, parlare di un ‘sincero umanista’ o di un ‘sincero comunista’ non è che una contraddizione in termini se poi la parola ‘sincero’ manca totalmente di senso d’impiego. L’entusiasmo, lo sappiamo tutti, non è a garanzia che il soggetto sia sincero. Questo secolo, specialmente la sua seconda metà, è stato testimone delle più grandi orge d’instancabile entusiasmo, ed essendo l’oggetto, mai come prima, di così infimo valore, l’entusiasta è ridotto ad una piccola frazione d’anima, una frazione che – in modo provvisorio, così ci si auspica – s’è dichiarata indipendente dalla ragione, dalla memoria, e da altre facoltà. Tali casi non sono poi così pericolosi di per sé, ma sono in modo allarmante sintomatici d’una diffusa disgregazione psichica.
Per tornare ai meno iperbolici ma più cronici, e quindi più pericolosi entusiasmi dell’umanista e del comunista, dobbiamo soltanto considerare ciò che è l’uomo, per accorgerci che né l’umanesimo né il comunismo hanno alcunché da offrire a quelle che sono le più alte aspirazioni dell’anima umana.
Se un tale entusiasmo è tuttavia in grado di fare presa sull’intera vita d’un certo individuo, ebbene può farlo soltanto senza l’assenso dei suoi elementi più elevati; e la presenza negativa di questi elementi nella sua anima, siano essi intorpiditi o atrofizzati, sta a sottolineare una virtuale divisione interiore che impedisce qualsiasi forma di sincerità. Si potrebbe obiettare che in alcuni casi tali elementi siano pervertiti senza essere intorpiditi e che l’anima pur essendo piuttosto caotica, sia nonostante ciò ‘tutta lì’, e quindi sia sincera; e non c’è dubbio, al riguardo dei due entusiasmi in questione, ch’essi siano capacissimi d’ottenere la loro formidabile spinta solo sviando, ad un grado elevato, i tesori latenti dell’anima di un fervore spirituale inoperoso e inutilizzato. Ma tali indebite sottrazioni non possono mai essere totali; la perversione è sempre frammentaria.
Nel suo significato più elevato, il fervore non è altro che la sete per l’Assoluto, per l’Infinito, per l’Eterno, e non ci possono essere misure comuni tra i veicoli psichici di tale fervore quando sono al loro posto, collocati alla sommità di un’anima normale, mentre soltanto una loro porzione s’è pervertita e s’è pericolosamente impantanata come parte d’un entusiasmo per qualche oggetto finito ed effimero.
Solo l’ortodossia religiosa nella sua interezza – ovvero fornita delle sue piene facoltà compresa la terza dimensione del misticismo – è abbastanza grande da conquistare l’intera sostanza psichica dell’uomo e coordinarla in una sincerità degna di questo nome. La Verità è Indivisibile Totalità e richiede all’uomo di diventare nient’altro che un tutt’uno indivisibile; inoltre è un criterio dell’ortodossia quello di rivendicare il diritto d’ogni elemento del nostro essere.
Tuttavia ci si chiede: come riesce il misticismo a determinare il contrario della corruptio optimi pessima, quel contrario che è espresso dalla pietra scartata dai costruttori ch’è divenuta testata d’angolo (Marco XII:10),[17] come anche da in Cielo ci sarà maggior gioia per un peccatore che si pente che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di pentirsi (Luca XV:7)?[18]
La prima fase dell’alchimia spirituale del pentimento è ‘la discesa agli Inferi’ così chiamata poiché in primo luogo è necessario penetrare nelle profondità dell’anima per recuperare coscienza di quel ‘peggio’ che attraverso il pentimento deve tornare ad essere il ‘meglio’. Ma deve essere compresa con chiarezza che tale discesa è del tutto diversa da qualsiasi esplorazione psicoanalitica del subconscio. La psicoanalisi moderna rientra nella casistica del cieco che guida un altro cieco; ed anche se la guida fosse meno cieca di colui che viene guidato, non si tratta d’altro che d’un anima che lavora su un’altra anima, senza l’aiuto d’alcuna forza trascendente. Ma in un cammino spirituale degno di tale nome, la guida è lo stesso Spirito, personificato nel Maestro, ed operativo nei riti che permettono l’avanzata del ‘viaggiatore’. Tuttavia la parola ‘discesa’ non deve trarci in inganno. Nell’epica dantesca, senza meno per motivi formali, Inferno e Purgatorio sono separati. Tuttavia, sebbene egli non riesca a rappresentare se stesso nella discesa verso l’abisso infernale in contemporanea all’ascesa della Montagna del Purgatorio, il processo di presa di coscienza della colpa e quello di purificazione sono in realtà, per molti versi simultanei; né potrebbe essere altrimenti.
Ciò che l’anima non è in grado di fare per se stessa o per un’altra anima, può essere realizzato dallo Spirito, la cui presenza, veicolata dai riti, richiede come ricettività la presenza dell’anima nella sua interezza. Gli elementi psichici pervertiti non possono fare a meno di manifestarsi, ma lo fanno malgrado loro, ed alcuni si presentano sotto forma d’ira, ancora avviluppati da forze infernali.
Da questo punto di vista è più giusto dire che l’Inferno salga più che il mistico discenda; ed il risultato di quella ascesa è una battaglia[19] di cui l’anima rappresenta il campo di battaglia. Ciò corrisponde a quella che nel Sufismo è chiamata la Grande Guerra Santa.[20] Quegli elementi che sono divenuti le possibilità più basse dell’anima devono essere liberati dalle forze dell’oscurità e costretti a rinunciare a quelle relatività che li tengono legati in modo eccessivo. È inutile dire, la guerra contro l’anima,[21] cioè contro i suoi mali interiori, non si vince facilmente. Ma se la parte fondamentale dell’anima è costante, e continua ad utilizzare quelle invincibili armi che lo Spirito le ha fornito, il nemico si arrenderà.
