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IL DIO NATO DALLA PIETRA Un aspetto particolare del dio Mithra : il forte volere ed il “giusto vedere”.

La letteratura sul dio Mithra è vastissima, sia per quel che riguarda il dio iranico, sia per quel che riguarda il Mithra romano. L’aspetto più famoso e noto dell’iconografia mitriaca – e della mitologia cui rimanda – è la raffigurazione della tauromachìa, ossia la lotta del dio col Toro primordiale che si conclude con l’uccisione dell’animale, il suo sacrificio rituale quale atto vivificante e cosmologico. Dalla coda del toro o dal sangue della sua ferita nasce infatti una spiga di grano, simbolo di rinnovamento e di fecondità spirituale, comune anche ai Misteri di Eleusi e, in particolare, all’iconografia della dea Demètra. Dalla morte del toro e dalla effusione del suo sangue scaturisce la nascita e la vita del cosmo. Una iscrizione mitriaca, parzialmente leggibile, rinvenuta nel mitreo di Santa Prisca a Roma, recita “Et tu servasti…… aeternali sanguine fuso” (tu salvasti [la vita, l' universo] con l’effusione del sangue eterno [del toro primordiale] ). Analogamente, dal mantello di Mithra, all’atto del sacrificio taurino, scaturisce il firmamento stellato.

In questa sede intendo soffermarmi su un particolare profilo di questa divinità, meno noto ma degno della massima attenzione. Mi riferisco alle peculiarità della nascita di Mithra fanciullo, quali si evincono dall’iconografia scoperta nelle vestigia religiose mitriache rinvenute in tutta l’area geografica che rientrava nell’Impero Romano e databili, a seconda dei casi, fra il II ed il IV secolo d.C. Mi riferisco quindi al Mithra romanizzato, ossia una divinità che presenta forti tratti di originalità e di differenziazione rispetto all’originaria divinità iranica.

Dalle sculture e dai rilievi mithriaci si evince, come figura costante, che Mithra nasce da una roccia, recando in una mano – quella destra – la spada e nell’altra una fiaccola. Talvolta la sua testa è radiata, con la rappresentazione dei raggi solari, talvolta compaiono alcune varianti iconografiche come la nascita di Mithra Fanciullo da una pigna(mitreo di S. Clemente in Roma), oppure da un uovo – l’Uovo Cosmico – nel contesto di una rappresentazione complessiva dello Zodiaco (1). In alcune sculture la nascita del dio petrogenito (de petra natus, theòs ek pétras) avviene accanto ad un fiume ed il Fanciullo Divino, venuto alla luce dalla pietra, sale su un albero di fico per raccoglierne e mangiarne i frutti. Costante, nell’iconografia mithriaca, è la rappresentazione dei pastori che, scesi da un monte, si avvicinano per rendere il loro omaggio al dio generato dalla pietra, lanciando verso di lui un bacio quale segno di omaggio e di amore per il divino.

Gli elementi di valutazione e di riflessione sono molteplici per comprendere il senso del mito e le conseguenti rappresentazioni dell’arte religiosa antica.
La roccia rimanda alla terra che può essere letta come un simbolo per il corpo dell’uomo, quale tempio dello spirito, quale realtà in cui sorge una nuova coscienza dell’origine divina dell’uomo. Tale lettura, pur essendo pertinente, è tuttavia ancora vaga; di là da essa, possiamo cogliere un senso più interno, di tipo alchemico, di trasformazione della materia, se assumiamo il termine materia in una accezione ampia, secondo la lezione del Kremmerz (2), che comprende anche aspetti sottili di essa che sfuggono alla ordinaria percezione dei nostri sensi. Il nostro corpo può essere inteso come un laboratorio alchemico, in cui può avvenire una trasformazione delle nostre forze, se opportunamente e saggiamente diretta ed orientata.
Il nostro corpo può essere assimilato alla fornace, al vaso alchemico in cui avviene la “cottura” delle sostanze per generare l’Oro filosofale, il nuovo principio di coscienza non più dominato dai sensi, ma che li assoggetta alla sua presenza ed al suo volere.
“Venire alla luce uscendo dalla roccia” può quindi significare svincolarsi dalla condizione ordinaria di pietrificazione, di fissità e rigidità della coscienza che ci preclude una percezione più ampia e profonda della realtà e far nascere in noi una nuovo stato di coscienza segnato dalla capacità di “vedere” (simboleggiata dalla luce della fiaccola) e dalla capacità di combattere e vincere le insidie di Ahriman (il Signore dell’oscurità), in noi e fuori di noi (raffigurata dalla spada).
I simboli dell’Uovo (che ricorda l’Atanor alchemico) e della pigna (che allude anch’essa alla “fecondità” della terra) rientrano nello stesso ordine di idee.

Questa lettura sotto il profilo dell’interiorità non esclude ma è anzi complementare a quella illustrata da Rudolf Steiner (3), nei termini di quella che possiamo definire una “metafisica della natura”, ossia una considerazione dei processi della natura sotto un profilo più profondo in relazione al Mistero del Solstizio invernale, che egli legge in relazione ai processi, al tempo stesso fisico-chimici e “sottili” , che si svolgono nella terra e nella natura in generale.
A partire dall’autunno, la terra ripiega su se stessa, la natura si richiude, le foglie ingialliscono e cadono, la temperatura diminuisce, la neve scende sulla terra e la copre col suo manto bianco.
Nei paesi mediterranei, pur in assenza di neve, si assiste, comunque, ad un assopirsi della terra, ad un “sonno” della natura, mentre la luce diurna gradualmente diminuisce, fino al giorno più breve dell’anno, il Solstizio d’Inverno.
Questa fase di sonno della terra va equilibrata dall’uomo con un suo processo di raccoglimento interiore – reso propizio dalle condizioni ambientali esterne – e di affermazione di una forte volontà interiore di rinnovamento e di veglia coscienziale. E’ il momento in cui l’uomo può raccogliersi e chiarire i suoi pensieri, la direzione della sua volontà, gli aspetti di sé che vuole migliorare.

I Grandi Misteri, ad Eleusi, venivano celebrati – ed è significativo – nel mese di settembre/ottobre.
La brina, la neve, il ghiaccio, visti da un punto ideale di osservazione, da una distanza siderale, ci apparirebbero come un grande specchio cosmico che attrae e rispecchia i raggi solari. La terra assorbe ed elabora la forza solare.
Nella terra si genera, in questa fase, il nuovo Sole, la nuova luce, che comparirà, realmente e simbolicamente, dal Solstizio in poi, sull’orizzonte, come una luce ascendente e sempre più duratura.
Sul piano alchemico, il nuovo Sole è la forza solare assorbita dalla terra e rigenerata in forza fecondante, nel calore, nel fuoco tellurico che si raccoglie alle radici delle piante, nelle profondità del grembo materno e che elabora le nuove forme di vita che poi si manifesteranno col risveglio primaverile della natura.
Quando Steiner parla del seme, parla, non a caso, della sua “cottura” da cui scaturisce la pianta, la nuova forma di vita.
Il nuovo Sole nasce dall’oscurità e dalla terra visti come una grande matrice e, contestualmente, nell’interiorità dell’uomo nasce la nuova coscienza, spiritualmente fortificata e rinnovata.
L’immagine della dea Iside che reca fra le braccia il Fanciullo Solare, Horus, nato dall’unione con Osiride (il Sole) – sposo e fratello di Iside – simboleggia lo stesso ordine di significati.
La Donna dalla chioma e dagli occhi chiari, dal biancore luminoso, di una luminosità lunare, che reca in braccio il Fanciullo Divino con l’aureola radiata, è un Archetipo presente in tutta l’arte italiana del Trecento e del Quattrocento, seppure con diversità di stili.

Proviamo ora a leggere il tutto sub specie interioritatis. Il nuovo Sole (la nuova coscienza) non nasce da solo e non esiste da solo. Per una completa realizzazione spirituale occorre, è imprescindibile, l’apporto vivificante della forza fecondatrice e della sua Acqua di Vita, dell’energia femminile (diversamente rappresentata di volta in volta: l’Uovo, la terra, la roccia, la pigna) che dona la freschezza interiore e lo slancio creativo per rinnovarsi.
La terra, la roccia, possono essere colti nella loro ambivalenza reale, come pietrificazione interiore, ma anche come laboratorio creativo; sono veri entrambi gli aspetti, a seconda del piano di coscienza in cui l’uomo si trova.

Rispetto a questi significati, gli altri simboli appaiono come complementari.
Il fiume, ossia il fluire delle acque, simboleggia il divenire, perché la nuova coscienza sorge nella storia, nell’integrazione con la quotidianità e non in un astratto evasionismo. Questo è un insegnamento molto importante e di forte attualità, poiché la modernità va integrata, armonizzata con la realizzazione interiore e non negata in una prospettiva dualistica e dissociativa.

L’albero di fico simboleggia, in tutte le tradizioni, una potenza di fecondità e di risveglio interiore; il Buddha raggiunge l’illuminazione ai piedi di un fico, come il Ruminalis Ficus è fondamentale nella tradizione romana, perché alla sua ombra la lupa si prende cura dei due gemelli, Romolo e Remo. La sacralità degli alberi nelle tradizioni antiche non è una mera credenza ma rispecchia precise conoscenze e percezioni sugli aspetti sottili, energetici degli alberi e sulla funzione di ausilio che essi possono avere per l’esperienza del risveglio dell’uomo.

Il raccogliere i frutti allude all’integrazione dell’uomo, spiritualmente rinnovato, con le “forze” della natura. Mangiare i frutti vuol dire integrare in sé le energie naturali, ossia l’aspetto “sottile” della natura.
I pastori che rendono l’omaggio d’amore a Mithra petrogenito simboleggiano – e qui mi richiamo alla lettura di J. Evola (4) – le presenze spirituali che animano la natura e che si dispongono armonicamente ed in modo accogliente verso il nuovo essere.
E’ agevole vedere come il cristianesimo, in una versione non misterica, ma del tutto fideistico-devozionale, abbia ripreso vari elementi di provenienza misterica, fra i quali anche alcuni elementi costitutivi dello scenario del presepe . Il culto di Mithra risaliva all’antichità religiosa iranica ed indiana, fino alla preistoria dell’ “indoeuropeo comune”. Secondo le fonti dei Parsi – i seguaci di Zoroastro presenti tuttora in India – lo scenario astronomico-simbolico cui allude la tauromachìa mitriaca risalirebbe, addirittura, al 9000 a.C. circa e non al periodo dell’Impero Romano (5). E’ un tema sul quale mi riservo di ritornare in modo più specifico.
E’ chiaro, quindi, che a differenza di quanto sostenevano i polemisti cristiani nei primi secoli del cristianesimo, fu proprio questo antichissimo culto di origine iranica – fortemente ed originalmente romanizzato – ad esercitare un’influenza sulla religione cristiana.

Di là da questo aspetto storico, i significati racchiusi in quelle figurazioni simboliche risultano di una grande ed attuale validità: vivificare ed attualizzare, con la disciplina interiore, una direzione centripeta, un ritorno a se stessi, alla propria identità più autentica. Osservare se stessi, per riscoprirsi, per conoscersi (il gnòti te autòn dell’Apollo delfico), per perfezionarsi.
In una società dominata dall’effimero e dal banale, dall’esteriorità, dall’attimo, dalla frenesia del “fare”, non potrebbe esservi migliore lezione di saggezza.
L’attitudine combattiva, il forte volere (= la spada, la volontà ben orientata) e la chiarezza della propria coscienza con la luce della fiaccola interna (= il giusto “vedere”) sono le risorse interiori da attivare e fortificare per un cammino di rinnovamento.

Stefano Arcella

NOTE

1) G. Kremmerz, La Scienza dei Magi, Ed. Mediterranee, 1975.

2) R. Steiner, L’esperienza del corso dell’anno in quattro immaginazioni cosmiche, Editrice Antroposofica, Milano, 1983, pp. 20-35. Cfr. Ora il bellissimo saggio anonimo Solstizio d’Inverno, pubblicato sul sito www. centrostudilaruna.it/tradizionesolare. L’anonimo autore di questo saggio sta svolgendo un interessante lavoro di rielaborazione e reinterpretazione del pensiero di Rudolf Steiner, riportandolo agli Archetipi del mondo pre-crisitano.

3) J. Evola, La Via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mithra ( a cura di Stefano Arcella). Fondazione J.Evola-Controcorrente, Napoli, dicembre 2007; cfr., in particolare, il primo saggio di J. Evola che reca lo stesso titolo del testo e che venne pubblicato, in origine, sulla rivista Ultra, n.3, Roma, 1926.

4) Shorab Sola Hakim, I Misteri di Mithra visti da uno zoroastriano, in Conoscenza Religiosa, I, 1976, p. 63 ss. L’intervento di questo sacerdote Parsi è la relazione presentata nel Convegno Internazionale di Studi Mitriaci svoltosi a Teheran nel 1975. Sulla personalità e la spiritualità di questo sacerdote Parsi cfr. E. Zolla, Aure. I luoghi e i riti, Marsilio, Venezia, 1995, pp. 125 – 131.

Storia dell’ordine dei Templari

Da restituire all’Abate C. Saffray

                                                                                      Vicario di Beauvain[1]

                                                                                                 presso la Ferté-Macé[2] (Orne)

 


[1] Comune francese (oggi conta 257 abitanti) situato nel Dipartimento dell’Orne nella regione della Bassa Normandia

[2] La Ferté-Macé è un altro comune francese (oggi conta 6679 abitanti) situato anch’esso nella bassa Normadia nel Dipartimento dell’Orne

 

 

 

 

 

Sintesi della Storia dei Templari

Goffredo di St. Aldemard  o di St. Omer, Ugo de Payens, e sette altri gentiluomini, tutti francesi, scortavano i Pellegrini che si recavano a Gerusalemme per visitare il Santo Sepolcro. Essi erano alloggiati in un edificio presso il Tempio, da cui mutuarono il nome di Templari o Cavalieri del Tempio

Il Concilio riunito a Troyes in Champagne sotto il pontificato di Onorio II fece di questa Società un Ordine Religioso e Militare. Venne stabilito che il loro abito dovesse essere di colore bianco. In seguito il Papa Eugenio III dispose che essi avessero una croce rossa all’altezza del  cuore, come segno di distinzione.

Dopo di allora, questo Ordine fu imitato da quello di San Giovanni, anzi lo superò. Venne stabilito un periodo di noviziato per tutti quelli che volevano entrare nell’Ordine. Molti Re, Principi, Signori e Gentiluomini conferirono all’Ordine grandi ricchezze quando ne divennero membri. Queste grandi ricchezze stimolarono l’invidia e furono in parte la causa della fine dell’Ordine. Filippo il Bello, Re di Francia, si gli si rivolse contro 1 – perché l’Ordine appoggiava Papa Bonifacio VIII con il quale il Re era in forte disaccordo; 2 – perché i Templari non potevano accettare i suoi interventi volti ad alterare la moneta. D’altronde desiderando il Re di impossessarsi dei beni che i Templari possedevano nel suo regno, concepì il progetto di distruggere l’Ordine. Ecco come si svolsero il fatti: quando Bonifacio VIII morì e i Cardinali si riunirono per eleggere un nuovo Papa, quelli che erano legati a Filippo il Bello cominciarono a tessere le loro trame e per prima cosa proposero dei nomi graditi al Sovrano. Il Re pose i suoi occhi sull’Arcivescovo di Bordeaux, per cui il nome scelto fu quello di Bertrand de Got. Gli fece promettere, tra le altre cose, di abolire l’Ordine dei Templari, e a queste condizioni fu eletto Papa con il nome di Clemente V. Filippo il Bello, vedendo che il Papa non si adoperava per mantenere la sua promessa, fece arrestare in un solo giorno il Gran Maestro e tutti i Templari che si trovavano a Parigi.

Due sciagurati, imprigionati per crimini e condannati a morte (uno chiamato dai massoni Abhiram e l’altro citato nella storia con il nome di Squin de Florian), accusarono di crimini vergognosi i Cavalieri del Tempio presso Filippo il Bello, con lo scopo di ottenere la grazia, poiché conoscevano l’odio del Principe nei confronti dei Templari; e infatti evitarono la loro condanna. Due Templari, l’uno Priore di Mountfaucon e l’altro chiamato Noffodei, condannati dal loro Gran Maestro a trascorrere il loro tempo rinchiusi tra quattro mura cibandosi solo di pane ed acqua per aver commesso gravi colpe, riuscirono ad evadere; e temendo di ricadere nelle mani del Gran Maestro, decisero di perderlo insieme a tutti i Cavalieri, accusandoli degli stessi crimini presso Filippo il Bello.