Una volta svuotati dei loro indegni contenuti e sgravati delle illusioni che li avevano resi ottusi ed inutilizzabili, gli elementi riscattati devono poi essere ben considerati nella loro vera natura. Si può dire che questa fase d’amore e di rimembranza segua quella della paura e della rinuncia, poiché il timore nei confronti del Signore è l’inizio della saggezza; ma anche qui c’è una sorta di simultaneità, nel fatto che l’amore è un fattore essenziale nell’alchimia della purificazione. Amore significa consapevolezza dei legami con l’Assoluto, ed è soprattutto tale consapevolezza che ha il potere di sciogliere i legami con la relatività. Si può dire che lo Spirito si rivolga agli elementi dell’anima decaduta esattamente con quello stesso messaggio che originariamente li aveva sedotti; ma questa volta il messaggio è vero, ed un messaggio vero è infinitamente più potente di uno falso: O Adamo, vuoi che ti mostri l’Albero dell’Immortalità ed un Regno che non tramonta mai? Agli elementi in questione, quelli che non furono concepiti che per il trascendente, ora viene soltanto chiesto di conformarsi alla propria natura, in modo che siano in grado di dimostrare quanto questa promessa di trascendenza, prima o poi, diventi irresistibile, di qui l’esaltazione da parte dei maestri spirituali di tutti i tempi e di tutte le religioni delle virtù della risolutezza, della perseveranza, della pazienza e della fiducia.
[1] Lo Spirito, nella dottrina dell’Islam, è la vetta e la sintesi di tutta la creazione, che s’apre all’Increato e quindi che possiede implicitamente, se non esplicitamente, l’Aspetto Increato che altro non è che la Terza Persona della Trinità Cristiana. Secondo quanto ci dice lo Sceicco al-‘Alawi, nel suo trattato sul simbolismo delle lettere dell’alfabeto, la lettera ba’, che ha valore numerico di due, è un simbolo dello Spirito. Si veda Un santo Sufi del XX° secolo (Mediterranee – 1994), capitolo 7.
[2] Ciò riguarda non solo il tre in se stesso, ma anche la sua potenza, ovvero tre per tre.
[3] In arabo la lettera waw ed in ebraico la lettera vav hanno entrambe il valore numerico di sei, e ciascuna ha valenza, nel proprio rispettivo linguaggio, di mediatrice linguistica, propriamente la congiunzione ‘e’.
[4] Questa riserva è forse necessaria poiché il settenario in questione sembra essere arbitrariamente incompleto, a meno che noi consideriamo gli specifici peccati per includerne implicitamente altri non esplicitamente menzionati ma che sono comunque strettamente affini. Prima di tutto, è bene ricordare che alcuni dei peggiori eccessi dell’uomo scaturiscono dalla partecipazione di due o più dei sette peccati. Per esempio, atti di terrificante crudeltà possono risultare dalla combinazione di peccato d’orgoglio, d’invidia, e d’ira, e ancora di più se questa triade narcisistica trovasse solide basi in un’avarizia così indurita da non lasciare spazio al benché minimo barlume di generosità.
[5] Inutile dire, ci sono molti gradi d’ira che stanno tra i due estremi; per esser più precisi, sebbene l’ira sia raramente santa, spesso è giusta e quindi spesso non è peccaminosa. Il peccato implica un eccesso di violenza sproporzionata alla causa, una più o meno completa perdita di controllo, e perciò di centralità, una momentanea sospensione di qualsiasi coscienza superiore; di contro la santa ira è come se fosse un flusso di coscienza superiore, una marea che dal centro straripa verso l’esterno.
[6] I detti del Profeta dell’Islam
[7] Ciò riporta alla mente la promessa Coranica a coloro che si pentono con sincerità: Dio cambierà i loro mali in beni, e Dio è Colui che tutto perdona, il Misericordioso (xxv: 70).
[8] Si veda sopra a pag. 55.
[9] La dottrina dei peccata capitalia può esser fatta risalire sin dai tempi di Serapione, vescovo di Thmuis presso il delta del Nilo a metà del IV° secolo. Avendo stabilito otto peccati capitali, ne conteggiò soltanto sette, e quando gli fu chiesto dell’ottavo, rispose che era la condizione elementare dell’anima sotto l’influsso del peccato, condizione simbolizzata dalla prigionia degli Israeliti in Egitto. Ora tale prigionia era uno stato intermedio tra due libertà, l’otto è infatti simbolo dell’intermedio o del transitorio, il che può essere negativo, come in questo particolare caso, ma può anche essere positivo, come peraltro neutrale.
[10] Per quel che riguarda ciò che da un certo punto di vista potrebbe essere considerato come aspetto negativo, l’otto ha un effetto ‘mortale’ sul ‘cinque’ (l’uomo), dal momento che il numero ottenuto dalla loro moltiplicazione è il quaranta, che in molte diverse tradizioni rappresenta il numero della morte. Inoltre, in astrologia, delle dodici case che costituiscono l’intero cerchio celeste, è l’ottava che sta a significare la morte; ed in tale connessione possiamo ricordare che l’ottavo segno dello zodiaco è lo Scorpione, il cui geroglifico, la lettera M con un segno terminale uncinato, è doppiamente simbolico della morte, per il motivo del pungiglione della coda e poiché la stessa lettera sta per mors. Ma la morte non è necessariamente negativa, e se la consideriamo come transizione da uno stato all’altro, il simbolismo ‘mortale’ dell’otto può essere incluso nel complessivo significato del numero, quale simbolo dell’intermedio, che è ciò che stiamo qui considerando. Si veda anche, in relazione a ciò, pag. 74, nota 1.
[11] Simboli fondamentali della scienza sacra (Adelphi – 1987), capitolo 44.
[12] Come, ad esempio, quando riesce a sviare Mosè e Giosuè ch’erano quasi sul punto di raggiungere le Acque della Vita.
[13] Il Corano qui rappresenta Satana che tenta Adamo, non attraverso Eva, ma in modo diretto, ed in altri passaggi si rivolge a loro quando stanno assieme.
[14] È privo d’ogni fondamento reale sostenere che nessuna singola anima possa essere ritenuta responsabile di ciò che è avvenuto ‘attraverso i secoli’ e che la sua responsabilità inizi solo con la sua nascita su questo mondo. Secondo le religioni più antiche, che possono ancora permettersi di insegnare, con obiettivo realismo, certe verità secondarie che le religioni più recenti hanno ben ritenuto di velare – senza dubbio per far sì che i propri fedeli meno qualificati non siano distratti dall’essenziale – il nostro mondo non è altro che uno d’una infinita sequenza di mondi, una periferica catena di morti e rinascite denominata dall’Induismo e dal Buddismo come samsara. Tutte le fedi sono d’accordo che la religione è l’unico mezzo per fuggire dalla periferia al centro; ma la dottrina del samsara afferma espressamente che quando un individuo entra in un mondo, la particolare eredità e l’ambiente in cui nasce in quel mondo, sono la risposta esatta a tutti i meriti conseguiti nel suo precedente stato, ovvero al suo karma. Si può dire che le religioni più recenti implichino ciò affermando che Dio è Giusto e che i bambini non nascono innocenti, di qui la dottrina del peccato originale. In altre parole, anche se Ebraismo, Cristianesimo, ed Islam non riconoscano esplicitamente precedenti stati di esistenza, la realtà li obbliga quantomeno a considerare ogni essere come se fosse venuto al mondo con un carico di colpe già addebitate. Si veda, in riferimento al samsara, Martin Lings, L’undicesima ora (Settimo Sigillo – 2003).
[15] Abu Bakr Siraj ad-Din, The Book of Certainty, capitolo 6 (Cambridge, 1991). Si veda anche ibidem, il capitolo 5 su tale punto.
[16] Il riferimento è alla questione metodologica che è alla base dell’insegnamento di Sri Ramana Maharshi.
[17] Si veda anche Matteo XXI:42 e Luca XX:17. Non viene propriamente espresso da queste parole nel loro senso più elevato, così come sono citate da Cristo e commentate da San Paolo, ma in un senso più relativo, riguardo ciò ch’è insito alla parabola del figliuol prodigo. Il loro originale contesto nei Salmi (CXIII:22) è direttamente, sebbene non in modo esclusivo, suggestivo di tale ulteriore interpretazione relativa:
Il Signore m’ha castigato duramente: ma non mi ha abbandonato alla morte
Aprimi i cancelli della rettitudine: io v’entrerò, e pregherò il Signore…
Ti pregherò: poiché Tu mi hai ascoltato, e sei venuto in mio soccorso.
La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta testata d’angolo.
[18] Questa ‘giustizia’ è esattamente analoga alla simmetria della maggioranza delle pietre. D’altro verso, la mancanza di simmetria per cui la chiave di volta fu rifiutata, considerandola deforme rispetto agli standard abituali, una volta che questa pietra ha assunto la sua giusta collocazione alla sommità del suo arco, appare come estensione di celestiale sopraformalità, peraltro nel simbolismo massonico, come vedremo, l’arco è uno dei simboli fondamentali del Cielo.
[19] Molto di quel che sta in questo paragrafo, ho avuto già modo di pubblicare altrove, con riferimento a Shakespeare. Non ci sono dubbi che in età matura egli fu profondamente conscio di quel che si sta considerando qui, ovvero dello sviluppo dell’anima verso l’umana perfezione, che presuppone la redenzione e l’integrazione di tutte quelle parti della sostanza psichica che si trovano fuori posto. In più d’una delle sue tarde opere teatrali ci viene mostrato l’improvviso destarsi degli elementi intorpiditi in un anima fin a quel momento inconsapevole della loro esistenza. Due dei personaggi in questione sono Angelo in Misura per misura e Leonte nel Racconto d’inverno. Si veda Il segreto di Shakespeare (Athanor – 1985).
[20] Si veda Muhammad: his life from the earliest sources (Inner Traditions – 1983).
Il Mito nella Cultura Tradizionale
“[...] queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.”
Salustio, Sugli dèi e il mondo, IV, 8
Nella storia della cultura non vi è assolutamente nulla di più affascinante e misterioso del mito. Esso sembrerebbe, apparentemente, destinato a restare un enigma insolubile; secondo alcune correnti di pensiero, una manifestazione del tutto inintelligibile della mente umana; lo si è infatti voluto etichettare a tutti i costi sotto la voce ‘irrazionale’, giacché si pretende che sia, per definizione, del tutto privo di logica. Secondo la vulgata evoluzionista o progressista, è soltanto l’espressione primitiva di un pensiero debole, ancora incapace di vera razionalità e comprensione, pertanto si esclude categoricamente che esso abbia mai effettivamente qualcosa da insegnarci, e, se mai invece dovessimo in qualche modo scorgervelo, si può star certi che tale insegnamento non valicherà mai gli angusti confini dell’umano. Si è detto e si dirà: “Gli dèi non hanno forse forma umana? E non sono fin troppo umane le loro personalità e loro vicende?”. Sì, apparentemente. In verità, vi è innanzitutto da dire che tutte le accennate concezioni del mito appartengono invariabilmente a punti di vista che sono nettamente estranei, e non solo per ragioni cronologiche od antropologiche, al contento originario in cui il mito stesso è sorto e si è tramandato. Tale contesto è indiscutibilmente quello del Sacro e, in particolare, della cultura misterica e sapienziale. Chiunque prescinda, volontariamente o involontariamente, da tale ineludibile presupposto, non potrà che effettuare un’operazione interpretativa scorretta e fallimentare a priori, se non proprio procedere ad una mistificazione pura e semplice. Quando si intende studiare obbiettivamente una cultura notevolmente differente dalla propria, è indispensabile accettarne i principî ed i valori fondanti, gli archetipi che la costituiscono e la animano; è assolutamente necessario, altresì, osservarla attraverso la visione complessiva del mondo che la caratterizza, e non secondo una concezione della realtà che non le appartiene minimamente. Il dovere dell’autentico ricercatore è quello di sforzarsi di comprendere il più possibile il particolare punto di vista della cultura studiata – che dev’essere assunto preliminarmente come base metodologica costante, e come garanzia dello stesso rigore scientifico della ricerca -, e non di criticarla o rappresentarla secondo un complesso di idee precostituite, derivate dal contesto culturale a cui appartiene esclusivamente il ricercatore stesso. Sarebbe come un tale che decidesse di imparare una lingua straniera totalmente diversa dalla propria, e pretendesse di analizzarla, o addirittura criticarla, come se questa dovesse possedere per forza la stessa grammatica, la stessa sonorità, o basarsi sullo stesso immaginario.