Si ritiene che l’autore della “Storia di Malta” abbia trovato alcune notizie riguardo a questi fatti, anche se esprime qualche dubbio su quanto sto per riferirvi.

I Templari arrestati furono interrogati da Guglielmo di Parigi, confessore del Re Filippo il Bello. I cardinali Beranger, Etienne e Landusse compilarono a Chinon in Touraine il processo verbale dell’interrogatorio a cui furono sottoposti i Templari che non avevano potuto raggiungere a Parigi il loro Gran Maestro. Questi Cardinali furono dei redattori iniqui inserendo nel processo verbale crimini esecrabili che i Cavalieri del Tempio non avevano commesso né tantomeno confessato, nonostante i supplizi che avevano dovuto subire.  A causa di tutti questi intrighi, il giudizio finale fu tra i più atroci.

Bertrand de Got papa con il nome di Clemente V abolì l’Ordine dei Templari senza rispettare alcuna delle procedure richieste in simili casi; inoltre i Cavalieri furono torturati in mille modi e gettati tra le fiamme, e il loro Gran Maestro, storicamente conosciuto con il nome di Jacques de Molay, perì con alcuni dei suoi Cavalieri alle ore dieci del mattino su alcune pire alle quali diedero fuoco i ministri dell’odio di Filippo.

Questo Ordine illustre perse tutte le sue ricchezze, ma non fu affatto estinto. A questo proposito il Gran Maestro rese illusorie le speranze dei nemici dell’Ordine, perché prima di morire egli proclamò Gran Maestro un Templare Priore di Gran Croce, e ordinò che i Templari che fossero riusciti a sfuggire alle persecuzioni creassero altri Cavalieri per perpetuare l’Ordine. Cosa che venne puntualmente fatta.

Questi fatti e gli altri che seguiranno sono tratti da manoscritti che hanno come titolo “Storia dell’Ordine dei Templari dopo l’imprigionamento di Jacques de Molay loro Gran Maestro”.

Il Priore di Mountfaucon e Noffodei, quei due templari di cui abbiamo parlato prima, preoccupati nel vedere che l’Ordine non era affatto estinto e temendo di cadere nelle mani del nuovo Gran Maestro che aveva già ordinato di arrestarli, decisero di ucciderlo. Ma essi furono scoperti e messi a morte nel modo che voi avete visto quando siete stato investito del grado di Commmendatore e Priore di Gran Croce dell’Ordine.

La stessa Storia ci insegna tutto quello che sarà spiegato in seguito. Io vado a esporla e voi la svilupperete attraverso domande e risposte. La Storia del nostro Ordine nascosta sotto il velo della M. (Massoneria).

Prima di tutto devo avvertirvi che ci sono delle cose nei differenti gradi che sono del tutto estranee a questa storia, e che sono state escogitate per confondere quelli che noi chiamiamo profani, e per impedire a coloro i quali sono ammessi ai primi gradi di conoscere sin dall’inizio quello di cui si tratta, con lo scopo di metterli alla prova e di non correre noi il rischio di essere traditi.

Spiegazione della Storia dei

Templari nascosta sotto il velo

della Massoneria

D.

Da dove i Fratelli Massoni traggono la loro origine?

R.

Dall’Ordine dei Templari.

D.

Perché i Templari hanno preso questo nome?

R.

Perché quando si volle abolire il loro Ordine, come è stato sopra raccontato, essi furono perseguitati; per cui allo scopo di evitare tutti i tormenti che gli infliggevano ingiustamente, si riunivano segretamente per discutere gli affari dell’Ordine. All’inizio essi ricevevano direttamente come Cavalieri del Tempio colore che erano ritenuti degni di entrare nell’Ordine, ma costatando che continuavano ad essere perseguitati a causa dell’indiscrezione di qualcuno dei neofiti, tennero un Capitolo presieduto dal nuovo Gran Maestro; qui venne deciso di concepire dei Misteri relativi all’Ordine, e di non spiegarli ai futuri iniziati fintanto che non fossero stati certi della loro discrezione e della loro fedeltà. Il primo grado che essi crearono fu quello di Maestro; ma dal momento che la maggior parte di quelli a cui questo grado era stato conferito ne compresero il significato, poiché la persecuzione e la morte del Gran Maestro erano troppo recenti, essi crearono degli altri gradi che attraverso dei simboli illustrassero gradualmente a coloro che venivano promossi ciò che essi potevano diventare un giorno, il che dava ai Cavalieri il tempo di conoscere a fondo il loro carattere ed il loro merito; cosicché essi lasciavano nei gradi inferiori coloro i quali si rendevano indegni di entrare nell’Ordine. Questi gradi avevano come base la costruzione del Tempio di Salomone. In seguito essi furono obbligati ad aggiungere nuovi gradi ai primi, perché si resero conto che il tempo di prova era per molti ancora troppo breve.

Un Gran Maestro può ricevere come Cavaliere del Tempio un individuo di sicuro affidamento omettendo tutti i Gradi precedenti, a condizione che gli vengano comunque fatti conoscere e che sia stato ricevuto come Apprendista Bleu o Scozzese.

D. Volete dirci il nome di ognuno di questi Gradi?

R. I Gradi si sono moltiplicati in grande numero. Quelli della Vera Massoneria sono:

 

 

1° – l’Apprendista                                             4° – l’Apprendista

2° – il Compagno                                              5° – il Compagno

3° – il Maestro Bleu                                          6° – il Maestro Sublime Scozzese

 

7° – il Piccolo Eletto o Eletto dei Nove.

8° – il Cavaliere del Sole.

9° – lo Scozzese di Squin o il Perfetto Scozzese.

10° – il Commmendatore del Tempio.

11° – il Cavaliere del Leone.

12° . il Principe di Gerusalemme.

 

Ecco i gradi simbolici della Vera Massoneria. Ci sono ancora altri Gradi riconosciuti all’interno di alcune Logge, e cioè: 1° – l’Eletto di Perignan. 2° – l’Eletto dei Quindici. 3° – il Piccolo Architetto. 4° – il Grande Architetto. 5° – il Cavaliere d’Oriente. 6° – il Cavaliere Prussiano. 7° – la Vera Luce o Massoneria Inglese di Berlino.

Oltre questi gradi, c’è il grado di Rosa Croce e quello di Cavaliere della Tripla Croce che sono stati creati successivamente dal Grande Oriente di Francia per le ragioni che saranno esposte in seguito.

 

Ecco i Gradi simbolici che sono l’emblema di quello che è accaduto in relazione all’Ordine dei Templari. Essi infatti contengono la cerimonia dei Grandi Eletti o Cavalieri del Tempio, dei Commendatori e dei Priori di Gran Croce dello stesso Ordine, ed infine la cerimonia di elezione o di proclamazione del Gran Maestro dei Templari.

D.

Qual è l’origine dei F:. Sergenti (Servants)?

R.

Essi originano dallo Statuto che fu redatto al tempo della costituzione l’Ordine, secondo il quale ogni Templare poteva avere un Sergente o Fr:. Servente d’armi.

D.

Perché le Logge sono anche chiamate Templi?

R.

La costruzione da cui i Templari traggono il loro nome si chiamava il Tempio. Le Logge sono state chiamate dagli stessi Templari anche “Logge di S. Giovanni” per non far capire che essi non volevano affatto essere sottomessi ai Cavalieri di S. Giovanni, che oggi sono chiamati Cavalieri di Malta, come era accaduto ai tempi delle guerre di Palestina.

D.

Quanti tipi di Logge hanno istituito i Templari sotto il nome di Massoni?

R.

Di tre tipi. E cioè la Loggia di Ricezione, la Loggia di Istruzione e la Loggia di Tavola.

D.

Qual’è il significato di queste Logge?

R.

La Loggia di Ricezione designa i tempi della prova a cui bisogna sottoporsi per entrare nell’Ordine dei Templari. In questa Loggia si può essere promossi ai differenti Gradi o Dignità.

 

La Loggia d’Istruzione designa i Capitoli che tenevano i Templari, durante i quali trattavano gli affari dell’Ordine o davano ordini o consigli carichi di saggezza attraverso i quali ciascuno di loro in particolare e tutti in generale potessero adempiere degnamente alle funzioni relative alle differenti Dignità a cui ciascuno era pervenuto.

La Loggia di Tavola è interamente militare, di esercitazione, l’ordine dato per il combattimento che viene prontamente eseguito, il colpo di pistola a seguito del quale i Fratelli Sergenti tengano ben salda la spada sguainata nelle loro mani, la vittoria che viene celebrata con una batteria di applausi, sono la rappresentazione dei combattimenti da cui i Templari sono usciti vittoriosi, e fanno loro ricordare il motivo che ha fatto nascere il loro Ordine.

D.

Cosa rappresenta il Venerabile in una Loggia?

R.

Il Gran Maestro dell’Ordine.

D.

Chi rappresentano i due Sorveglianti?

R.

Quelli che dovevano sostituire il Gran Maestro quando era assente. E  più precisamente, il I° Sorvegliante rappresenta il Comandante Generale della Cavalleria, e il II° Sorvegliante rappresenta il Comandante Generale della Fanteria.

D.

Chi rappresenta l’Oratore?

R.

Il Gran Cancelliere dell’Ordine.

D.

Chi rappresentano il Segretario, il Tesoriere e il Guardiano dei Sigilli?

R.

Quelli che nell’Ordine erano investiti di tali Dignità.

D.

Chi rappresenta il Maestro delle Cerimonie?

R.

Quello che assisteva il Gran Maestro nelle cerimonie pubbliche e introduceva i Deputati

D.

Chi rappresenta l’Elemosiniere?

R.

Quello che era designato dal Capitolo per provvedere alla distribuzione delle elemosine ai poveri. Per questa nella Loggia di Tavola è presente un Fratello incaricato di fare la questua.

D.

Chi rappresenta il F:. Verificatore?

R.

Quello che doveva occuparsi dell’acquartieramento e che doveva esaminare tutti i documenti relativi all’amministrazione interna e esterna dell’Ordine, prima che fossero presentati al Consiglio.

D.

Chi rappresentano le Guardie del Tempio?

R.

Le Sentinelle che presidiavano la Casa.

D.

Chi rappresenta il F:. Terribile?

R.

La Sentinella che era posta all’esterno.

 

Ricezione ed Istruzione

dell’App:. Bleu e Scozzese

 

D.

Cosa rappresenta la Loggia d’Apprendista?

R.

Il Noviziato dei Templari. I Novizi venivano condotti in un luogo separato, affinché avessero la libertà di ponderare la loro determinazione. E’ per questa ragione che il Recipiendario viene condotto in un luogo in disparte, lasciato a riflettere. Uno dei Templari era incaricato di esaminare la condotta, i comportamenti e la disposizione del Novizio. E’ per questa ragione che viene inviato al Recipiendario un F:. Esaminatore. Poiché il Novizio pronunciava il voto di povertà, il Recipiendario, entrando in Loggia, non è né nudo né vestito, e gli vengono portati via tutti i metalli.

D.

Cosa significano i 3 Viaggi che vengono compiuti per essere ricevuto Apprendista?

R.

Le prove militari a cui veniva sottoposto il Novizio servendo lo Stendardo dei Templari per 3 campagne.

D.

Cosa significano i Viaggi che vengono compiuti negli altri Gradi?

R.

Le differenti campagne a cui dovevano partecipare i Cavalieri del Tempio prima di essere elevati ad un grado superiore a quello posseduto.

D.

Perché viene chiesto a colui che vuol essere ricevuto Apprendista se è disposto a siglare con il suo sangue la promessa che sta per pronunciare?

R.

Perché quando si riceveva un Cavaliere, egli giurava di osservare gli Statuti dell’Ordine a costo della sua vita, e di versare tutto il suo sangue piuttosto che fuggire durante il combattimento; si sottoponevano i Novizi a difficoltà e ostacoli simili ai pericoli che essi dovevano temere. E’ questa la ragione per cui il Recipiendario subisce delle prove che ricordano le torture che i Cavalieri del Tempio dovevano sopportare quando cadevano prigionieri vivi nelle mani degli infedeli contro i quali combattevano. Nello stesso modo l’Apprendista Bleu da prova di fermezza e l’Apprendista Scozzese, prostrandosi per adorare l’Eterno. da prova di pietà, due qualità richieste a tutti coloro che vogliono entrare nell’Ordine. Queste prove ci ricordano anche le torture che hanno patito i Templari al tempo delle persecuzioni di Filippo il Bello.

D.

Cosa rappresentano i Giuramenti che si fanno nei diversi Gradi?

R.

Sono uguali a quelli dei Templari, che giuravano di osservare gli statuti dell’Ordine.

D.

Cosa significa la lettera G che è posta all’interno della Stella Fiammeggiante?

R.

Essa significa Got, Arcivescovo di Bordeaux, Papa con il nome di Clemente V. Presenta ai nostri occhi il nome di colui che ha condannato ingiustamente i Templari.

D.

E Non significa nient’altro?

R.

Essa significa Gran Maestro, come si vedrà nel Grado di Maestro Bleu.

D.

A che cosa servono le parole di ogni Grado?

R.

A distinguere quelli che le possiedono, come anche i Segni e i Toccamenti

D.

Cosa significano le Parole di Passo?

R.

Sono le Parole d’ordine dei Templari in tempo di guerra, per riconoscersi tra loro e distinguersi dai nemici. La Parola di Passo del Compagno è divenuta celebre per questo motivo: essa fu scoperta dal nemico che voleva servirsene per sorprendere i Templari; ma non sapendo pronunciarla correttamente, essi furono scoperti e massacrati dai Cavalieri del Tempio. E’ per conservare la memoria di questo evento che nello Scozzesismo la si pronuncia come il nemico la pronunciò allora.

D.

Perché quando viene richiesta la Parola in alcune Logge si risponde: io non so né leggere né scrivere, io so solo parlare; e in quasi tutte: io non so leggere, io so solo parlare?

R.

Perché non si volle accordare un avvocato a Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari, nonostante che egli giustificasse questa richiesta con il fatto che non sapeva né leggere né scrivere

D.

Da dove deriva il numero 9 nella Massoneria?

R.

Dal numero dei gentiluomini che per primi fondarono l’Ordine dei Templari.

D.

Perché la Massoneria si definisce Arte Reale?

R.

Poiché era stato proposto a Filippo il Bello di fondare, al posto dei Templari, un Ordine Reale

D.

Perché si dice che si è ricevuta la Luce da Oriente?

R.

Perché il nostro Ordine è nato in Palestina, che si trova ad Oriente.

D.

Perché si fa passare l’Apprendista sotto la Volta d’Acciaio?

R.

Per insegnarli che deve servire in armi sotto le bandiere dell’Ordine dal quale riceverà gli ordini.

D.

Perché ci accusano di Magia e di Sortilegio?

R.

Perché nei tempi in cui i Templari cominciarono a riunirsi sotto il nome di Massoni, si tenevano anche assemblee di persone che si definivano Maghi; da qui il popolino, vedendo i Templari riunirsi in luoghi segreti, pensò che fossero lo stesso soggetto.

D.

Perché molti ci accusano di sodomia?

R.

Non si deve ignorare che quando si entrava nell’Ordine dei Templari, si faceva voto di castità. Dopo la morte di Jacques de Molay e degli altri Cavalieri, il nuovo Gran Maestro e quelli che erano riusciti a sfuggire alla cattura crearono nuovi Cavalieri per porre riparo al disastro della persecuzione; e, seguendo gli Statuti dell’Ordine, fecero pronunciare a questi nuovi Cavalieri lo stesso voto; il popolino e soprattutto le donne, vedendo che questi nuovi Cavalieri non si sposavano, e che erano intimamente legati gli uni agli altri, e che i Templari, sotto il nome di Massoni, non ammettevano le donne nelle loro Logge, li accusarono di tale crimine che è contro natura; si cominciò a detestarli e a perseguitarli. Avendo i Templari scoperto i sospetti odiosi che si avevano sulla purezza dei loro costumi, decisero, in un Capitolo che convocarono su questo argomento, che lo statuto che prescriveva il voto di castità non sarebbe stato più valido, sino alla riunificazione dell’Ordine, nei confronti di quei Cavalieri che si sarebbero ricevuti in seguito. Ma quelli che erano stati ricevuti nell’Ordine prima dell’attuale Statuto, restavano sottomessi all’antico. Quando l’Ordine sarebbe stato riunificato, un Capitolo avrebbe di nuovo legiferato su questo articolo, e per questo si sarebbe fatto giurare, a coloro che erano stati ricevuti nell’Ordine in seguito, di sottomettersi agli Statuti dell’Ordine quando sarebbero stati maturi i tempi di riaffermare questi stessi Statuti.

 


 

Grado di Compagno

Bleu e Scozzese

 

D.

Cosa rappresenta il Grado di Compagno?