Il mito è sempre, universalmente legato ad una teologia e ad una cosmologia ben definite, e solo in strettissimo rapporto con esse possiede un’effettiva validità ed intelligibilità. Commettono quindi un errore madornale tutti coloro i quali lo considerano alla stregua della pura narrativa fantastica, e conseguentemente lo apprezzano solo in termini letterari, ossia per la grande vivacità immaginativa che esso dimostrerebbe. Troviamo quindi assolutamente sbalorditivo, anzi inconcepibile – e perciò fors’anche abbastanza sospetto -, che, facendo l’esempio specifico dei miti greci – altamente rappresentativi di quelli di ogni epoca e cultura, e come tali assunti d’ora innanzi -, nel tempo ci sia stata una caparbia ostinazione nel non voler in alcun modo tenere buon conto della loro interpretazione da parte degli spiriti più nobili dell’antica filosofia ellenica. Si è riusciti nella più che acrobatica manovra di aggiramento storico e culturale che si possa immaginare: evitare, nella maniera più gratuita ed incomprensibile, di fare diretto ricorso alle più grandi menti dell’antichità occidentale, le quali effettivamente si erano pronunciate – e nemmeno troppo concisamente – sia sul tema generale, e sia sull’interpretazione puntuale di vicende mitiche precise. Innanzitutto, qualcuno, tra coloro che solitamente affermano l’equazione mito = irrazionalità, dovrebbero spiegarci come mai, ad esempio, lo stesso Platone che sappiamo essere, oltre che sommo maestro di filosofia, un grande esperto di logica pura, matematica, geometria, fisica ed astronomia, non solo tramandò alcuni miti arcaici dell’Ellade, ma ne creò anche di suoi – se è effettivamente vero che ne fu lui stesso l’autore originario – per esprimere alcune sue dottrine. E come mai si ignora completamente Plutarco quando illustra, con la massima chiarezza e la sufficiente ampiezza di argomentazione, la genesi e le finalità autentiche dell’espressione mitica? E che dire, poi, di Plotino, o di Proclo, o di altri notevoli filosofi Platonici come Damascio, Olimpiodoro, Ermia di Alessandria o Salustio, che rivelarono esplicitamente il significato recondito di svariate narrazioni mitiche sorte dalla tradizione misterica legata al nome del leggendario Orfeo? Perché tutto questo antico e notevole patrimonio esegetico si trova seppellito nel silenzio quasi completo? Perché esso, invece, non si trova ad essere, come necessariamente dovrebbe, il nucleo centrale ed imprescindibile di qualunque serio studio sul mito ellenico? Sulla base di quale pretesa uno studioso dell’era moderna, per poter comprendere quella cultura arcaica – lontanissima da lui non solo in termini meramente cronologici, ma piuttosto filosofici e spirituali -, dovrebbe trovarsi in una posizione migliore di tutti questi sapienti, i quali, non solo erano contemporanei di un mondo di idee ancora vivente, ma avevano ancora a loro disposizione un enorme deposito di tradizioni orali e di testi – si pensi solo alla leggendaria biblioteca di Alessandria – per noi perlopiù irrimediabilmente perduti? Ad esempio, come ha mai potuto osare un Otto Kern definire “stupidaggini” le interpretazioni procliane dei più importanti miti orfici? Se non fosse stato per i filosofi Platonici, avremmo certamente ignorato la maggior parte di ciò che sappiamo dell’Orfismo. Perché, dunque, considerare quegli autori solo in quanto validi mitografi e non anche quali eminenti mitologi, ossia come preziosissimi ed insostituibili esegeti dei mitologhemi da essi stessi trasmessi? O il rifiuto viene opposto solo perché si tratta di interpretazioni metafisiche? E con quale arbitrio si sosterrebbe – o si sottintenderebbe – che la metafisica non debba avere nulla a che fare col mito, o viceversa? Collocandosi su posizioni di questo tipo, non si rischierà forse di consentire a qualche maligno di sospettare, quantomeno, che è assai più facile fare i filologi, od i critici letterari, piuttosto che i filosofi nel senso più vero del termine? In effetti, è indubbio che la metafisica, o la teologia, dei filosofi Platonici è estremamente complessa e di difficile assorbimento; pertanto, è ben chiaro che se essa dovesse essere riconosciuta indispensabile per la reale comprensione dei miti ellenici, certamente non pochi mitologi moderni si troverebbero a mal partito. Specie tra quelli più fantasiosi e “creativi”.
Sia dunque ribadito definitivamente: da un punto di vista tradizionale, non è assolutamente ammissibile la validità di alcuna interpretazione di qualunque retaggio mitico, laddove tale operazione si collochi, parzialmente o totalmente, al di fuori del contesto teologico o sapienziale della tradizione sacra che ha generato e trasmesso quello stesso retaggio.
A parte i grandi maestri del Tradizionalismo del secolo XX, solo alcuni importanti studiosi hanno considerato ed espresso il mito per quel che realmente è: Mircea Eliade, Walter F. Otto, Henry Corbin e pochissimi altri. Tuttavia, nonostante i loro notevoli sforzi, a causa della pressione schiacciante del razionalismo e del materialismo imperanti, sciaguratamente prevale un’idea di esso che si conforma ad un inveterato pregiudizio “illuminista”. Assolutamente ridicola, in primis, è la pretesa secondo cui i miti furono concepiti essenzialmente per poter in qualche modo spiegare i fenomeni naturali: anche al loro lettore più superficiale non dovrebbe affatto sfuggire che l’universo mitico si presenta come una realtà sui generis, come un cosmo avente una realtà del tutto autonoma ed indipendente dal mondo naturale in cui ci troviamo. Di più: all’interno di esso è molto più quel che ci appare di innaturale, per non dire di impensabile o di impossibile, piuttosto che di naturale o anche solo di verosimile. E non è forse altrettanto evidente che, mentre gli eventi o le forze naturali ci appaiono necessariamente impersonali, gli dèi dell’universo posseggono invece delle identità non solo molto precise, ma dotate di personalità decisamente spiccate, dai tratti inconfondibili? A tal proposito, la solita vulgata ha sempre asserito che tale modo di concepire quelle forze, personificandole, dipendesse dall’elementare esigenza psicologica di “umanizzare” tali entità apparentemente insensibili ed inesorabili. Naturalmente, quest’idea non regge minimamente, giacché, volendo porre la questione nella stessa ottica dei materialisti e dei razionalisti, se l’uomo arcaico era costretto a lottare quotidianamente e duramente contro gli elementi del mondo fisico, i quali spesso ne minacciavano la stessa sopravvivenza, egli era decisamente più pressato a trovare delle valide ed efficaci soluzioni tecniche, ossia pratiche, ai suoi problemi materiali, piuttosto che a fantasticare vanamente di dèi, spiriti o altro. E se anche avesse inizialmente perso tempo con tali presunte fantasticherie ed i rituali annessi e connessi, dovendone inevitabilmente riscontrare quasi subito la totale e drammatica inutilità, non avrebbe tardato molto a farla finita con tutto ciò. O si vuole comunque insistere nel considerare gratuitamente l’uomo della remota antichità come una specie minorato mentale? Le antiche civiltà, invece, non ci hanno forse stupefatto, così come tuttora fanno e faranno in futuro, in mille occasioni, proprio nel campo della tecnica?
Rifacciamoci, dunque, ai summenzionati sapienti dell’antica Ellade, e definiamo il Mito esclusivamente in base all’insegnamento che ci è stato tramandato: come sostiene Proclo – al principio del primo libro della sua Teologia Platonica -, oltre a Plutarco nel suo Iside e Osiride, esso non è altro che il sottile linguaggio per “immagini”, che la metafisica e le teologie arcaiche adottavano per esprimere i propri concetti e misteri. Le realtà trascendenti ed eterne, essendo assolutamente incorporee, invisibili, o, in generale, del tutto impercettibili, e soprattutto inconcepibili dalla mente umana considerata nel suo stato ordinario, non possiedono in se stesse alcuna forma, e pertanto, a meno di una loro diretta rivelazione, resterebbero naturalmente occulte ed incomunicabili. Le immagini mitiche, tuttavia, possiedono per l’appunto il potere di rivestire tali realtà divine di una forma che le renda effettivamente comunicabili al pensiero, parlando innanzitutto all’immaginazione ed all’intuito.
Il linguaggio mitico si basa sulla capacità espressiva del simbolo, il quale deve la propria veridicità ed efficacia al suo essere costituito sulla base di un’analogia effettiva con la realtà simboleggiata, sia quando esso è un ente naturale e sia quando invece è un oggetto appositamente concepito e strutturato per divenire tale. In questo senso, la logica mitica è sempre precisa e rigorosa: essa svela la trama invisibile dei nessi impalpabili che collegano tutto ciò che esiste, in base alla legge trascendente della «simpatia universale». In tal modo, dunque, la realtà divina, da essere totalmente ineffabile, diviene, per natura o per artificio, in qualche modo trasparente alla mente umana, che è ora resa capace di coglierne un riflesso nient’affatto illusorio, bensì rivelatore, profetico. L’universo mitico, ancorché profondamente enigmatico, è lo specchio veridico del cosmo divino, e questo si disvela attraverso quello solo allorquando se ne possiedono le chiavi, e queste possono essere date solo dalla sacra tradizione sapienziale. Inoltre, l’enigmaticità del Mito è connaturata al mistero profondo delle realtà divine, lo riflette: l’enigma spinge alla ricerca l’uomo istintivamente proteso al Divino, gli indica la via necessaria al suo raggiungimento, la quale non può mai essere quella di ciò che è esteriormente evidente, ma solo quella che punta all’interno della stessa coscienza, come in un oscuro antro sacro.
Tornando alle idee erronee sulla mitologia, Plutarco condanna nettamente l’“evemerismo”, che è quella concezione secondo cui i miti riguardanti gli dèi non sarebbero altro che il risultato della mitizzazione di eventi storici reali ed estremamente remoti, i cui protagonisti avrebbero finito per essere divinizzati dalla memoria e dalla fantasia popolari. Si deve tener conto che spesso gli dèi sono presentati come grandi inventori o padri civilizzatori – come Prometeo, Mercurio/Hermes o Saturno/Kronos -; ebbene, se invece si fosse trattato di semplici uomini, per quale assurda ragione si sarebbero dovute inventare delle entità soprannaturali al posto degli effettivi benefattori della razza umana? Ad ogni modo, non v’è dubbio che la cultura antica abbia sempre distinto nettamente gli antenati illustri e gli eroi dagli dèi veri e propri, per cui pare proprio che, perlomeno concettualmente, non vi fosse alcuna confusione tra di essi; persino i faraoni egizi, pur essendo considerati divini, non venivano affatto incorporati nel pantheon della religione ufficiale. È soprattutto assolutamente chiaro che gli dèi possiedono invariabilmente un carattere di universalità che non può in alcun modo accordarsi con delle individualità umane, per quanto valorose o gloriose possano mai essere.
In verità, la ragione più autentica e profonda di qualunque rappresentazione antropomorfica delle realtà divine – ed il grande beneficio che essa in tal modo può produrre -, soprattutto in un ambito politeista, consiste nel fatto che, esprimendo la presenza dell’umano nel divino, essa per converso suggerisce anche la presenza del divino nell’umano; in tal modo, non solo avvicina le due realtà, ma addirittura le lega insieme inestricabilmente, poiché, sottilmente, suggerisce che dal primo nasca il secondo e viceversa, in un ciclo eterno ed immutabile. Spesso il Mito non ci narra forse delle origini divine degli eroi, o dell’intera razza umana, e non evidenzia di continuo la costante interazione o compenetrazione tra il mondo divino e quello umano? Di certo il lato umano della storia del mondo sembra esserne il lato debole, ma, allora, perché mai gli dèi dovrebbero interessarsene così tanto da interferirvi costantemente? Quale oscura necessità li indurrebbe a tale comportamento?
Non sarebbe il caso di ricordare la massima di colui che disse che gli dèi sono uomini immortali e gli uomini dèi mortali?