R.

Evidenzia il tradimento di quei Templari che, condannati come è stato detto sopra dal loro Gran Maestro, lo accusarono falsamente insieme ai suoi Cavalieri. E’ per questa ragione che, conferendo il Grado, il Maestro fa strappare il grembiule al Recipiendario come se fosse indegno di portarlo, accusandolo di non aver mantenuto nei confronti dell’Ordine la fedeltà che aveva giurato. (Il Grembiule simboleggia l’abito dei Templari).
  Così come il Grado di Compagno Bleu rappresenta il tradimento dei due Templari di cui si è parlato, quello di Compagno Scozzese dimostra la Fede viva e pura  degli altri Cavalieri del Tempio.

 

 

Grado di Maestro Bleu e di

Maestro Sublime Scozzese

 

D.

Cosa rappresenta il Grado di Maestro?

R.

All’inizio è una ripetizione del Grado di Compagno, perché viene rappresentato il tradimento dei due Templari sotto il nome di C:.; infatti si accusa il Recipiendario di aver commesso un crimine terribile e gli si prospettano difficoltà e ostacoli alla sua ricezione, dicendogli che questo crimine consiste nell’aver voluto tradire il proprio Ordine e carpire la Parola di Maestro; ed inoltre togliere la vita al Gran Maestro dell’Ordine. Inoltre questo Grado rappresenta la morte del Gran Maestro.

D.

Cosa rappresenta la testa della vedova tutta scarmigliata che chiede vendetta?

R.

Rappresenta la Religione che è stata privata di valenti difensori quali i Templari e soprattutto il Gran Maestro.

D.

Cosa rappresentano il sole in eclisse, la luna macchiata di sangue, le lacrime e i gemiti?

R.

Tutto questo esprime il dolore provato per la morte del Gran Maestro.

D.

Cosa rappresenta il cumulo di pietre?

R.

La prigione nella quale fu rinchiuso Jacques de Molay.

D.

Cosa significa la Stella Fiammeggiante avvolta dal fuoco?

R.

La pira sulla quale fu consumato Jacques de Molay, e la lettera G significa Gran Maestro.

D.

Chi sono i 3 Compagni?

R.

Sono:

1 – Abhiram, Squin e Filippo il Bello.

2 – Il Priore di Montfaucon, Noffodey e Filippo il Bello.

3 – Clemente V, Jacques de Villaret, Gran Maestro di Malta e Filippo il Bello.

 

E’ a torto, e per una piaggeria tanto bassa quanto indegna di uno storico, che l’autore della Storia di Malta afferma che i Cavalieri di Malta non ebbero alcun ruolo nella distruzione dei Templari, perché è acclarato nella storia del nostro Ordine che i Cavalieri di Malta, gelosi della gloria e della potenza dei Templari, si diedero molto da fare e favorirono Filippo il Bello per accelerare la fine del nostro Ordine. L’Abate di Vertot non ha nessuna scusante a riguardo. Come può infatti un uomo sensato e istruito credere: 1 – che Filippo il Bello, che non amava affatto i Cavalieri di Malta, abbia tollerato che Clemente V abbia donato loro tutti i nostri beni se essi non l’avessero in qualche modo favorito? 2 – può mai credere che Clemente V avrebbe potuto rifiutarsi di fronte alle sollecitazioni e alle insistenze di Filippo il Bello, lui che non aveva ritenuto di compiere la più grande delle ingiustizie nel distruggere il nostro Ordine per paura delle contumelie di quel Principe? D’altra parte se si legge la storia dell’Abate Vertot, si vedrà che la ragione che ha indotto Clemente V a donare i beni dei Templari ai Cavalieri di Malta non è riportata, il che fa pensare che Clemente V abbia agito in questo modo per paura che i Principi, nei cui Stati si trovavano i beni dei Templari, potessero impossessarsene. Come si può pensare che sia questo il motivo che ha indotto il Papa ad agire così, lui che non aveva avuto nessuno scrupolo a depredare le chiese che aveva visitato, lui che era stato così ingiusto nel condannare un Ordine che aveva così ben servito la Religione per il solo motivo di non contrariare il suo diletto figlio il Re di Francia? Come si può presumere che egli abbia negato a Filippo il Bello la confisca  dei beni dei Templari, lui che aveva sacrificato le loro persone? Quale può essere la conclusione di queste riflessioni sulla nostra storia? Bisogna concludere che i Cavalieri di Malta hanno fatto tutto il possibile per rendersi graditi a Filippo il Bello assecondandolo nel suo progetto, e che Filippo il Bello si sia adoperato per far cadere nelle loro mani i beni dei Templari, e che Clemente V non si sia opposto a questa richiesta del Principe vendicativo. Il ruolo giocato dall’Abate di Vertot è ancora più odioso quando egli sembra voler discolpare i Templari. Egli non ha affatto dissipato le nubi sul loro Ordine. Si sa bene qual è stato il motivo di questo comportamento. Il Gran Maestro di Malta lo nominò nel 1713 storiografo dell’Ordine e gli diede l’autorizzazione a portare la Croce; gli venne successivamente concessa la Comanderia di Santery. Inoltre la sua Storia di Malta, affermano gli autori del Dizionario dei Grandi Uomini, è stata decisamente contestata in più punti per mancanza di esattezza.

L’Abate di Vertot  non ha nulla di cui lamentarsi. Questo giudizio lo ha meritato, perché si potrebbe dire infatti che nasconde la verità quando tratta dei Templari, che era loro nemico, e sebbene sembra che abbia considerato la maggior parte di loro come innocenti, non ha provato vergogna nel tacere le prove più autentiche della loro innocenza.

D.

Perché tutti quelli sopra nominati sono chiamati Compagni?

R.

Essi sono così chiamati perché gli uni lo erano dell’Ordine, e gli altri si erano uniti per distruggerlo.

D.

Quali di questi Compagni mise a morte il Gran Maestro dei Templari?

R.

Fu Filippo il Bello. La Francia si trova ad occidente rispetto alla Palestina. E’ per questa ragione  che si dice al Recipiendario  che fu il Compagno che si trovava alla porta d’Occidente che colpì a morte il Maestro, che era venuto ad ispezionare le opere del Tempio.

D.

Cosa c’è di significativo presso la tomba di Hiram nelle ricezione del Maestro Sublime Scozzese?

R.

Un braciere pieno di fuoco e una pira. Nella Loggia il Recipiendario è collocato tra il sangue e le ceneri di Hiram. Questo illustra il vero genere di morte di Jacques de Molay sotto il nome di Hiram.

 

 

 

Grado di Maestro Perfetto

 

D.

Qual è il senso di questo Grado?

R.

E’ una ripetizione dell’Apprendista, Compagno e Maestro Bleu. Viene messo in evidenza che in questo Grado si fa tutto per 4. E’ chiamato Maestro Perfetto perché viene fornita la prova convincente che non si può essere ricevuti come Maestro Bleu se non dopo essere stati ricevuti come Apprendista e Compagno Bleu, e solo allora si diventa veramente Massoni.

Inoltre il grado è significativo per il fatto che al Recipiendario viene messa una corda intorno al collo, che rappresenta il supplizio di Squin e la morte tragica di Noffodei.

Grado del Piccolo Eletto o Eletto dei 9

 

D.

Cosa rappresenta questo Grado?

R.

Rappresenta la vendetta che alcuni Templari consumarono nei confronti di uno di quelli che avevano tradito l’Ordine. Colui il quale viene ricevuto è subito accusato di essere l’assassino del Gran Maestro. Egli si difende dall’accusa, e propone di vendicarne la morte e di sopprimere il traditore Abhiram, così chiamato dai Massoni poiché la storia non riporta il suo vero nome. Quindi il Recipiendario viene condotto in una caverna dove con l’aiuto di una lanterna colpisce il fantasma che là è nascosto.

Quando i Templari attraversarono la caverna, uno di loro, rappresentato da Stolkin, attese la notte per attaccare Abhiram e trapassò con la spada il corpo del miserabile, e con questa morte vendicò il suo Ordine.

D.

Chi rappresenta lo Sconosciuto?

R.

1 – Un uomo che conosceva Abhiram, e che indicò la sua dimora ai Templari nel modo seguente: quest’uomo incontrò sul far della notte i Templari che da qualche giorno cercavano Abhiram. Quando furono vicini, come riferisce la storia dei Templari, un Cavaliere del Tempio, temendo di non riuscire a trovare Abhiram, si avvicinò a questo sconosciuto e gli disse: “Io cerco una persona con cui sono in affari. Mi è stato detto che abita in questa strada, ma io non riesco a trovare la sua casa”. Lo Sconosciuto gli rispose: “Io conosco tutti quelli che abitano qui e potrei aiutarvi se voi poteste farmene una descrizione”. il Templare gliela fece subito e lo Sconosciuto gli indicò la casa di Abhiram e se ne andò.

 

2 – Il cane del templare rappresenta lo Sconosciuto. Dopo questa scoperta, il Templare si reca a casa di Abhiram, ma gli viene detto che egli non c’è, e che ha l’abitudine di non rientrare che verso la fine della notte. Il Templare decise di attenderlo, passeggiando su e giù per la strada, senza perdere di vista la casa di Abhiram, che effettivamente ritornò per rientrare a casa. Il cane del Templare abbaiò come Abhiram apparve; così avvertito, il Templare guadagnò la destra di quello che sopraggiungeva e, avendo riconosciuto il traditore, lo costrinse a sguainare la spada; dal combattimento il Templare uscì vittorioso.

D.

Cosa rappresentano le colonne bianche avvolte dalle fiamme?

R.

Il Gran Maestro e i Templari gettati sulle pire ardenti.

 

 

 

Grado del Cavaliere del Sole

 

D.

Cosa contiene questo Grado?

R.

La spiegazione morale delle qualità che dovevano possedere coloro che aspirano ad entrare nell’Ordine dei Templari.

 

 

Grado del Perfetto Scozzese

 

D.

Cosa significa questo Grado?

R.

E stato detto prima che Squin de Florian, borghese di Bessiers, era stato ricompensato per aver sostenuto l’accusa contro i Templari di fronte a Filippo il Bello. I Templari che erano sfuggiti alla persecuzione, misero sotto osservazione la condotta di questo mostro, e avendolo sorpreso a commettere nuovi crimini, lo denunciarono ed egli fu impiccato. E’ per questo che il Recipiendario viene accusato di essere in combutta con un altro miserabile per tradire l’Ordine dei Templari, e di essersi macchiato da numerosi crimini, tra cui la falsa testimonianza; ed infine è per perpetuare la memoria del suo supplizio e della vendetta dei Templari che si fanno subire simbolicamente al Recipiendario le stesse pene.

 


 

 

Grado Simbolico di

Comandante del Tempio

 

D.

Che rapporto ha questo Grado con l’Ordine dei Templari?

R.

In questo grado è ricostruito l’ingiusto tradimento perpetuato nei confronti del Gran Maestro e dei Templari; vengono raffigurate la loro carcerazione, le loro torture, come l’Ordine venne salvato dal naufragio e come venne evitata la rovina totale. Per questa ragione i Recipiendario viene spogliato, le sue mani incatenate dietro la schiena, coricato su un pagliericcio, rappresentando il Gran Maestro e i Cavalieri incatenati e imprigionati. La liberazione è il simbolo di quella dell’Ordine che, ricoverato in luoghi segreti, riconquistò la libertà.

D.

Cosa rappresenta il sole nel quale il Recipiendario deve struggersi?

R.

La pira sulla quale è perito il Gran Maestro.

D.

Cosa rappresentano gli operai che lavorano e gli altri che li difendono?

R.

Quelli che lavorano rappresentano il Gran Maestro e i Cavalieri che erano tra i tormenti, quelli che li difendono rappresentano il nuovo Gran Maestro e coloro che, sfuggiti alla persecuzione dei loro nemici, lavorano per conservare l’Ordine.

D.

Chi rappresenta Nabucodonosor?

R.

Filippo il Bello.

D.

Chi rappresenta Ciro?

R.

Jacques de Molay che ordina a colui che è stato proclamato Gran Maestro, rappresentato da Zorobabele, di rimediare alle perdite che ha subito l’Ordine. Passo ora ad illustrare il seguito di questo Grado, che sarà replicato parlando della Dignità di Commendatore dell’Ordine dei Templari.

 

 

Grado del Cavaliere

del Leone

 

D.

Cosa ci insegna questo Grado soprattutto in rapporto al nostro Ordine?

R.

Ci ricorda tutto quello che è stato fatto a Jacques de Molay prima di essere abbandonato alle fiamme.

1 – Il Recipiendario viene spogliato, gli vengono legate le mani dietro la schiena, viene legato ad un palo e gli vengono bendati gli occhi. Tutto ciò esprime tutti i supplizi che furono inferti a Jacques de Molay quando fu arrestato per ordine di Filippo il Bello.  2 – Si pongono al Recipiendario diverse domande, che sono la rappresentazione  dell’interrogatorio subito da Jacques de Molay.

3 – Si conduce il Recipiendario in un altro luogo, lo si lega su di un tavolo, gli si sbendano gli occhi, e, alla debole luce di una lanterna, egli vede l’immagine della morte. Questo ci ricorda che Jacques de Molay fu in seguito messo in prigione e qui gli si fece capire quale sorte l’attendeva.

4 – Infine il Recipiendario viene slegato e gli si da un pugnale la cui punta è rivolta verso il suo cuore. Questo ci ricorda che Jacques de Molay fu condotto in pubblico affinché confessasse i crimini che gli erano stati imputati a lui e al suo Ordine, e che gli si fece capire che sarebbe morto se si fosse rifiutato.

Il seguito di questo Grado si troverà esposto quando si tratterà della Dignità di Priore di gran Croce, di cui è il simbolo.

 

 

Grado di Principe di

Gerusalemme

 

D. Cosa ci insegna questo Grado in rapporto al nostro Ordine?
R. E’ in un certo senso il simbolo della Dignità di Gran Maestro. Infatti ci ricorda che quando i Re di Gerusalemme erano assenti, il Gran Maestro del Tempio e quello dell’Ordine di San Giovanni, col quale noi concorrevamo alla difesa dei Luoghi Santi, governavano la Città e lo Stato.
D. Chi rappresenta Dario?
R. L’Onnipotente che non ha permesso che il nostro Ordine fosse totalmente distrutto.
D. Chi rappresentano i Samaritani?
R. Quelli che ci hanno perseguitato
D. Chi rappresenta Zorobabele?
R. Il nuovo Gran Maestro, che con prudenza, coraggio e con il soccorso di quelli che lo accompagnavano, seppe conservare l’Ordine.
D. Cosa significano i combattimenti?

R.

Le pene che hanno dovuto sopportare i Templari per evitare i colpi iniqui dei loro nemici, le sofferenze di quelli tra loro che morirono a causa delle persecuzioni, e i combattimenti che forse saranno obbligati a sostenere sia per la liberazione dei Luoghi Santi, sia per riappropriarsi dei loro beni.

D.

Cosa rappresentano le numerose luci che sono poste ad Occidente?

R.

I roghi che furono accesi in molti luoghi di questa parte del mondo, in mezzo ai quali perirono un gran numero di Templari e anche il loro Gran Maestro.

D.

Perché sono chiamati fuochi di gioia?

R.

Perché esprimono la gioia crudele dei nostri nemici che vedono l’innocenza oppressa.

 

I Gradi di cui si è parlato sopra e che sono conferiti in alcune Logge, non sono affatto trattati nei manoscritti dei Templari, da cui sono tratte tutte le spiegazioni che abbiamo sin qui esposto; ma si possono facilmente interpretare dopo aver conosciuto le altre.

Grado di Rosacroce e

Cavaliere della Tripla Croce

 

Questi due gradi sono stati istituiti dopo qualche tempo dal Grande Oriente di Francia, e ci riportano le ultime memorie dei Templari. Il motivo di questa decisione è lo stesso che ha fatto proscrivere il Grado di Kadosh.

Qualcuno dei membri del Grande Oriente ricevuto come Cavaliere del Tempio e che aveva dei parenti nell’Ordine di Malta, per compiacere questi loro congiunti, gli fecero intendere di non avere questo Grado, che era contrario alla religione, e hanno indicato loro quello di Rosa Croce e Cavaliere della Tripla Croce, come scopo finale di tutti i lavori massonici.

Altri, anche dopo essere stati ricevuti come Cavalieri del Tempio, sono stati affiliati ai Cavalieri di Malta per poter ottenere delle Comanderie, così che per interesse personale hanno calpestato i loro impegni solenni, e sono diventati spergiuri, considerando ormai remota la possibilità di riappropriarci dei nostro patrimonio. Forse per difetto di coraggio non erano andati in soccorso dei loro Fratelli; hanno preferito gioire del presente e, tradendo il loro Ordine, si sono ricongiunti ai primi.