Un altro importante dato dottrinale, che il filosofo di Cheronea ci ha fortunatamente trasmesso, è che in verità i protagonisti dei racconti mitici non siano affatto gli dèi, ma le entità demoniche ad essi collegate: Proclo infatti spiega che esistono precise “serie” o “catene” che, a diversi livelli, gerarchicamente, legano le realtà soprannaturali; e quei “demoni” costituiscono precisamente l’ultimo anello di tali catene, quello più vicino agli uomini ed in contatto con loro. Essi sono appunto i messaggeri degli dèi, ed è per questo che Plutarco afferma che sono infatti solo loro, e non gli stessi dèi, a pronunciare oracoli negli antri sacri o nei santuari. Anche Platone, nel Simposio, accenna al fatto che forse i miti che narrano di guerre tra gli dèi, o di singoli episodi di violenza riguardanti alcuni di essi, non andrebbero davvero riferiti ad essi; e non riteniamo che con ciò il maestro di Atene abbia semplicemente voluto intendere che tali racconti non dovrebbero esser presi alla lettera – cosa fin troppo evidente e scontata -, ed infatti qui egli parla anche di Eros, in quanto demone, e non in quanto dio, come in precedenza aveva fatto, a riprova che esiste tanto un supremo dio con quel nome, quanto un demone omonimo, collegato e subordinato al primo.
L’elemento fornito da Plutarco è assai prezioso, perché indica precisamente la dimensione alla quale il mito appartiene; infatti, i “demoni” – da non confondere con gli esseri diabolici noti nel giudaismo e nel cristianesimo – appartengono al regno dell’Anima del Tutto, ossia alla sfera incorporea dello psichismo cosmico, che è intermedia tra la sfera puramente spirituale e quella prettamente sensibile e fenomenica. Si tratta di quello che Henry Corbin ha chiamato «Mondo immaginale», ossia, come s’è detto, all’universo psichico autonomo costituito dalle immagini metafisiche degli esseri divini. Il “luogo” delle teofanie. Anche se in qualche modo vi abbiamo già accennato, non resta che dire come il Mito ebbe origine; ebbene, ancora una volta, è la tradizione sacra a rivelarcelo; è vero infatti che i grandi poeti ellenici, autentici profeti, abbiano sempre dichiarato esplicitamente di aver trasmesso in poesia le loro visioni sugli dèi in seguito ad una ispirazione divina, e sempre tutto ciò venne puntualmente e nettamente confermato dai grandi maestri della sapienza di Grecia, i quali fin troppo bene conoscevano i prodigi dell’invasamento divino, dell’autentico “entusiasmo”. Assai male, quindi, farebbe chi pensasse che tali dichiarazioni costituissero un mero espediente retorico – esso avrebbe potuto divenirlo solo molto più tardi -, giacché, per quanto incredibile possa sembrare, quella è null’altro che l’assoluta verità.
Giovanni M. Tateo
La trascendenza dell’etica e l’immanenza della morale
Quando parliamo di Tradizione, ci riferiamo al Principio, unico, trascendente ed assoluto. In esso, pertanto, includiamo tutta la storia dell’umanità e il suo pensiero, scientifico e filosofico, quale parte integrante di un unicum spirituale. Si tratta, tuttavia, di un contenuto contraddittorio, perché nel suo dispiegarsi temporale e storico esso tende a contrapporre e a separare ciò che produce. Nel cercare, allora, di stabilire ciò che sono, o dovrebbero rappresentare, l’ etica e la morale secondo una concezione Tradizionale, è necessario intraprendere un cammino a ritroso e in forma ascendente, che riconduca tutto ciò che è contraddittorio e molteplice verso quel Principio unico e universale; che elevi verso l’alto ciò che è in basso e separato, per poi procedere, parafrasando Julis Evola, “con orientamento dall’alto verso l’alto”. Un’etica e una morale che si richiamino a quella Tradizione, necessariamente, non potranno che avere questo tipo di orientamento. Noi definiamo il percorso dell’uomo, che si ispira alla Tradizione, un itinerario etico e spirituale basato sulla conoscenza della propria essenza, il cui fine è il conseguimento, nell’unità, della perfezione divina. In questo articolo si vuole analizzare e stabilire il rapporto sussistente tra etica, morale e Tradizione, con l’obiettivo di dimostrarne il fondamento essente, ma anche esistenziale, attraverso un percorso unitario di riconversione. Nel definire tale rapporto e formulare un giudizio è, però, fondamentale non cadere nella tentazione di voler elaborare una soluzione esclusivamente ideologica, idealistica e speculativa, bensì è necessaria, in primo luogo, una visione razionale e contraddittoria tra l’elemento empirico e quello spirituale e universale. Ma, beninteso, il presupposto sostanziale è che un giudizio razionale, pur se elaborato nel contesto dinamico del finito e dell’empirico, non deve essere recepito come qualcosa di “altro estraneo da sé”, ossia del finito separato dall’universale, bensì come non contraddittorio, che ha saldo fondamento in se stesso e nel Principio unitario cui appartiene. In questo senso la Tradizione può rappresentare il mesocosmo, ovvero il collegamento tra il mondo empirico, finito e materiale e l’assoluto, infinito e spirituale. “Ciò che vi è di grande nell’uomo, afferma Nietzsche, è che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare in un uomo è che egli è un passaggio e una caduta. Io amo coloro che non sanno vivere, anche se sono coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano”.