Altri Cavalieri del Tempio, che ugualmente avevano congiunti nell’Ordine di Malta, hanno tenuto fede alla probità ed al coraggio così da non sacrificare il loro Ordine agli interessi della loro famiglia. Essi si sono uniti a quei Templari zelanti difensori dell’innocenza, non hanno voluto violare le loro promesse, e continuano sempre a vegliare per preservare un Ordine al quale si sono liberamente votati.

Si stabilì di conferire lo stesso questi Gradi che, lungi dal danneggiare il nostro Ordine, lo mettevano al riparo dal tradimento, rendendo più facile adire motivi per impedire l’ingresso di persona di cui di poteva diffidare.

Questi Gradi sono spigati nel modo seguente:

Grado di Rosa Croce

 

D.

Cosa rappresenta questo Grado?

R.

Le sofferenze del Gran Maestro dei Templari quando, incatenato, fu gettato prima in prigione e poi precipitato tra le fiamme, dopo che gli erano state inflitte le più crudeli torture.

D.

Cosa significa la Cena?

R.

Essa è la rappresentazione dei pasti che i Templari facevano in comune.

 

 

Grado del Cavaliere della Tripla Croce

 

D.

Cosa ci insegna questo Grado?

R.

Che un Templare deve combattere gli Infedeli, sconfiggerli o morire.

D.

Non ci insegna nient’altro?

R.

Ci ricorda le Crociate, ci mostra i Luoghi Santi profanati, e ci istruisce sulle obbligazioni cui abbiamo promesso di adempiere entrando nell’Ordine.

D.

Perché qui si accenna alla prigionia di San Luigi?

R.

Perché durante questa Crociata il nostro Ordine, il cui Gran Maestro di allora era Guglielmo di Sonnac, acquisì una gloria immortale.

R.

Perché qui si parla della sofferenza e della morte di Gesù Cristo?

D.

Perché i Templari, quando hanno istituito la Massoneria, furono particolarmente attenti perché ci si rendesse conto di essere nello stesso tempo difensori della Religione e difensori del nostro Ordine?

R.

Bisogna ricordarsi di tutto quello che è stato detto sin’ora. E’ facile comprendere che i Templari l’hanno fatto per persuadere la posterità, quando l’Ordine sarà riunito, che si è perseguitati ingiustamente i Templari, supponendo falsamente che essi avessero commesso dei crimini, e che fossero ostili alla stessa religione; che essi non avevano mai perso di vista lo scopo per il quale il loro Ordine era stato fondato, e che erano stati sempre fedeli ai loro giuramenti.

 

 

Cavaliere del Tempio sotto il nome

di Grande Eletto o Cavaliere Cados

 

D.

Cosa rappresenta il Grande Eletto o Cavaliere Cados o Kadosh?

R.

Rappresenta la cerimonia di ricezione dei Cavalieri del Tempio, la loro disunione con i Cavalieri di Malta, e il loro giuramento di essere sottomessi agli Statuti dell’Ordine nel quale erano stati ammessi. Può anche essere considerato il punto conclusivo di tutti i Gradi Simbolici di cui si è parlato sopra, con l’eccezione dei Gradi di Comandante del Tempio, di Cavaliere del Leone e di Principe di Gerusalemme.

Non bisogna mai dimenticare che colui il quale è ricevuto Templare da un semplice Cavaliere, non può raggiungere le Dignità dell’Ordine se non pronunciando davanti al Gran Maestro quelle professioni che un singolo Cavaliere non può esigere, e che sono riportate nella cerimonia di questa ricezione condotta dal Gran Maestro.

Dignità di Commendatore

dell’Ordine dei Templari

 

Nella cerimonia di ricezione dei Comandanti del Tempio si trova la spiegazione dei simboli del Grado Simbolico di Commendatore. Così come nella prima parte Filippo il Bello, rappresentato da Nabucodonosor, vuole distruggere i Templari, Jacques de Molay, il loro Gran Maestro, rappresentato da Ciro, ne nomina uno nuovo, rappresentato da Zorobabele, per occupare il suo posto, e gli dona dei rimedi per la pestilenza che affligge l’Ordine, ordinandogli di ricevere nuovi Cavalieri per riempire i posti vuoti. Nella seconda parte dello stesso Grado similmente noi veniamo a sapere: 1- la sorte e il nome di colui che è nascosto nella torre; 2 – chi Dario designa come nuovo Gran Maestro;  3 – che i 72 Maestri designano coloro i quali saranno ricevuti come Commendatori. Colui che si trova nella torre rappresenta il Templare chiamato Noffodei, condannato da Jacques de Molay, insieme al suo compagno di dissolutezza, a trascorrere il resto della sua vita all’interno di quattro mura per crimini da loro commessi. Essi forzarono la loro prigione, evasero ed accusarono i Templari di fronte a Filippo il Bello che sapevano essere nemico dell’Ordine. Dopo la morte ingiusta di Jacques de Molay e della maggior parte dei Templari, il nuovo Gran Maestro inviò dei Cavalieri per arrestare questi miserabili. I Cavalieri non trovarono che Noffodei che fu impiccato ad un albero dopo essere stato colpito da un colpo di lancia realizzata da uno stiletto fissato in cima ad un bastone. Ogni Cavaliere teneva la sua lama ben nascosta temendo di suscitare qualche sospetto, ed essi si armarono solo quando fu dato il segnale che avevano convenuto.

Questo fatto, tratto dalle memorie dei Templari, è spiegato con maggiori dettagli nella cerimonia di ricezione di Commendatore dell’Ordine.

Dignità di Priore di Gran Croce dell’Ordine

dei Templari

 

Abbiamo già visto come Noffodei era stato condannato da Jacques de Molay a essere imprigionato insieme al suo compagno di dissolutezze, come essi evasero dalla loro prigione e accusarono i Templari davanti a Filippo il Bello; abbiamo anche già visto il supplizio di Noffodei. Il Priore di Mountfaucon, che era il suo compagno di malaffare, fu ugualmente messo a morte, come si può apprendere dalla cerimonia di ricezione dei Priori di Gran Croce dell’Ordine, che è riportata dai manoscritti dei Templari.

E’ importante che voi sappiate che i Templari, in un Capitolo, hanno stabilito che le altre Dignità dell’Ordine sarebbero state comprese in quelle di Commendatore e Priore di Gran Croce, in modo che fosse possibile nominare quelli tra i Comandanti che avessero meriti e le virtù per essere scelti.

Raccolta degli Statuti

dell’Ordine dei Templari

 

Gli Statuti si dividono in due classi. la prima contiene gli antichi Statuti, cioè quelli che erano in vigore prima della persecuzione. La seconda comprende i nuovi, cioè quelli che sono stati promulgati dopo la persecuzione.

E’ risaputo che per essere ricevuti nell’Ordine era necessario pronunciare i 3 voti solenni di obbedienza, di castità e di povertà; che c’erano degli Statuti relativi al governo dell’Ordine prima della persecuzione, ma come la persecuzione ha costretto i Templari a seguire altre strade per garantire la conservazione dell’Ordine. Noi qui esporremo gli Statuti che sono in vigore per noi, per l’osservanza dei quali si presta un giuramento a seconda della Dignità a cui si perviene.

Statuti antichi per l’osservanza dei quali

i Cavalieri prestano giuramento

 

Tutti quelli che saranno ammessi nell’Ordine dei Templari saranno tenuti a giurare e promettere a Dio, avendo un ginocchio a terra, la mano destra su di un crocifisso e la mano sinistra sulla guardia della spada:

  1. Di giammai violare gli Statuti dell’Ordine.
  2. Di combattere sempre per la difesa della Religione Cristiana.
  3. Di sottomettersi al Gran Maestro dell’Ordine e ai suoi rappresentanti.
  4. Di perire piuttosto che abbandonare le Bandiere dell’Ordine o i propri compagni d’armi.

Statuti nuovi che vanno osservati

dagli Stessi

 

Tutti quelli che saranno ammessi nell’Ordine successivamente giureranno e prometteranno a Dio nella stessa maniera descritta sopra:

  1. Di mai rivelare quello che si è voluto far loro conoscere, sia che siano accettati o no
  2. Di non affiliarsi mai ai Cavalieri di Malta.
  3. Di leggere la Storia di Malta dell’Abate di Vertot per quel che riguarda il nostro Ordine.
  4. Di sottomettersi agli Statuti dell’Ordine fino a quando il tempo sarà venuto di renderli manifesti.
  5. Di essere sottomessi al Gran Maestro che li ha ricevuti e di riconoscerlo sempre come tale.
  6. Di assecondare gli sforzi del proprio Gran Maestro e quelli dei Cavalieri per rientrare in possesso del nostro patrimonio appena se ne dovesse presentare l’occasione.
  7. Di giammai tradire il proprio Re e la propria Patria.

Statuti antichi per l’osservanza dei quali

I Commendatori prestano giuramento

 

Tutti quelli che perverranno alla Dignità di Comandante metteranno il ginocchio destro in terra, la mano destra sul cuore, la sinistra su di un crocefisso e prometteranno a Dio:

  1. Di provvedere ai bisogni dell’Ordine in proporzione dei beni di cui l’Ordine li avrà gratificati.
  2. Al primo ordine che potrebbero ricevere dal Gran Maestro di essere pronti ad  abbandonare i luoghi che gli erano stati assegnati per ritirarsi, e di venire in soccorso dell’Ordine e del gran Maestro o, in caso che non ci fosse bisogno di loro, di preparare un numero di novizi fidati per il Capitolo o proporzionati ai beni amministrati per rimpiazzare i Cavalieri che potrebbero perire.

Statuti nuovi da osservare

da parte degli stessi

 

I Commendatori saranno tenuti a giurare e promettere a Dio nella stessa forma sopra descritta:

Di non conferire la Dignità di Commendatore fintanto che il Gran Maestro non avrà dato loro il potere di farlo.

Era stato stabilito nell’Ordine che solo il Gran Maestro poteva conferire loro questa Dignità, ma dopo la persecuzione venne introdotta la regola che il Gran Maestro avrebbe potuto delegare tale potere alla persona da lui indicata a succedergli.

Statuti antichi per l’osservanza dei quali

i Priori di Gran Croce

devono prestare giuramento

 

Tutti quelli che perverranno alla Dignità di Priore di Gran Croce metteranno il ginocchio sinistro in terra, il cappello sul ginocchio destro, terranno nella mano destra la loro spada con la punta rivolta verso il cielo, metteranno la mano sinistra su un crocifisso e giureranno e prometteranno a Dio:

  1. Di non usurpare mai i diritti del Consiglio Privato, e di vegliare sempre sulla sua sicurezza.
  2. Di sottomettersi alle decisioni di detto Consiglio.
  3. Di non favorire mai situazioni che potrebbero essere contro il bene dell’Ordine, né di lasciarsi coinvolgere dallo spirito di cabala per qualche partito.
  4. Di non usurpare giammai i diritti del Gran Maestro.

Statuti nuovi da osservare

da parte degli stessi

I Priori di Gran Croce saranno tenuti a giurare e promettere a Dio nella stessa forma sopra descritta:

  1. Di non conferire mai la Dignità di Priore di Gran Croce che ad un Commendatore e solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Gran Maestro.
  2. Di vegliare costantemente alla sicurezza del Gran Maestro.

Statuti antichi per l’osservanza dei quali

colui che sta per essere proclamato Gran Maestro

deve prestare giuramento

 

 

Colui il quale deve essere proclamato Gran Maestro mette il ginocchio destro in terra sul suo cappello, stringe un pugnale con la mano sinistra e una spada con la destra, incrocia le due armi su un crocefisso in modo che il pugnale sia sotto la spada e giura e promette a Dio:

  1. Di non considerare che il merito per accordare le Dignità dell’Ordine.
  2. Di non opprimere mai i Cavalieri con servaggi ingiusti.
  3. Di non servirsi mai del proprio potere per dissipare i beni dell’Ordine o per commettere abusi.

Statuti nuovi da osservare

da parte dello stesso

 

Come venne stabilito nell’ultimo capitolo che un Gran Maestro, per la conservazione dell’Ordine, poteva sia nominare un successore sia succedere al predecessore essendo eletto dagli altri; venne inoltre stabilito che egli avrebbe giurato e promesso a Dio:

  1. Di osservare fedelmente tutte le promesse che avesse pronunciato d’ora in poi.
  2. Di non rivelare mai ciò che potrà vedere o che gli potrà essere confidato.
  3. Di versare fino all’ultima goccia del suo sangue per la difesa della Religione Cristiana.
  4. Di combattere gli infedeli, sconfiggerli e liberare il Santo Sepolcro qualora si dovesse presentare l’occasione.
  5. Di vegliare affinché gli Statuti che potrebbero essere fatti o rinnovati quando l’Ordine sarà riunito, siano osservati con esattezza e di essere il primo a sottomettersi agli stessi.
  6. Di non possedere nulla di proprio quando l’Ordine sarà riunito.
  7. Di non poter godere dei privilegi di Gran Maestro che solo dopo la morte del suo predecessore; che non può aversi che un solo Gran Maestro. (Questo Statuto si applica durante la proclamazione).
  8. Di mettersi alla testa dei Cavalieri e di affrontare ogni pericolo per rientrare in possesso del nostro patrimonio.
  9. Di obbedire in tutto a colui che lo ha eletto Gran Maestro.

10. Di non eleggere alcun Gran Maestro se non dopo la morte di colui dal quale è stato eletto o senza la sua autorizzazione; di non eleggere nessuno senza fargli promettere obbedienza verso colui o coloro che l’hanno proclamato.

11. Di non creare nessun Commendatore o Priore senza l’autorizzazione di colui dal quale è stato eletto.

12. Di non opporsi a che un semplice Cavaliere richieda l’ingresso di altri nell’Ordine.

13. Di morire tra i più atroci tormenti piuttosto che tradire il suo Ordine.

Gli Statuti Generali sono contenuti nelle diverse spiegazioni che abbiamo dato sopra.

 

Onori che devono essere resi a Colui

che viene riconosciuto come

il primo Gran Maestro

 

 

Quando entra in Loggia viene accompagnato da un Fratello Priore di Gran Croce che l’introduce e porta davanti a lui una luce, i due Sorveglianti impugnano la spada e la tengono con la punta verso l’alto, tutti gli altri Fratelli impugnano la spada e la tengono con la punta verso il basso. Egli occupa in Loggia il posto che preferisce, compreso quello del Venerabile.

La Luce che precede il Gran Maestro è il simbolo dello stesso Gran Maestro, che è la vera luce di cui è completamente pervasa la Massoneria, poiché egli è il depositario degli Statuti Segreti e delle spiegazioni che rivelano tutto ciò che riguarda il nostro Ordine, e fanno risplendere radiosa l’innocenza dei Templari.

Gli altri Gran Maestri ricevuti dopo di lui o da lui sono egualmente introdotti da un Priore di Gran Croce che porta una luce davanti a loro, con l’identico cerimoniale da parte dei Fratelli della Loggia, salvo che i Sorveglianti non impugnano la spada. Questa differenza si spiega col fatto che solo il primo Gran Maestro ha di diritto alla supreme podestà, e che gli altri non possono rivestire il loro rango se non dopo la sua morte.