Nell’antica Grecia il bene (tò agatòn) rappresenta la massima conoscenza (episteme), è l’origine del tutto e consiste nell’idea e nel suo contenuto: “ciò che è utile per la comunità”. Platone pone l’idea del bene al di sopra della conoscenza razionale, perciò non può essere penetrata nella sua essenza e non può essere trasmessa o insegnata dialetticamente e razionalmente. La conoscenza dell’idea è prerogativa del “sapiente”, il quale non l’acquisisce dall’insegnamento o con procedimento razionale, ma la possiede in forma diretta, intimamente. Platone, pertanto, procede nella spiegazione del suo concetto in forma negativa e, in questo senso, il bene non è piacere fisico o materiale e neppure utilità e vantaggio. Egli suggerisce che per accostarsi all’episteme, alla conoscenza, è necessario liberarsi del procedimento dianoetico e della doxa, l’opinione, muovendo nei quattro gradi della conoscenza: Immagini sensibili (eikasia); Credenza (pistis); Ragione discorsiva (dianoia); Intellezione (nous o noesis). In Aristotele, invece, il bene consiste nel realizzare in questo mondo tutto ciò che esso rappresenta nell’idea. Ovvero egli non crede nel concetto di idea quale entità perfetta ed immobile, esistente indipendentemente dalla realtà empirica e, quindi, estranea alla vita pratica dell’uomo. Tuttavia, il bene supremo, ovvero la perfezione, è il fine ed è alla sua portata; dunque va perseguito e realizzato mediante l’attività e l’opera. L’uomo può raggiungere il suo fine con il conseguimento della eudaimonia, la felicità. Anche per Aristotele la felicità non è ricchezza, piacere fisico o materiale, intesi come utilità e vantaggio personali, bensì questi possono rappresentare dei mezzi da utilizzare per più nobili fini. Quello di Aristotele, quindi, consiste in un finalismo, da attuarsi nella pratica eccellente delle opere conoscitive, tramite l’esercizio della virtù e della ragione. Il bene, dunque, non è più “conoscenza dell’essere”, come in Platone, ma “scienza del divenire”. Fondamentalmente nei due grandi teorici sussiste una visione diametralmente opposta del metodo da attuare per la ricerca dell’unico obiettivo rappresentato dal bene. Mentre per Platone è in sé e rappresenta l’archetipo essente, alla cui conoscenza solo il sapiente avrà accesso, per Aristotele, che non disconosce l’idea in quanto perfezione, è in divenire, da realizzarsi procedendo tramite l’insegnamento e la pratica della virtù. Per lui ogni cosa è “ciò verso cui naturalmente tende”, in costante evoluzione, che cerca di raggiungere un fine superiore tendendo a ciò che rappresenta il suo fine naturale ed ultimo: “ogni cosa vuole realizzare sé stessa per divenire ’essere che è sé stessa”. Si tratta, evidentemente, di due visioni inconciliabili nel metodo dell’indagine e del processo conoscitivo, ma, ed è ciò che a noi più interessa, nei due grandi pensatori non viene mai meno quel senso di unitarietà e di collegamento del concetto essenza-esistenza. Pertanto possiamo affermare, sintetizzando, che in Platone l’essenza determina l’esistenza, mentre in Aristotele è l’esistenza a determinare l’essenza.
La conseguenza di questi due tipi di concezione, pur nella sostanziale visione unitaria, è stata una scissione dualistica del concetto di bene, in ciò che oggi i moderni definiscono etica e morale. Pertanto, quando diciamo che è l’essenza a determinare l’esistenza parliamo di etica, mentre, quando asseriamo che l’esistenza determina l’essenza, ci riferiamo alla morale. I due termini hanno accezioni diverse, intendendo per morale l’insieme degli usi, dei costumi e delle consuetudini, relative ad una certa tradizione culturale e appartenenti ad un determinato gruppo sociale. La morale, nel suo massimo grado di perfezione, può essere definita una “scienza relativamente esatta”. La scienza, infatti, è oggettività relativa, perché fonda il suo rapporto nel particolare. La morale, per conseguenza, è immanente. Per etica, invece, intendiamo un valore trascendente, assoluto ed unitario; ovvero è la conoscenza che fonda il suo rapporto con l’assoluto e studia il concetto universale del bene e del male, contenendo in sé anche la morale. L’etica, pertanto, nel suo livello di astrazione filosofica più elevato, può essere definita una “conoscenza assoluta e perfetta”. Il rapporto che intercorre tra etica e morale può essere risolto analizzando e mettendo in evidenza le stesse assonanze e le differenze che intercorrono tra loro e quelle tra essenza ed esistenza, scienza e conoscenza e tra le due forme conoscitive dell’esoterismo. La distinzione sostanziale consiste nell’immanenza dell’una e nella trascendenza dell’altra. La forma immanente è propria di alcune Tradizioni iniziatiche che mirano al perfezionamento interiore individuale, al fine di concentrare la loro opera a beneficio della collettività e di questo mondo. Esse non fanno riferimento nel loro operato, in questo senso sono immanenti, a finalità o realtà metafisiche o teologiche, pur non disconoscendole. La forma esoterica trascendente, pur comprendendo in sé il perfezionamento interiore del singolo e, anzi, ponendolo per condizione, ha come finalità il ricongiungimento con il divino. Pertanto, a seguito di questa condizione, la seconda forma ricomprende in sé anche la prima. Dunque, la sostanziale differenza, la linea di demarcazione che rileviamo tra esoterismo immanente ed esoterismo trascendente è, di fatto, la medesima che rileviamo anche tra scienza e conoscenza, tra esistenza ed essenza e tra morale ed etica. Ne deduciamo, allora, che la Tradizione trascendente non può scindere e contrapporre l’etica e la morale, in quanto entrambe trovano la loro sintesi nel concetto di bene e la loro universalità nel Principio assoluto. Solo il Principio, infatti, in quanto assoluto, non ha in sé contraddizione.