Dalla Tradizione alle frontiere della Nuova Scienza

“Le teorie sulla radiazione enunciate da Bohr destano in me enorme interesse. Tuttavia non vorrei essere costretto ad abbandonare troppo in fretta il principio di causalità in senso stretto, senza averlo difeso più tenacemente di quanto abbia fatto finora. Trovo assolutamente intollerabile l’idea che un elettrone esposto a radiazione possa decidere di sua spontanea volontà non soltanto il momento di “saltare”, ma anche la direzione del “salto”. In questo caso preferirei fare il croupier di casinò piuttosto che il fisico… Dio non  gioca a dadi!”  Queste parole vennero pronunciata da Albert Einstein a seguito dei primi esperimenti che avrebbero dato inizio alla meccanica quantistica. Siamo ai primi anni del 1900 ed Einstein, nonostante questi risultati, non volle mai abbandonare, almeno ufficialmente, la sua fiducia nella scienza tradizionale basata sulla legge della causa e dell’effetto. Ma fu in seguito proprio a questi fatti che Niels Henrik David Bohr, (Copenaghen, 7 ottobre 1885, 18 novembre 1962) fisico e matematico danese, a capo della scuola di Copenhagen poté affermare che la causalità non è l’unico principio da cui consegue la realtà. Questa, infatti, si basa sulla legge della regolarità e non ammette, se non giustificandola astrusamente con l’attribuire ogni eccezione al “caso”, alcuna libertà acausale né, tanto meno, l’influenza di un soggetto cosciente. Questo tipo di concezione culturale deriva dalla separazione, a decorrere da un certo periodo storico, delle cosiddette scienze esatte dalle scienze umanistiche, considerando le prime superiori alle seconde. Ne derivò che da Cartesio in poi, il quale operò la scissione della  realtà spirituale  (res cogitans)  dalla realtà  fisica  (res extensa), vi fu una frattura insanabile tra la dimensione gnoseologica, o della conoscenza, e quella ontologica, o dell’essere in sé.  La meccanica quantistica sostiene che la sola legge della causa e dell’effetto non è applicabile all’oggetto del nostro studio, rappresentato dalla natura, bensì, è applicabile solamente alle manifestazioni generate da quest’ultima, in quanto la natura in sé sarebbe, essa stessa, coscienza. In buona sostanza si sostiene che la coscienza in generale e la coscienza dell’uomo in particolare, la sua mente, abbia la capacità di influenzare la realtà circostante nel momento dell’osservazione. Ciò che sorprende enormemente è che i principi e le teorie sui quali si basa questa nuova scienza li ritroviamo, analogamente e in forma misticheggiante, nelle antiche dottrine e nelle culture greche e indo iraniche, risalenti anche a ben oltre tremila anni prima di Cristo. Sarebbe, peraltro, inverosimile sostenere che quei popoli abbiano potuto disporre di strumenti scientifici in grado di portarli ad elaborare tali teorie, per cui dobbiamo ipotizzare che essi, pur nella pratica osservazione dei fenomeni naturali, si siano basati prevalentemente sull’intuizione. Lo stesso Niels Bohr sostenne, a seguito di un suo viaggio in oriente, che la visione filosofica di quei popoli meglio si conciliava, della filosofia occidentale, con le nuove teorie elaborate dalla meccanica quantistica. La dottrina samkya è una delle più antiche dell’India, benché il primo testo sistematico di tale scuola, il  Samkya-Karika, risalga al IV secolo d.C.. In essa viene elaborata la teoria dell’esistenza di due realtà differenti ma ugualmente eterne: le anime individuali (purusa) e la materia (prakrti). L’esistenza del samsara, considerata la realtà illusoria e causa principale della sofferenza, ovvero il divenire fenomenico, viene determinata dalla triplice combinazione dinamica dei modi di essere di parusa e prakrtisattva (leggero, luminoso, piacevole) rajas (mobile, dinamico, doloroso) e tamas (inerte, ottuso, ostacolante). Sull’idea che il mondo empirico sia prodotto dal perpetuo dinamismo dei tre modi di essere di parusa e prakrti, si basa una delle teorie più interessanti di quella speculazione: la preesistenza dell’effetto sulla causa. L’effetto, dunque, sarebbe una metamorfosi della causa, identico ad essa nella sua sostanza; ovvero sarebbe una sua trasformazione, derivante dall’avvicendamento dei tre modi di essere, sattva, rajas e tamas. Nella nuova scienza ritorna centrale il concetto di nous, da cui deriva il termine noetica. Il significato del termine trova la sua originale accezione nel periodo arcaico. Con esso Anassagora indica l’”Intelletto ordinatore”, mentre in Parmenide è “Identità di essere e pensiero”; per Platone è “Intelletto puro” che permette la conoscenza divina e si contrappone alla ragione discorsiva, “dianoia” (dialettica); per Aristotele è “pensiero di pensiero” e dunque autocoscienza, intuizione; il significato greco di noesis è infatti auto-intuizione. Per Plotino, infine, è piena “identità indivisa  di soggetto e oggetto”, dove non sussiste alcun dualismo, in quanto è auto-contemplazione dell’Uno, un traboccare estatico: estasi significa “uscire fuori da sé”. La noetica, infatti, è una disciplina e una scienza che si occupa dello studio della coscienza e della sua capacità di interagire con la realtà materiale e immateriale. Dunque soggetto e oggetto, osservatore e cosa osservata, non sarebbero più due enti distinti e separati, come sosteneva la vecchia concezione fisica. La noetica si propone, attraverso gli esperimenti della meccanica quantistica, di ridurre progressivamente, fino ad eliminarla del tutto, la separazione tra il soggetto e l’oggetto, ovvero tra materia e spirito, ovvero tra l’immanente e il trascendente. L’antica speculazione vedica, la cui raccolta dei testi sacri Veda risale al XX secolo a. C., nella sua visione mistico speculativa indica, come motivo principale dell’esistenza, la ricerca della salvezza attraverso la conoscenza dell’essenza del proprio io e del suo rapporto con lo spirito assoluto. Questo concetto, che esclude alla base qualsiasi principio dualistico tra spirito e materia, consiste nella liberazione dell’individuo attraverso la negazione del così detto samsara, verso il nirvana, cioè l’identificazione del proprio spirito con lo spirito assoluto. Il concetto centrale è quello di un principio unico alla base della vita universale e di quella dell’essere umano. Tale principio, che potremmo definire anche anima, spirito, o coscienza universale, nelle Upanisad è rappresentato dall’Atman. L’Atman è immune da ogni influenza empirica e spazio temporale ed è considerato ineffabile e definibile soltanto in forma negativa, ovvero di lui si può dire soltanto ciò che non è.  Benché principio unico e indifferente e nonostante questa sua forma metempirica, l’Atman è presente in ciascun individuo e rappresenta il proprio io essenziale e non l’io apparente.  Questo problema del sé individuale microcosmico, identico al sé universale macrocosmico, che esclude qualsiasi forma di dualismo, in Mandukya Upanisad, III, 7, viene spiegato nel modo seguente: “Come l’aria racchiusa nella brocca non è una trasformazione, né una parte dell’aria esterna ad essa, così il Sé individuale non è né una trasformazione né una parte del Sé universale.” L’Atman è identificato anche nell’energia spirituale contenuta e sprigionata nella preghiera: il Brahman, che nella speculazione Brahmana è considerato quale sostanza originaria del tutto. Ciò che impedisce la conoscenza dell’antinomia tra l’essenza del proprio io universale, l’Atman e l’apparenza del proprio io empirico, nelle Upanisad viene identificato nel Karman, il dinamismo, l’ignoranza insita dell’azione, che agisce attraverso la concatenazione degli eventi e dei pensieri. La liberazione dal samsara consiste, pertanto, nella presa di coscienza, ovvero nella conoscenza di tale antinomia e nel tendere verso l’Atman. Questo tipo di concezione, che tende ad annullare ogni dicotomia ed ogni scissione del reale, ci fa ben comprendere perché in India sia stata sempre minima la suddivisione fra religione e filosofia, fra scienza e misticismo. I più recenti risultati ottenuti nella sperimentazione della meccanica quantistica hanno condotto ad una ulteriore enfatizzazione del ruolo della coscienza, tanto da poter asserire che nulla può esistere oltre la percezione del soggetto cosciente e, pertanto, non ha alcun senso sostenere la scissione tra il soggetto e l’oggetto come due realtà a se stanti, per il fatto che ciò che esiste è unicamente e unitariamente l’essere che viene percepito. La scuola madhyamika e la scuola yogacara elaborarono la metafisica buddista del cosi detto grande veicolo. Nagarjuna, vissuto nell’India nord occidentale attorno alla metà del II secolo d. C. fu una delle più eminenti personalità del pensiero indiano, oltre che fondatore della scuola madhyamika. Nella sua filosofia, esposta nei 400 versi del Madhyamika-Karika, egli decreta, in forma logica e argomentata, l’insostenibilità dei concetti empirici in quanto contradditori, come lo è, ad esempio, il concetto di tempo. Nel mondo empirico nulla possiede una natura propria, ma tutte le cose si condizionano reciprocamente, annullando il proprio essere soggettivo e oggettivo in quello che viene considerato il mondo dell’apparenza. Ne consegue che tutto ciò che è compreso entro il mondo del molteplice e dell’opinione, altro non è che il prodotto dell’immaginazione del soggetto cosciente, ovvero dell’uomo. Il luogo in cui si dissolve la realtà illusoria del mondo dell’opinione è il vuoto, un’entità considerata non reale situata oltre il velo dell’apparenza (maya). Dalla consapevolezza che ogni cosa si riduce e si identifica entro questa sorta di monismo metafisico, quale è il vuoto, ne consegue l’eliminazione di ogni forma dualistica e si può raggiungere la liberazione. In questo modo l’assoluto non apparirà più come un entità esterna rispetto al mondo fenomenico e relativo, ma si identificherà con esso e, dunque, il nirvana e il samsara ci appariranno come due qualità appartenenti alla stessa ed unica realtà. In parallelo a questa interpretazione del vuoto metafisico di Nagarjuna, l’altra scuola filosofica del grande veicolo,  lo yogacara, elaborò la teoria secondo cui tutto ciò che esiste altro non è che coscienza, vijnana. Per questo motivo la scuola venne detta anche vijnanavada. Gli oggetti esistono solo in relazione con il soggetto conoscente e, dunque con la sua coscienza, che a sua volta è realtà assoluta e incondizionata. In questo modo la coscienza, nell’esprimere la sua potenzialità, compie un atto di creazione, ovvero può dare origine al proprio contenuto. Fondatore della scuola è ritenuto Maytreya, vissuto forse nel IV secolo d.C., ma i suoi più illustri esponenti furono i fratelli Asanga e Vasubandhu, vissuti all’inizio del V secolo d.C.. Secondo un altra teoria yogacara si perviene alla liberazione dal samsara intraprendendo la giusta via dello studio e della ricerca verso la conoscenza: “di due raggi, uno dei quali proviene da un gioiello e l’altro da una lampada, nessuno dei due è il gioiello, ma scambiando il primo per un gioiello si può pervenire a quest’ultimo, e non invece se ci si affida all’altro”. I  principi e gli indirizzi teorici su cui si muove la scienza  noetica  e la  meccanica  quantistica ci forniscono l’idea  di  una  sintesi  della conoscenza che risale ad oltre tre millenni. Possiamo indicare, in maniera speculativa, un macro periodo che va dalle origini della cultura fino all’Umanesimo come “era delle tesi o delle affermazioni”, per confluire in un “era dell’antitesi o delle negazioni”, che potremmo far decorrere dal periodo meccanicistico ed illuminista fino ad arrivare a ridosso dei giorni nostri. Ora si presenta la possibilità, con l’avvento della “nuova scienza”, di un ”era della sintesi o delle riaffermazioni”, in cui vengono riscoperti e rivalutati quei concetti appartenenti alla Tradizione che erano stati sminuiti e perfino ridicolizzati dalla vecchia scienza. Mi riferisco alla “Teoria del Tutto”, alla “Geometria Sacra”, alla “Simbologia Universale”, alla “Metafisica dei Numeri” e, infine, alla “Scienza Alchemica”, che viene oggi riconosciuta dalla noetica come la “suprema scienza della trasformazione interna”, il cui concetto basilare era la trasmutazione del sé umano inferiore nel suo corrispondente divino superiore, che simbolicamente gli alchimisti intendevano nel risanare la corruzione della materia con  l’opera della  trasmutazione del piombo (metallo vile e inferiore) in oro (metallo nobile e superiore). In questa prospettiva ci perviene il messaggio che le antiche filosofie tentano di comunicarci tramite le teorie della nuova scienza e consiste nella negazione e nel superamento del dualismo spirito-materia e soggetto-oggetto, entro una nuova dimensione di sintesi di uno spirito-coscienza universale. Espressione del misticismo ermetico è: “ Quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius” (Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso). L’Atman è la Realtà sottesa ad ogni aspetto del mondo delle forme e si identifica, a livello microcosmico, con il Sé individuale dell’uomo. L’identità tra Atman e Brahman, l’origine di ogni cosa, è enunciata nella frase della Chandogya Upanisad: “Tat tvam Asi”  (Tu sei Quello).

Sandro Secci

I simboli delle maestranze di costruttori

Il periodo che seguì lo scisma tra la Chiesa Romano-Cattolica e quella Greco-Ortodossa nel 1054 diede grande impulso alle costruzioni in Sardegna. Nell’isola, infatti, approdarono monaci benedettini di culto cattolico, legati alla Chiesa di Roma, che introdussero dall’Italia, ma anche da altrove (Francia, Spagna), maestranze di costruttori specializzati nello stile romanico e, a partire dalla fine dell’XI secolo, il nuovo modo di costruire. Ciò, naturalmente, non vuol dire che l’architettura medioevale in Sardegna sia iniziata con i monaci benedettini, ma fu effettivamente importata dalle maestranze al loro seguito. L’architettura è sempre stata un’arte che richiedeva uno speciale addestramento: vescovi e abati, tranne qualche eccezione, non furono mai gli architetti delle proprie chiese; ingaggiavano i maestri del mestiere dando loro istruzioni per il lavoro, senza assumerne il controllo tecnico. La costruzione di chiese, monasteri, abbazie, palazzi e castelli, divenne la grande industria dell’epoca.

La presenza nell’isola di maestranze muratorie continentali è tanto evidente dall’estrema modestia delle tracce dei villaggi medioevali abbandonati, poichè la calce veniva usata solo nella costruzione dei rari edifici di speciale importanza e principalmente nelle chiese. Nei documenti riguardanti il mondo rurale il mestiere di muratore è menzionato in modo estremamente sporadico: due citazioni soltanto in epoca giudicale (mastros in pedra et in calcina et in ludu et in linna), (mastriu de fravica e de linna) pongono in evidenza come questa figura di artigiano era di norma assente nella maggior parte dei centri abitati. Tant’è che i pochi documenti che si riferiscono a costruzioni di edifici nei villaggi suggeriscono appunto che a far le case provvedessero di regola i comuni abitanti della villa e non artigiani specializzati, così come avveniva sino a non molti decenni fa. Solo i grandi committenti, i sovrani, famiglie di mayorales, vescovi o priori benedettini, avevano quelle ricchezze da spendere per costruzioni in pietra, con l’assunzione diretta di una squadra di muratori salariati. Perciò lo stile romanico in Sardegna si diffuse nelle zone dove s’insediarono i monaci benedettini, gli Ordini Militari, l’Opera S.Maria di Pisa, Opera di S.Lorenzo di Genova e gli ordini di canonici regolari; il gotico italiano attestato nelle poche aree d’influenza degli Ordini mendicanti provenienti dalla penisola, è pressochè assente. La nascita delle corporazioni di mestiere indigene in Sardegna è legata allo sviluppo, a partire dal XIII secolo, delle istituzioni comunali in alcune città dell’isola: Cagliari, Iglesias, Oristano, Bosa, Alghero, Sassari, Castelsardo, Orosei, dove si formarono delle consuetudini muratorie, col tempo raccolte negli Statuti dei Gremi, ma prima ancora negli Statuti cittadini.

Queste compagnie di muratori, altamente specializzati e con notevoli conoscenze di architettura e progettazione, viaggiando per tutta l’Europa, costruivano soprattutto chiese, abbazie, cattedrali, ma anche altri edifici.

Oltre agli Antelami, in Italia i più famosi erano i cosidetti Magistri Comacini, i “Maestri di Como”, costituenti una corporazione che operava soprattutto in Lombardia specializzati nell’impiego di particolari tecniche costruttive (opus romanum di mattoni o pietre squadrate, opus gallicum di pietrame irregolare). Su costoro sono sorti col tempo degli equivoci: anche se il termine comacinus ricorre nelle antiche leggi longobarde riferito ai muratori dell’area di Como, in realtà, significava probabilmente “compagno muratore” (come comonachus significava “compagno monaco”), senza alcun riferimento a Como.

In Francia erano “Les Fratres Pontis”, costruttori di ponti, nonchè i cosidetti “costruttori di cattedrali”, che lavorarono, tra le altre, alla cattedrale di Chartres, a varie chiese di Rouen e della sua provincia.

Lungo la Via di Santiago svolgevano la loro attività i cosidetti “cagots”, costruttori originari dei Paesi Baschi, tanto bravi da non avere concorrenti, ma venivano chiamati anche come architetti e intagliatori di pietre, costruttori di fortificazioni. In tutti i luoghi in cui si riscontrano i cagots: Spagna (Béarn, Paesi Baschi), Francia (Guyenne, Poitou, Maine, Berry, Bretagne), sotto denominazioni spesso differenti (Colliberts, Gahets, Capots, Crestiaas, Chrétians, Gezitains, Caques, Cacous, Caffets, Cagous, Oiseliers, ecc.) il loro nome è più o meno associato alla lebbra, in realtà una semplice malattia della pelle, detta psoriasi, che comporta il distacco della pelle a squame, come lascia intendere l’appellattivo di colliberts (couleuvres), nota in Francia come “zampa d’oca”. Per questo il simbolo schematico della zampa d’oca, una forchetta a tre bracci  (simile al segno runico della vita, una sorta di “ Y “) fu il marchio distintivo di questi costruttori nelle pietre squadrate delle chiese medioevali. Ritroviamo il termine “colliberts” nella Sardegna medioevale, nel nome di alcune classi servili (liberi) legate all’artigianato, collibertos, detti anche liberos de paniliu. Il simbolo schematico della zampa d’oca sarà profusamente rappresentato dai costruttori (sia come marchio di riconoscimento che come firma) nelle pietre squadrate delle chiese medioevali, nonchè nei crismoni o monogrammi di Cristo. In Sardegna la “zampa d’oca” è stata riscontrata in S.Francesco di Stampace (Cagliari), in S.Eulalia (Cagliari), Castello S.Michele, S.Barbara di Solanas (Sinnai), nel Castello di Laconi (NU).

Dalle sepolture merovingie fino alle cattedrali gotiche, coprendo un ampio spettro che abbraccia chiese visigote ed eremi romanici, troviamo un indizio curioso e sconcertante: le Tavole da Gioco (o Mandala, o Triplice Recinto Sacro). Queste rappresentazioni appaiono come graffiti nei luoghi più insoliti, non già in posizione orizzontale (posizione logica per il loro impiego come tavole da gioco), bensì in raffigurazioni verticali sui muri, vani di feritoie, scale a chiocciola e su altri siti dove non è facile o possibile giocare… La principale manifestazione delle tavole da gioco come simbolo sacro sta nella Cattedrale di Notre Dame di Amiens (Francia), che mostra sul pavimento due grandi “Tavole Quadrate” ed un enorme labirinto ottagonale: sia ben chiaro che una tavola da gioco presente in una cattedrale non trasforma questa in una bisca, ma viceversa la sua presenza in un luogo sacro le fa assumere un significato trascendente. Tra tutte le tavole da gioco spiccano alcune figure generalmente quadrate (ve ne sono anche ottagonali e circolari, anche se in numero esiguo) formate da linee concentriche con raggi e un centro: si tratta di tavole per il gioco dell”Alquerque”, gioco di origine araba (dall’arabo “al-qariq”) simile alla nostra Dama. In Sardegna sono presenti nel Castello di Montiferru, nel S.Salvatore di Sestu, in Ruinas. Il cammino dell’Oca rappresentato nel familiare “Gioco dell’Oca” è una spirale come il guscio di una conchiglia; quella spirale che compare nei marchi compagnerili della cattedrale romanica di Coimbra (Portogallo), la stessa spirale del labirinto medioevale di S.Pietro di Siresa nella Valle di Ansò (Huesca); la stessa di quella conchiglia che sbuca dalla balaustra del coro di Notre Dame de l’Epine (Francia) o dall’arco di accesso al chiostro di San Juan de la Peña (Huesca); la stessa spirale a chiocciola che serve da cavalcatura a quello gnomo della Cattedrale di Lèon (Spagna). La conchiglia è il simbolo distintivo della confraternita dei costruttori del Cammino di Santiago, in quanto marchio di mestiere come la Zampa d’Oca e l’Oca stessa. In Sardegna, tale simbolo è presente a S.Maria di Uta, S.LOrenzo di Silanus (NU), S.Lorenzo di Rebeccu (Bonorva-SS).

La croce era il marchio delle maestranze legate agli Ordini Militari, ed in particolare ai Templari. I modelli rappresentativi di croci sono quattro: la greca, la patente, la tau e la patriarcale; tra queste, la croce greca e quella patente erano quelle di uso più corrente, figurando in numerosi sigilli, dipinti di chiese, tombe di cavalieri, ecc., mentre la croce tau e la croce patriarcale avevano un uso più ristretto, figurando soltanto in determinate chiese, tombe molto particolari, case e castelli. In Spagna la croce greca sembra predominare nella provincia di Castiglia e in Portogallo; in molti casi è accompagnata dal quarto di luna, le stelle e il sole (elicoidale o radiante). La croce patente sembra abbia predominato nell’Aragona, anche se la sua distribuzione è generalmente più diffusa. Una sua variante fu la croce di Malta o “delle Otto Beatitudini”. La croce patriarcale (o “Lignum Crucis”) era l’insegna distintiva del gran maestro dell’Ordine. Infine, la croce a Tau ha avuto una diffusione più contenuta: a partire dal XII secolo l’uso del Tau simboleggiò l’impresa del pellegrinaggio. Ritroviamo la “croce templare” nella Cattedrale di Cagliari, S.Maria di Uta, S.Pietro di Villa S.Pietro, S.Biagio di Dolianova, nelle lastre sepolcrali di S.Domenico di Cagliari.

Un indizio della presenza di Ordini Militari è il soggetto dei cavalieri dell’Apocalisse che cavalcano sulle facciate e i capitelli romanici del Cammino di Santiago. Questi “cavalieri” abbondano nei cammini giacobei dell Ovest e Sud-Ovest della Francia, mentre sono più rari nelle strade giacobee spagnole: chiostro del colleggio di Santillana del Mar (Santander); torre della parrocchia di Cervatos (Santander); portale del Colleggio di Armentia (Alava); facciata di S.Maria la Real a Sangüesa (Navarra); N.S. La Bianca a Villalcazar de Sirga (Palencia); galleria di S.Maria del Cammino a Carriòn de los Condes (Palencia); porta nord del chiostro della cattedrale di Leon; finestra dell’abside del colleggio di S.Maria a Toro (Zamora). In Sardegna si possono notare nel S.Giuliano di Selargius; nel S.Salvatore di Sestu; nel S.Lussorio di Fordongianus (OR), nel S.Gavino di Torres (SS).

Tra gli altri simboli dei mastri costruttori può comparire il crismone  – in apparenza l’anagramma di Cristo – formato da un cerchio in cui si iscrivono le lettere greche X e I sovrapposte, aggiungendosi, secondo i modelli l’Alfa-Omega, una S e una P, oltre ad altri segni meno cristiani, quali il Ponte, l’Ospedale-Albergo-Ospizio, il Maestro-Guida (sotto forma del giullare, gnomo, pellegrino, mago, astrologo, ecc.), il Pozzo, il Carcere, la Morte, il Giardino dell’Oca.

Più significativo risulta un marchio cruciforme che appare in tre chiese poligonali: nel convento del Tempio a Tomar (Portogallo), nel Tempio di Londra e nel Santo Sepolcro di Pisa. In N.S. di Eunate (Eunate, Navarra, Spagna)  esiste un terzo marchio che nel medioevo simboleggiava un pezzo degli scacchi (la torre) e che ricorda il berretto dei giullari e quello del “matto” dei Tarocchi: lo ritroviamo nella cappella di Tomar (Portogallo), nel Santo Sepolcro di Pisa, nelle chiese del Tempio di Laon e di Metz (Francia), nel S.Maria a Berbegal (Huesca, Spagna). Esiste una certa parentela con i segni del monastero di La Oliva (Navarra), la Cattedrale di Tarragona, con S.Maria a Montblanc (Tarragona), e la “Seu” di Manresa (Barcellona). Gli unici esemplari sardi sono rappresentati in alcune lastre sepolcrali medioevali nel chiostro di S.Domenico di Cagliari.

Una variante del Triplice Recinto è il Labirinto (o, “Cammino di Gerusalemme”) posto sul pavimento delle cattedrali. Ne rimangono pochi esemplari: i meglio conservati sono i due della cattedrale di Notre Dame di Amiens (Francia), uno a fianco dell’altare maggiore e l’altro all’entrata del coro; merita anche di essere citato lo strano esemplare del monastero di S.Pietro di Arlanza (Burgos), posto ai piedi della navata vicino alla porta sud della distrutta chiesa; un quarto esemplare, molto rovinato, compare sul pavimento della chiesa del Tempio di Laon (Francia). A Saint Quentin (Francia) il labirinto è accompagnato da sei enormi stelle e da un cuore raggiato, distribuiti per tutta la chiesa.

Nel centro di molti labirinti medioevali veniva posta la “tomba” simbolica del Maestro d’Opera, raffigurata sulla piastrella centrale con uno scheletro con gli arnesi del costruttore, la squadra, il compasso, ecc….

Massimo Rassu

Mithra e l’iniziazione ermetico-solare

Storia di un Culto

Le prime notizie circa il Dio Mithra pervengono dall’arcaica tradizione dei Veda indù e precisamente dal più antico, il Rig-veda, risalente ad un epoca di diverse migliaia di anni fa più remota dalla nascita dell’età volgare, che inquadrano la divinità in questione come reggente di un mondo perfetto delle origini ormai dimenticato, protettore dell’Ordine Universale insieme al dio Varuna. Ritroviamo Mithra, poi, in un’altra tradizione di origine indoeuropea, precisamente in quella iranica, ove, oltre che nell’antico Iran, anche in zone come la Cappadocia, Commagene, del Ponto e le terra dei Mitanni-hurriti, assume la valenza del Numen tutelare del Patto, del Giuramento: tale caratteristica, non solo valse l’acquisizione di un crisma prettamente guerriero, ma anche, nell’antica Persia, permise che il suo culto diventasse la base del sistema feudale dell’impero. Il contatto con il mondo occidentale e quindi con la Romanità avvenne, con l’espandersi della stessa, ad opera dei legionari, anche se Plutarco nella “Vita di Pompeo” narra di “strani riti” celebrati dai pirati della Licia; il culto entrerà ufficialmente a Roma, poi, solo nel 66 d.C., portatovi da Tiridate, re dell’Armenia, in visita a Nerone.  Il contatto con il mondo greco-romano, con le sue istituzioni misteriche (molte sono le similitudini con i Misteri di Eleusi) e con la filosofia neoplatonica – come dimostrano varie opere di Porfirio -, forgiarono una vera e propria via iniziatica ermetica, riservata a pochi eletti, sempre al riparo nei suoi mitrei, nelle sue grotte sotterranee riservate al culto, che simbolicamente possiamo associare al mito platonico della caverna: Mithra nasce alchemicamente dalla pietra, come la vera Luce cova e si manifesta nell’oscurità della notte. Solo una tarda volgarizzazione potè assimilargli il ruolo di Soter, Salvatore, spesso confuso erroneamente col Cristo, e una statalizzazione , voluta da Diocleziano, Galerio e Licino lo proclamò “Deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui”, assimilando il culto a quello ufficiale ed imperiale di Helios, introdotto a Roma, da Emesa, da Aureliano. Una breve introduzione storica si è rilevata necessaria per inquadrare le radici del Culto, che pian piano è andato completandosi, arricchendosi, sicuramente per meglio manifestare tutta la propria potenzialità spirituale, che è di natura ermetica, quindi di origine primordiale, regale ed iniziatica. Il mito e la tradizione fanno ricordare Mithra per due momenti salienti del suo decorso esoterico, cioè per la sua nascita dalla roccia e per l’uccisione del toro sacrificale, che non assume il solo valore rinnovatore del cosmo, ma possiede una ben più alta e precisa valenza spirituale. Tutto si inquadra in una visione del mondo prettamente solare, concepita tradizionalmente, militando, l’iniziato o il neofita, per lo schieramento avversario irriducibile delle Tenebre, di Arimanne, di Tifone-Seth, di Vediovis, ma anche di tutta la spiritualità lunare delle madri come Iside, Demetra e Astarte, quindi per lo schieramento di Eracle, del Marte romano, di Horus…naturalmente di Mithra. Poco o nulla si potrà comprendere di tale culto misterico se non si farà propria tale prospettiva polare, tale atteggiamento guerriero, di superamento magico, quindi di superamento attivo.

Le corrispondenze astrali e metalliche

Il termine ermetico adoperato in tale contesto va inteso nel più profondo del proprio significato, non solo nella più considerata e generale accezione alchemica, ma quale simbolo unitario (dal verbo greco sùmballo), sintesi di domini diversi ma correlati, che attraverso i diversi gradi di iniziazione al Numen della Luce, del Patto e del Fuoco, ci permetteranno di cum-prendere l’essenza più alta che la Tradizione abbia mai espresso: in merito ci riferiamo a quanto evidenziato da Giandomenico Casalino nel suo Il Nome Segreto di Roma, nel quale  si precisa come “…la corrispondenza magica Astro-Dio-Metallo, realtà alla quale ci si deve accostare…cogliendone la dimensione simbolica per effetto dell’assimilazione del principio anagogico della Trascendenza Immanente (il Metallo) e/o della Immanenza Trascendente (l’Astro), dove quella è una manifestazione spirituale della materia corporea e questa è una manifestazione corporea dello spirito”.  Seguendo tale traccia, ritroviamo le indicazioni di Celso (Origene, Contra Celsum, VI, 22), secondo il quale nel culto mithriaco, e ne danno evidenza anche le testimonianze parietali nei diversi mitrei ritrovati come quelli di Capua, di Ostia, vi fosse una strettissima connessione tra una gerarchia di pianeti e di metalli, oltre al settenario musicale. Ad ogni grado di iniziazione che sarà successivamente esaminato, sarà possibile associare un Astro-Nume di riferimento ed un metallo, che ne caratterizzano, ancor più esotericamente, la funzione anagogica. Tutto ci ricondurrà alle sette operazione dell’Arte, le sette porte di Mithra, che sono le sette purificazione del Mercurio Filosofale:”Bisogna purificare il Mercurio almeno sette volte. Allora il bagno per il Re è pronto”(Filalete).