Nella società moderna l’uomo proietta la propria esistenza basandola quasi esclusivamente su un progetto di vita materiale ed esteriore, trascurando o ignorando il proprio microcosmo interiore e spirituale. Questo accade in quanto nell’esistenza egli rinnega la sua vera essenza e pone il proprio io al servizio di ciò che è particolare e che solo illusoriamente rappresenta un fine. L’illusione della libertà dei moderni, infatti, è basata sulle conquiste sociali, a seguito delle rivoluzioni antifeudali e antiassolutistiche, che hanno prodotto una grave scissione del legame uomo-società ed esistenza-essenza. Hanno creato, cioè, una contrapposizione fra autodeterminazione ed oggettivazione, fra particolare ed universale e, pertanto, un antagonismo conflittuale dell’uomo contro l’uomo, del singolo contro la società e della società contro il singolo. I principi di uguaglianza, fraternità e libertà, contenuti nella dichiarazione dei diritti del 1791, sono rimasti principi esclusivamente astratti e formali, in quanto basati solo su un fondamento teoretico e ideologico, privi di alcun presupposto pedagogico capace di incidere profondamente sulla società civile e, di fatto, mantenendo inalterati e integri i particolarismi e le tensioni pregresse esistenti nella sfera sociale. Dunque la società, l’etica stessa, l’arte, la religione, i loro concetti, così meramente ideologizzati, risultano essere solamente una cornice alienata ed estranea agli individui, un “essere altro” esterno e, paradossalmente, una limitazione della libertà originaria. Una società, i cui membri sono dediti ciascuno al proprio interesse particolare, è soltanto un universale formale, un falso ideale assolutamente estraniato da colui che la compone, sì che l’universale varrà soltanto come un mezzo per il raggiungimento dei propri fini particolari. L’etica dell’uomo Tradizionale consiste nel recuperare la totalità organica, che il mondo moderno ha completamente disgregato. Occorre, cioè, superare quei presupposti teoretici dell’astrattismo e di un certo tipo di formalismo rivoluzionario, trasformandoli in principi da ricondurre ad una concezione esistente nella polis ateniese, ma in forma più elevata di quanto non lo fossero nel mondo antico, poiché la bella eticità era immediata, ovvero era il frutto dell’istinto e del costume, più che della ragione. L’eticità, allora, deve basarsi sul principio della personalità infinitamente sviluppata e libera, capace di rovesciare nuovamente quei valori schiavizzanti, rappresentati dal possesso e dall’asservimento ai bisogni materiali, relegandoli nuovamente al loro naturale ruolo di mezzi. La libertà e la responsabilità (intese nel loro significato trascendente e Tradizionale) rappresentano, nell’uomo, il fondamento della sua etica, tenendo presente che non dovrà mai venir meno quel presupposto iniziale, quel senso di unitarietà del concetto essenza-esistenza, che ha saldo fondamento in se stesso e nel Principio unitario cui appartiene.
Il ciceone è la bevanda, composta da acqua, menta e orzo triturato, che ristora Demetra durante la ricerca di Persefone, la figlia rapita. Nel rituale eleusino, l’iniziato annunciava: “ho bevuto il ciceone” e si rendeva degno della visione suprema. Questa consisteva in un viaggio compiuto dall’iniziato agli inferi, il cui tragitto era costellato da apparizioni e simboli, per poi proseguire in un percorso ascendente. Il momento culminante del viaggio era rappresentato dal passaggio dall’oscurità alla luce, così che egli potesse contemplare gli oggetti sacri. Durante l’esperienza estatica avveniva la metamorfosi che rendeva degno l’iniziato di appartenere al novero degli dei. Al termine egli assumeva il titolo di “epoptes”, che significa “colui che ha visto”. L’esperienza estatica dell’iniziato consisteva nella comprensione e nella visione unitaria del tutto, ovvero nella completa assimilazione di qualsiasi dualismo e molteplicità nell’unità divina. Ma il ciceone era anche la bevanda con cui Circe tentò di portare Odisseo alla perdizione, aggiungendo alla pozione ingredienti come vino, miele e spezie magiche. Si tratta, ovviamente, di un rituale simbolico il cui significato è profondamente esoterico. In esso ci viene svelato che all’uomo non è preclusa la possibilità di conoscere e di ritrovare in se stesso la propria divinità. Questo, anzi, è auspicabile, ma diverrà impossibile se l’uomo vorrà fare della conoscenza e della propria divinità un utilizzo improprio ed abusato. Per cui, la conoscenza e la divinità saranno nuovamente prerogative umane, che potranno essere riacquistate solamente con il ritrovamento della purezza e dell’ingenuità originarie. Si tratta delle due qualità divine perdute, che rappresentano la chiave e la giusta via, per chi saprà riconoscerle e rinvenirle, nel perseguire la meta finale. L’interpretazione del pensiero antico e della Tradizione non può prescindere dal possesso di quella chiave, che viene concessa solamente all’iniziato che abbia scelto, intimamente, di bere la coppa di Demetra e non quella di Circe, la quale, invece di condurlo dall’oscurità alla luce, lo porterebbe soltanto alla perdizione. In questo caso sarebbe preferibile astenersi dallo scegliere e attendere un momento più illuminante. In conclusione, per definire ciò che rappresenta la forma etica, poiché ci rifacciamo ad una Tradizione di tipo trascendente, noi intendiamo richiamarci a quel valore assoluto ed unitario. Esso rappresenta il fondamento stesso in cui la conoscenza si realizza nel suo rapportarsi con il divino, elevandosi al suo livello. L’etica, come già detto, studia il concetto universale del bene e del male e, per tutto ciò, la definiamo una “conoscenza assoluta e perfetta”. Non appaia blasfemo, dunque, che l’uomo Tradizionale aspiri alla conoscenza e alla divinità. Egli in realtà non intende sostituirsi a Dio, ma aspira a raggiungere quella perfezione ideale, nelle qualità che da Dio stesso gli sono attribuite in questa esistenza. Quelle stesse qualità che l’uomo ha erroneamente alienate da se stesso, ritenendole a lui estranee ed unicamente prerogative di un entità divina. In questo modo è avvenuta la separazione dall’Essere Originario e si è creata una frattura e una contrapposizione dualistica tra l’uomo e Dio. L’uomo Tradizionale, pertanto, deve rovesciare il significato della concezione moderna di ciò che rappresenta un fine e di ciò che rappresenta un mezzo, ovvero deve fare della conoscenza della propria essenza il fine e della propria esistenza, nonché delle necessità materiali, i mezzi. Egli è consapevole che in questa esistenza non acquisirà l’onniscienza, l’onnipotenza, il perfetto amore, l’ideale giustizia e la virtù, ma nel perseguirli ritroverà certamente se stesso e la propria essenza, accostandosi sempre più a Dio e divenendo un Suo mezzo e un Suo strumento, compartecipe attivo e consapevole della Creazione e della realizzazione del Disegno Divino. Questa è la massima aspirazione e il massimo risultato di questa esistenza; questa è l’Etica della Tradizione Trascendente.
Sandro Secci
Bibliografia di riferimento:
Ludwig Feuerbach – l’essenza del Cristianesimo
Friedrich Wilhelm Nietzsche – Così parlò Zarathustra
Platone – Apologia di Socrate
Georg Wilhelm Friedrich Hegel – La fenomenologia dello spirito
Benjamin Constant – La libertà degli antichi
Aristotele – Etica Nicomachea