I sette gradi di trasmutazione

La testimonianza archeologica che più può essere d’aiuto per comprendere il complesso sistema iniziatico del culto di Mithra è sicuramente il mosaico pavimentale presente nel mitreo di Felicissimo ad Ostia, denominato Scala delle Sette Porte. Sia Celso sia Porfirio ci parlano di un’iniziazone con sette diversi e gerarchici gradi di conoscenza e, come rappresentato nelle sette porte di Ostia, ognuno rappresentato dall’animale simbolico e dall’Astro/Nume di riferimento. Il primo grado è rappresentato dal Corax (Corvo), egli è la base del culto mithriaco, il neofita che affronta le prime prove di umiltà, di controllo dell’ego, di mantenimento del segreto. Simboleggiato appunto da un corvo, è il messaggero degli Dei che risvegliano Mithra, avendo in Hermes-Mercurio la propria divinità tutelare. Il risveglio è l’inizio della rettificazione del myste, il risveglio della propria essenza solare: ogni rettificazione la si può riconnettere ai centri di luce, chakra nella tradizione indù o sephira in quella cabalistica, lungo il canale verticale che corre lungo la colonna vertebrale, espressione proprio di un Caduceo Ermetico che ritroviamo tra i simboli di Hermes e del Corax, ove si intrecciano le energie lunari e solari, mercuriali e sulfuree, lungo quello che viene denominato il “canale di Brahma”. Al primo grado è possibile connettere il chakra Muladhara, in corrispondenza dell’osso sacro, sede di Kundalini dormiente o il decimo sephira Malkut, il livello più basso e oscuro dell’Albero Sephiretico. Non si dimentichi, inoltre, come al nero corvo ed alla prima purificazione del Mercurio sia legata la prima operazione alchemica, quella della calcinazione:”con la calcinazione tutte le cose corporee divengono carbone e cenere”(Paracelso). Il secondo grado è rappresentato dal Nymphus (Crisalide), concernente la presa di consapevolezza dell’iniziato, del processo ascensionale che lo attende, come attesta la rappresentazione di Eros e Psyche nel mitreo di Capua, una nuova luce che sorge e viene condotta dall’Amore verso il cielo delle stelle fisse: non casualmente, infatti, la divinità tutelare del Nymphus è Venere. Nel microcosmo, nei centri di vita sottile il secondo grado si identifica con il secondo chakra Swadhistana, localizzabile nella zone del pube, o con il  nono sephira Yesod, entrambi espressi da simboli che si rifanno al mondo delle acque, della luna, come espressione dell’inconscio e della dimensione astrale. Giustamente, infatti, Stefano Arcella nel suo studio (I Misteri del Sole) sottolinea come “le ninfe sono le forze mistiche, le intelligenze spirituali che esercitano il loro dominio sulle acque”. Alchemicamente si passa alla seconda operazione, denominata putrefazione:”tutto ciò che è vivo in essa muore, tutto ciò che è morto in essa acquista la vita”(Paracelso). Il terzo grado è quello del Miles (Soldato), simboleggiato dallo scorpione, rappresenta, tramite la consacrazione a Mithra ed il rifiuto dell’incoronazione umana (“Mithra è la mia corona!”), l’ingresso dell’iniziato nella Milizia Celeste, coloro che combattono per il Fuoco e la Luce, avendo in Marte il proprio nume tutelare. E’ il chakra Manipura  dove ha sede il fuoco, in corrispondenza con il plesso solare, o l’ottavo sephira Hod, la sapienza e la collettività, quindi Mithra che esce armato dalla grotta platonica per combattere, con la lancia di Marte, per affrontare un cammino oscuro che non conosce, è l’elemento ferreo che si attiva, l’irrazionale che cerca di purificarsi, la forza guerriera cieca, istintiva, che intraprende la via per la propria purificazione: alchemicamente si arriva alla terza operazione, quella della soluzione, ove si produce l’unione progressiva e non violenta del fisso col volatile…il Fuoco deve essere ancor tenuto basso! Il quarto grado è rappresentato dal Leone ed ha come divinità planetaria protettrice Giove: è la visione dell’essenza solare e cardiaca, di Apollo, tramite il quale continua la purificazione del fuoco interiore, ora manifesto in senso eminentemente filosofico e vittorioso, che si accinge al viaggio iniziatico: non è casuale la funzione che i Leones avevamo all’interno della comunità mithriaca, come custodi, appunto, del fuoco e dell’ara sacrificale. Alchemicamente si è passati all’operazione della distillazione, ove numerose purificazioni dei “residui” tendono a far volatilizzare gli spiriti: siamo al quarto chakra Anahata o al settimo sephira, in corrispondenza della zona cardiaca, ove inizia la spirale ermetica  di J.G. Gichtel, sede della Vittoria, della Sapienza e del Divino interiore, concludendosi la Nigredo per “la manifestazione del bianco”. Il quinto grado è quello del Perses (Persiano), il guerriero indoeuropeo che entra nella porta degli Inferi, simboleggiata da Cautopates, il dadoforo con la torcia rivolta verso il basso, non a caso assimilato a Hesperus, la stella della sera, e sotto la tutela astrale e numinosa della Luna. Inizia il processo di ricapitolarizzazione del proprio microcosmo, degli stati sublunari e psichici: qui il guerriero attraverso la notte dell’anima, con la valenza già di uno svegliato, di colui che ha già superato la prova eleusina del sonno iniziatico, quindi presente a se stesso, ricettivo verso gli insegnamenti della Grande Madre, della Luna, del Femminile che percorre simultaneamente la Natura e la sua interiorità. Stefano Arcella ed il Merkelbach fanno notare opportunamente come a tale grado fosse associato il simbolo della chiave, di un permesso per varcare il mondo lunare: metallicamente questa chiave non può che essere di argento! Il quinto chakra è quello denominato Vishudda, localizzato all’altezza della gola, o il quinto sephira (l’ordine sephiretico risulta solo apparentemente anomalo, essendo sulla scala del dieci e non del sette) Geburah, appunto il guerriero, la sepazione da ciò che è materiale, propriamente umano: la sublimazione, la quinta operazione alchemica, separa, mediante il fuoco, lo spirituale dal corporale (Alberto Samonà, La Tradizione del Sé).  La notte non può essere eterna ed Hesperus si trasforma in Lucifero, la stella del mattino, come Cautes sostituisce Cautopetes, la fiaccola si innalza al Cielo, essendo giunto l’iniziato al sesto grado, quello di Heliodromos (Corriere del Sole), la Porta dei Cieli, ove, sotto la tutela astrale e divina del Sole, si riunisce ciò che si è precedentemente purificato: qui vi è Ianus della tradizione romana, qui la chiave d’argento del Perses diviene chiave d’oro, è la composizione del Rebis, del maschile e del femminile, del solare e del lunare, è la realizzazione dell’Albedo, l’accesso agli stadi sovraindividuali, è l’Argento filosofale che si manifesta e che inizia la sua trasmutazione in Oro. Non a caso ciò si riconnette al sesto chakra, Ajna, sede del Terzo Occhio di Shiva, tra le sopracciglie, ove il dio interiore incontra, come già notato, la sua controparte femminile, la Shakti; cabalisticamente ci si può riferire al secondo sephira, Chokma, sede della Sapienza.

La Tauromachia

L’esame del settimo grado dell’iniziazione mithriaca, quello del Pater, comporta necessariamente un approfondimento del mito centrale e fondante del culto in questione, cioè il sacrificio cosmogonico ed esoterico del toro: tale mito, insieme alla tutela mithriaca dei patti e dei giuramenti, è sicuramente presente sin dall’origini indoiraniche della divinità e ne rappresenta simbolicamente la più alta valenza metafisica. Mithra nato dalla roccia il giorno del Solstizio d’Inverno e uscito dalla caverna nel grado di Miles, sa di dover immolare il toro, per ordine degli Dei su mandato del loro messaggero, il corvo Hermes-Mercurio. Egli salta sul dorso del toro, ma non lo uccide subito, resiste attendendo che il toro si stanchi e lo immola, dolorosamente, solo quando questo sarà entrato nella grotta. Il significato macrocosmico del rito è di rinnovamento del cosmo, della sua manifestazione: il sangue che sgorga dalla ferita dell’animale è la linfa che fa rinascere la vita: Porfirio lo definisce padre del mondo e del Tutto. Ma vi è un significato più profondo del rito, che va oltre la dimensione mitica, per ascendere alla più pura spiritualità indoeuropea, alla più cristallina ascesi interiore. L’immolazione del toro viene compiuta dal Pater, il capo sacerdotale della comunità mithriaca, colui che sovrintende la trasmissione della Sapienza Arcana, colui che possiede lo scettro del Mago, come Saturno, suo Nume tutelare. Se in Heliodromos si è avuto la congiunzione del Re e della Regina, del maschile e del femminile, del solare e del lunare, il Pater deve attuare l’ultima operazione, l’ultima fissazione, l’ultima purificazione dagli elementi terrestri e lunari. Stefano Arcella ha reso perfettamente tale senso esoterico:”il sacrificio del toro è il superamento, da parte dell’adepto ai Misteri, della sua componente tellurico-lunare, se è vero che il toro, nella sua possanza, allude alla incoercibilità delle forze istintive e passionali, al tumulto delle spinte della natura inferiore dell’uomo, simboleggiate dalla Terra”.  Nel sistema dei chakra ciò corrisponde al settimo, Sahasrara, o al primo sephira cabalistico, Keter, situato sulla testa, luogo di congiunzione della Sushumna con il Divino, realizzazione degli stadi sovraindividuali e completo risveglio della Kundalini. Nel settimo grado del Pater, Saturno si illumina e ritorna reggitore del mondo e del tempo, dio della Tradizione Primordiale, Piombo che si purifica e si trasmuta in Oro. In quest’ottica si può maggiormente comprende la corrispondenza dell’iniziazione mithriaca con lo sviluppo dell’Arte Metallica. Abbiamo già accennato alla spirale ermetica  di J.G. Gichtel: in essa il principio è rappresentato da Sole-Oro nella zona cardiaca, il quale, tramite un movimento centripeto dissolve gli elementi superiori in quelli inferiori tramite la cottura col Fuoco e poi, con un movimento centrifugo, li riconduce alla loro reale essenza. Ci si trova, quindi, innanzi ad un simbolo in cui il plumbeo Saturno della regione coronale si dissolve nella Luna-Argento della regione sacrale per ridiventare, come detto, aureo, Giove-Stagno della regione frontale si dissolve in Mercurio della regione ombelicale, Marte-Ferro della regione laringea si dissolve in Venere-Rame della regione lombare:”Di là dalla settima sfera, l’eccesso: ciò in cui non vi è più né un qui, né un non-qui, che è calma ed illuminazione e solitudine come in un oceano infinito. E’ il grado di Padre di là da quello dell’Aquila, il vertice, il substrato del mondo voraginoso, scatenato, fiammeggiante delle potenze”(Julius Evola).

La realizzazione dell’Uno

Molti sono stati gli scritti, gli articoli, i testi che profondamente hanno indagato la simbolica e l’essenza tradizionale e spirituale dell’iniziazione mithriaca, ma, purtroppo, pochi hanno ben evidenziato come il settimo grado di tale culto misterico, quello del Pater, non rappresentasse l’ultima tappa dell’ascensione al Divino. Se profanamente si provasse a schematizzare il processo iniziatico di cui si è scritto, sarebbe possibile confrontarlo, riducendo il settenario in forma quaternaria, alle varie fasi dell’Opera Alchemica ed alla suddivisione microcosmica operata dal Kremmerz e dalla sua Schola. Infatti, le prime quattro figure che partono dal Corax ed arrivano al Leone è possibile paragonarle alle quattro operazioni dell’Opera al Nero, la Nigredo (calcinazione, putrefazione, soluzione, distillazione ), mentre la figura del Pherses, sotto l’egida astrale della Luna, e quella di Heliodromos, portatore del Sole ma non il Sole, configurano la dimensione numinosa della nuda Diana, dell’immortalità virtuale, quindi della realizzazione dell’Opera al Bianco, Albedo. Lo stato di Pater, pertanto, non costituisce, come molti potranno azzardare, la fissazione aurea della Rubedo, ma solo la sua parte iniziale, il Solve, che necessita di un ulteriore sviluppo, di un Coagula: anche simbolicamente, molto spesso, la figura di Mithra vincitore è stata accostata all’Aquila, unico animale a fissare da vicino il Sole…ma non ancora identificatosi con esso. Tali accostamenti potranno risultare più puntuali se ci si rifà, come anticipato, alla dottrina interna di Giuliano Kremmerz e di tutta la Tradizione Occidentale. In essa vi sono quattro corpi che caratterizzano l’uomo: il corpo saturnio (nel senso oscuro e duale che ha tale riferimento numinoso), quindi materiale e transuente; il corpo lunare, quindi la sfera acquatica, della passioni, dei sentimenti, goccia di Anima Mundi; il corpo mercuriale, quindi la sfera dell’Intelletto, del Demiurgo, dell’Essere, simboleggiato non casualmente dall’Aquila; infine, il corpo solare, cioè la sfera dell’Infinito, che in matematica si esprime come un otto posto orizzontalmente (∞), cioè coincidenza di due mondi (Cielo e Terra, Essere e Divenire,…) che prima con l’otto posto verticalmente (8) mediava e gerarchizzava la manifestazione, dell’Identità Suprema, ove non vi è differenza tra Essere e non-Essere, ove l’essenza solare è in sé, quindi non manifesta, quindi “essenza polare”.  Come riporta il Merkelbach nel suo studio (Mitra, il Signore delle Grotte), sempre nel citato mitreo di Felicissimo a Ostia nel mosaico pavimentale, vi è un ottavo riquadro con l’iscrizione del committente, ma avente anche un diverso e supremo significato: come ci riporta sempre il Merkelbach “quest’ultimo riquadro simboleggia le regioni oltre il cielo delle stelle fisse, alle quali, dopo la morte, ascenderà l’anima dell’iniziato”. Se Saturno/Zervan è il Signore del Tempo, se è la compiutezza di ciò che nella dottrina ermetico-alchemica viene denominata Opera al Giallo, cioè l’ultimo Solve, Egli è, secondo quanto riporta Porfirio, nella sua opera Sulla filosofia degli oracoli, Aiòn, l’Eternità, il Bene Supremo di Platone (non erroneamente alcuni studiosi ed autori, come Platone nel Timeo, hanno identificato Saturno e Aiòn, essendo le due facce della medesima operazione), l’Essenza Originaria, da cui si sono emanate le varie divinità della tradizione greco-romana: qui si attua la Realizzazione Ultima, al di là delle statue dell’Anima e del Nous, come si “procedeva” ad Eleusi, la compiutezza dell’ultimo Coagula, della Rubedo. Se il Pater è la trasmutazione del corpo in spirito e dello spirito in corpo sulla terra, Aiòn è il volo e l’identificazione verso le stelle,  è l’uomo divino, è Mithra che abbandona definitivamente l’umano ed il terrestre per divenire egli stesso l’essenza arcana di Helios:”Egli entra in intimo rapporto col Divino…egli si vede diventato il Divino stesso…vita degli Dei e degli uomini divini e perfettamente felici: lungi dagli altri che sono quaggiù, superiore ai piacieri di questo mondo, fuga dell’Uno verso l’Uno”(Plotino, Enneadi, VI, 9, 11).

Luca Valentini

Il Simbolismo della Piramide

Simbolismo

Vari studiosi ritengono molto probabile che durante il Paleolitico Superiore sia esistita una civiltà molto evoluta, civiltà che sarebbe stata distrutta da una serie di cataclismi.

Alcuni studi scientifici portano a ipotizzare che il centro di questa civiltà fosse la regione sud-orientale asiatica, la vastissima regione della penisola indocinese, quella che però risulterebbe considerando un abbassamento del livello medio dei mari di circa 150 metri.

Questa civiltà dell’Era Glaciale sembra richiamata dai miti della leggendaria civiltà di Mu dell’Oceano Pacifico, ma anche delle leggendarie civiltà delle Americhe e di Atlantide.

Si ritiene, infatti, possibile che l’antichissima civiltà si sia propagata dalla regione asiatica a Est e a Ovest, mantenendosi forse nella fascia tropicale, quella che a causa del clima rigido dell’Era Glaciale risultava la sola a essere abitabile con una certa possibilità di sviluppo.

Ritengo probabile che questa antichissima civiltà abbia sviluppato una religione che venerava un solo Dio creatore e che abbia ripreso il concetto della terna familiare: padre, madre e figlio, per assegnare al dio creatore tre valenze, tre distinte volontà nella creazione.

Potrebbe esser nato dunque moltissimi millenni fa il concetto della trinità divina, concetto che sarebbe stato espresso numericamente dal numero 3 e geometricamente dal triangolo.

Seguendo questo simbolismo numerale e/o geometrico, ritengo che l’idea della creazione nelle quattro direzioni cardinali abbia portato ad associare al creato e all’umanità il numero 4 e il quadrato.

Questi simbolismi potevano dunque essere riassunti geometricamente dalla rappresentazione di un triangolo costruito sopra un lato di un quadrato e la rappresentazione avrebbe così simboleggiato il dominio del Creatore sulla Terra e sull’Umanità.

Ovviamente il passo successivo sarebbe stato la rappresentazione tridimensionale di questo concetto, per cui sembra logico pensare che l’antichissima civiltà abbia considerato la piramide. La trinità del Creatore, espressa dal triangolo, sarebbe stata così considerata in tutte le quattro direzioni cardinali e il dominio del Creatore sull’Umanità sarebbe stato rappresentato dalla piramide sovrastante il quadrato di base o se vogliamo un ipotetico cubo sottostante la piramide.

Alla luce di queste possibilità, risulta consequenziale che le antiche civiltà abbiano edificato piramidi quale omaggio al Dio creatore. Questo concetto religioso sarebbe stato poi esportato nelle terre in cui l’antichissima civiltà si estese e il concetto religioso sarebbe stato tramandato alle civiltà che nacquero dopo la fine dell’Era Glaciale.

Questa spiegazione logica spiega dunque come mai in vari continenti e in epoche differenti furono edificati monumenti o templi a forma piramidale e spiega soprattutto come questi monumenti abbiano sempre avuto una valenza sacra e furono spesso associati a cerimonie religiose.

La sacralità della piramide e il suo collegamento al Dio creatore spiega anche perché esse furono edificate in particolari momenti di crisi di una civiltà, al fine di rendere omaggio al Creatore e ottenere l’intercessione divina.

Questa spiegazione non è stata finora considerata dagli archeologi né dagli studiosi della antiche religioni.

Il mistero della comparsa di piramidi in vari continenti e in periodi differenti è stato risolto ipotizzando che la piramide fosse la costruzione più facile da realizzare e che la loro costruzione in differenti località fu puramente casuale.

A parte che questa spiegazione semplicistica non entra in merito alla sacralità del monumento, si ritiene che la spiegazione pecchi anche da un punto di vista ingegneristico. Non è infatti vero che sia facile edificare una costruzione piramidale, realizzando quattro facce che abbiano la stessa inclinazione. Sembra molto più semplice edificare un cubo o un parallelepipedo, posizionando un blocco su l’altro e aiutandosi per la verticalità con un semplice filo a piombo.

Le piramidi in Egitto

Nella terra dei faraoni le piramidi comparvero agli inizi della III dinastia. Fu infatti il faraone Djoser che edificò la prima piramide a gradoni nella necropoli reale di Saqqara, nel deserto di fronte alla capitale Menphy.

Gli studiosi sono tutti d’accordo sul fatto che la piramide fu realizzata come sovrapposizione ideale di varie mastabe, il monumento funebre a forma di parallelepipedo, fino ad allora utilizzato come sepoltura dei personaggi di una certa importanza.

Gli studiosi non sanno però giustificare questa eccezionale innovazione architettonica.

Non avendo considerato un simbolismo religioso connesso al Creatore, gli Egittologi non hanno saputo considerare che Djoser potrebbe aver ideato un grandioso progetto architettonico, da realizzare nel corso di varie centinaia di anni e che avrebbe reso omaggio al Dio creatore, nella speranza che questo omaggio prolungato nel tempo valesse a esorcizzare nuove catastrofi in Egitto.

Ritengo infatti molto probabile che l’Era Glaciale sia terminata a seguito di varie catastrofi, che la scienza ha oggi individuato dai loro effetti: rapida rottura e scioglimento di estese zone di ghiacci dell’America settentrionale e/o dell’Europa, immissione violenta di molte tonnellate di ghiacci nell’Oceano Atlantico con conseguente formazione di impetuosi tsunami che avrebbero percorso l’Oceano formando onde gigantesche.

Questi effetti avrebbero portato a un rapido sollevamento dei mari, conseguente inondazione delle zone costiere e la distruzione dei villaggi e/o città edificati lungo le coste.

Gli studi geologici portano a considerare 4 catastrofi, grosso modo databili intorno al 12000, 9500, 6000 e 5500 a.C.

L’ultima catastrofe potrebbe aver determinato l’idea del Diluvio Universale, riportata da molte antiche culture: Sumeri, Babilonesi, Ebrei, ecc.

Questa teoria giustifica la regressione delle antiche civiltà e le varie fasi d’evoluzione dell’Umanità. I successivi periodi evolutivi: Paleolitico Superiore, Mesolitico e Neolitico non sarebbero dunque delle fasi di evoluzione crescente, ma dei periodi in cui l’evoluzione dovette ripartire pressoché da zero.

Gli Egizi potrebbero dunque aver vissuto con il ricordo o l’incubo di catastrofi immani che per più volte distrussero le loro terre.

La lunga cronologia egizia, da me rivisitata sulla base dei dati dello storico egizio / tolemaico Manetone, dati pervenutici grazie all’opera di alcuni storici: Giuseppe Flavio, Giulio Sesto Africano ed Eusebio da Cesarea, inquadra la fine della II dinastia egizia intorno al 3300 a.C., mentre le cronologie cortissime, generalmente oggi proposte, datano la fine di questa dinastia intorno al 2780 a.C.

Ebbene alcuni studi di geologia sembrano suggerire che proprio intorno al 3300 – 3200 a.C. possa essersi verificata una nuova catastrofe. La caduta di un grosso meteorite in Mesopotamia o di vari suoi frammenti fra il Mediterraneo orientale e l’Asia occidentale.

È probabile che un frammento di questo grosso meteorite sia caduto in Egitto e che abbia causato danni così gravi da determinare uno sconvolgimento dinastico e la fine della II dinastia.

Anche volendo limitarci ai riscontri geologici, si potrebbe considerare che il meteorite sia caduto in Mesopotamia e che l’Egitto abbia subito gli effetti climatologici determinati dalla catastrofe.

Un riscontro di questi avvenimenti si ricava sia da rappresentazioni di gente scheletrica in monumenti a Saqqara sia da quanto riportato sulla Stele della Carestia, che, per quanto di datazione tarda, riporta la storia di una tremenda carestia accaduta durante il regno del faraone Djoser.

Possiamo dunque ipotizzare che i sacerdoti egizi abbiano ricordato le drammatiche catastrofi precedenti e abbiano considerato il nuovo evento come un nuovo castigo divino.

Sembra dunque molto probabile che il faraone Djoser abbia voluto ideare un vasto programma di edificazione di vari monumenti piramidali quale omaggio al Creatore, al fine di ottenere l’intercessione divina per le sorti dell’Egitto.

Djoser potrebbe così aver ideato un programma di edificazione di varie piramidi, che corrispondessero alle stelle principali di alcune costellazioni nelle quali i sacerdoti / astronomi egizi avevano immaginato la rappresentazione di alcune divinità connesse al mito di Osiride.

Progetto unitario

Senza addentrarci nella descrizione del mito di Osiride, che tratteremo in un prossimo articolo, ritengo che gli Egizi abbiano considerato una rappresentazione stellare dei personaggi del mito in differenti costellazioni del cielo boreale, nella particolare regione a Ovest della via Lattea.

Alla luce della rappresentazione dello zodiaco circolare di Dendera (nel riquadro delle immagini), in cui si evidenzia la figura del falco Horus posizionato su un piedistallo (obelisco o pianta di papiro), ritengo molto probabile che gli Egizi abbiano visto: il dio Osiride nella costellazione di Orione, la dea Iside nella costellazione del Cane Maggiore e in particolare nella luminosa stella Sirio, il dio Horus, figlio di Iside e Osiride, in una costellazione formata dalle stelle dell’attuale Auriga (testa), quelle occidentali dei Gemelli (corpo) e quelle della costellazione dell’Unicorno (piedistallo), gli dei Shu, Tefnut, Geb e Nut nelle stelle alfa e beta dei Gemelli e del Cane Minore, il dio Atum nella costellazione del Leone, il dio Seth nella costellazione del Toro e infine il dio Thot nelle stelle delle attuali costellazioni di Perseo e Andromeda.

Ritengo ancora probabile che Djoser abbia progettato la trasposizione delle stelle principali di alcuni personaggi celesti: Osiride, Horus e Thot in una serie di piramidi del deserto occidentale, lasciando ovviamente la scelta dell’elemento piramidale da realizzare alla volontà dei singoli faraoni, a seconda delle aspettative di vita e dei mezzi economici a disposizione.

Ritengo infine che le dimensioni e/o la preziosità delle piramide avrebbe rispecchiato in qualche modo l’importanza, secondo la magnitudine o il simbolismo religioso, della stella scelta per la correlazione piramidale.

Alla luce di questa ipotesi, Djoser avrebbe deciso di edificare la prima piramide del grandioso progetto, quale elemento corrispondente al corpo del grande Falco celeste, l’attuale stella gamma dei Gemelli, Alhena.

Antonio Crasto

Santi terrestri e porte celesti

I primi simboli e annotazioni dei cicli celesti risalgono all’Era Glaciale quando ancora venivano incisi sugli ossi e sulle zanne di mammut. Osservare, capire e, perché no, meravigliarsi dei ritmi della natura e del cosmo è, da sempre, uno tra i bisogni più pressanti dell’essere umano. Potrebbe non essere così?

La natura è un prodigioso mosaico senza tempo, fatto di innumerevoli tasselli tutti diversi, eppur tutti collegati tra loro. Ogni pianta, animale e uomo, segue un innato ciclo circadiano. In particolare, per quel che ci riguarda, la nostra temperatura corporea aumenta e diminuisce di uno o due gradi nell’arco della giornata; la secrezione di corticosteroidi segue lo stesso ritmo per raggiungere il picco più alto nello stesso momento. La velocità di coagulazione del sangue, la conta dei globuli bianchi, la produzione di glicogeno da parte del fegato, le proteine utilizzate nel metabolismo, le curve dell’elettroencefalogramma, il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, etc., seguono un andamento pressoché regolare di 24 ore. Molti di questi nostri processi sono coordinati dalla ghiandola pineale (epifisi), insieme agli avvicendamenti stagionali del Sole. Difatti, a mano a mano che le giornate si accorciano, l’epifisi secerne più melatonina, un ormone che controlla la quantità di serotonina nel cervello, che (in particolari concentrazioni), può innescare uno stato depressivo. Allorquando le giornate si allungano, il processo si inverte. L’epifisi è quindi fotosensibile e, attraverso l’influenza che esercita sul resto del sistema endocrino, pare fare da cerniera tra il corpo e il suo habitat. Detta funzione di mediazione tra cicli celesti e terrestri è, verosimilmente, all’origine di alcune credenze mistiche sorte nelle più disparate culture e luoghi del mondo. Tant’è vero che, per migliaia di anni, i nostri antenati hanno celebrato le stagioni dell’anno con feste rituali. Tra queste, le più importanti e universalmente obbedite, erano i due Solstizi la cui funzione prima era quella di accrescere il senso di comunione tra la Terra e il Cielo.

Benché i Solstizi in sé trascendono qualsiasi ideologia religiosa, è indubbio che le grandi feste stagionali erano (e rimangono!) un elemento chiave delle religioni di tutti i popoli del mondo che, di fatto, hanno assorbito le feste rituali nel loro calendario liturgico.

Ecco, allora, di come il culto delle chiese cristiane dei due San Giovanni coincide con i due Solstizi.

Ecco, allora, di come la festa di San Giovanni Battista (San Giovanni d’Estate) ricorre il 24 giugno e quella di San Giovanni Evangelista (San Giovanni d’Inverno) il 27 dicembre.

Ma cosa sono i Solstizi?

Dobbiamo essere consapevoli che i sette giorni della settimana hanno nomi di origine astronomica. È nel II sec. a.C. che, si fa per dire, videro la luce le errate teorie di Tolomeo riguardanti Sole, Luna e i cinque pianeti che giravano attorno alla Terra. È allora che i giorni furono battezzati col nome del Sole (Domenica), della Luna (Lunedì), di Marte (Martedì), di Mercurio (Mercoledì), di Giove (Giovedì), di Venere (Venerdì) e di Saturno (Sabato). Pertanto, per quanto il paradigma fosse errato, è innegabile che le nostre esistenze non si sono mai disunite dalle cose celesti.

E allora, visto e considerato che già migliaia di secoli prima di Cristo il popolo Sumero aveva conoscenze astronomiche così specifiche e precise riguardo i pianeti del sistema solare (soprattutto perché è solo dal 1600-1700 d.C. che si sono scoperti i pianeti attraverso i telescopi), è nostro dovere sapere, quanto meno, gli aspetti basilari di questa scienza. Partiamo allora dall’inizio, ossia, dalla rotazione terrestre. È infatti con la rotazione attorno al Sole sul proprio asse che la Terra ci restituisce le fasi della notte e del giorno. Inoltre, l’inclinazione dell’asse terrestre sul suo piano orbitale (obliquità dell’ellittica), ci da le quattro stagioni. All’unanimità gli studi e i ritrovamenti hanno dimostrato che le prime civiltà, osservando l’alzarsi ed il calare del Sole in rapporto all’orizzonte terrestre, furono tutte molto perspicaci nell’identificare quattro punti chiave fissi. Essi comprendono: i Solstizi d’Estate e d’Inverno, laddove il Sole raggiunge le sue più distati posizioni a Nord e a Sud, per poi ritornare indietro; gli Equinozi di Primavera e d’Autunno, allorquando lo stesso Sole attraversa l’Equatore terrestre dando luogo a giorno e notte di uguale durata.

Solstizio vuole dire fermata del Sole, perché la sua elevazione zenitale non sembra cambiare da un giorno all’altro. In questi due momenti dell’anno, il Sole raggiunge il punto più meridionale o settentrionale della sua illusoria corsa nel cielo, rispettivamente al tropico del Capricorno e al tropico del Cancro. Quindi, in termini temporali, i Solstizi distano tra loro circa 6 mesi e segnano il giorno in cui l’emisfero Nord e Sud della Terra, ricevono il massimo (Solstizio d’Estate) e il minimo (Solstizio d’Inverno) irraggiamento dal Sole. Il Solstizio d’Estate si verifica attorno al 21 Giugno e corrisponde al giorno più lungo dell’anno, mentre in Dicembre si ha il giorno più corto. Questo succede a causa della differente altezza del Sole sull’orizzonte. Dall’Italia, per esempio, a Giugno il Sole raggiunge l’altezza di 67° a mezzogiorno, mentre a Dicembre scende fino a soli 21° dall’orizzonte per iniziare di nuovo.

Una lunga e ricca tradizione di festeggiamenti è giunta fino a noi sovrapponendo, alle Antiche ricorrenze pagane dei Solstizi (25 dicembre Sol Invictus e 24 Giugno Fors Fortunae), le successive pratiche cristiane che accolsero in sé parte degli antichi rituali.

La Natività, verosimilmente iniziò ad essere celebrata dai nostri antenati presso le costruzioni megalitiche di Stonehenge (in Gran Bretagna), di Newgrange, Knowth e Dowth (in Irlanda) o, ancora, attorno alle incisioni rupestri di Bohuslan (in Iran) e della Val Camonica (in Italia), già in epoca primitiva. Essa, inoltre, ispirò l’opera di Eraclito di Efeso (560/480 a.C), ma fu allegoricamente cantata anche da Virgilio e da Omero. L’Odissea ci descrive il misterioso antro nell’isola di Itaca nel quale si aprivano due porte, così: L’antro ha due porte, una da Borea, accessibile agli uomini; l’altra, dal Noto, è dei numi e per quella non passano uomini, degli immortali è la via. E, poi, Porfirio si fa interprete di questi versi in L’antro delle ninfe allorquando scrive: Dato che l’antro costituisce l’immagine e il simbolo del mondo, Numenio e Cronio suo compagno, dicono che due sono nel cielo le estremità, delle quali una non è più meridionale del tropico invernale, e l’altra non è più settentrionale di quello estivo. Quello estivo poi è nel Cancro, mentre quello invernale è nel Capricorno. Ed essendo per noi vicinissimo alla Terra il Cancro, a buona ragione (il suo segno) è attribuito alla Luna che è prossima alla Terra. Mentre il Capricorno, essendo invisibile più del polo meridionale, è attribuito a quello che di gran lunga è il più lontano e alto di tutti (gli astri) vaganti, cioè a Kronos. … Coloro dunque che parlano delle cose divine ponevano essere due (il numero) di questi ingressi: Cancro e Capricorno; e Platone parla di due bocche. Di queste, il Cancro è quella per cui le anime discendono, ed il Capricorno quella per cui ascendono. Ma il Cancro è settentrionale e atto alla discesa, mentre il Capricorno è meridionale e atto all’ascesa. E le parti di Settentrione sono proprie alle anime che discendono verso la generazione. E rettamente gli ingressi dell’antro volti a Borea discendono per gli uomini, mentre le parti di Meridione non sono proprie agli dèi, ma a coloro che ascendono agli dèi. Per questa ragione (il poeta) dice via non propria agli dèi, ma agli immortali, comune anche alle anime che sono per sé o per essenza immortali.

Il Natale fu immutabilmente atteso e glorificato anche dalle popolazioni indoeuropee: i Gallo-Celti lo denominarono Alban Arthuan (rinascita del dio Sole); i Germani, Yulè (ruota dell’anno); gli Scandinavi Jul (ruota solare); i Finnici July (tempesta di neve); i Lapponi Juvla; i Russi Karatciun (il giorno più corto).

Di fatto, intorno a quel dì dicembrino, quasi tutti i popoli del mondo hanno fatto la stessa cosa: in Egitto si festeggiava la nascita del dio Horo e il padre, Osiride, si credeva fosse nato nello stesso periodo; nel Messico pre-colombiano nasceva il dio Quetzalcoath e l’azteco Huitzilopochtli; Bacab nello Yucatan; il dio Bacco in Grecia, nonché Ercole e Adone o Adonis; il dio Freyr, figlio di Odino e di Freya, era festeggiato dalle genti del Nord; Zaratustra in Azerbaigian; Buddha, in Oriente; Krishna, in India; Scing-Shin in Cina; in Persia, si celebrava il dio guerriero Mithra, detto il Salvatore ed a Babilonia vedeva la luce il dio Tammuz figlio della dea Ishtar. C’è da aggiungere che quest’ultima dea veniva rappresentata (come Iside in Egitto), avente tra le braccia il suo unico figlio (Tammuz, appunto), con una aureola di dodici stelle intorno al capo [...]. Il culto di Tammuz era talmente forte e diffuso che anche nella Bibbia troviamo il profeta Ezechiele (VI secolo a.C), rimproverare le donne di Gerusalemme perché piangevano la morte di Tammuz (il dio-pastore festeggiato il 25 Dicembre che muore e poi risorge dopo tre giorni).

È evidente che il Solstizio è sempre stato fonte di grande ispirazione per i culti e riti pagani. Una fase magica dunque, che dispiega le sue radici lontano nel tempo.

Nella tradizione esoterica, i Solstizi rappresentano il dramma cosmico della Morte e della Rinascita del Sole, l’incessante succedersi delle stagioni, di Luce e Tenebre. In tal senso per noi i Solstizi acquistano significati in riferimento al destino dell’anima, oltre che al naturale perpetuarsi della vita sulla Terra.

Forti anche le analogie con le pratiche alchimiste che avevano come fine ultimo la ricerca di quella Sapienza capace di condurre alla Vita eterna coloro che sapevano distinguere il grosso dal sottile.

Come non citare, inoltre, i pensieri di René Guénon, raccolti postumi in Simboli della Scienza sacra, che ci mostrano la via per risolvere un’apparente contraddizione, che è questa: il Nord è designato come il punto più alto, e verso questo punto d’altronde è diretto il cammino ascendente del sole, mentre il suo cammino discendente è diretto verso sud, il quale appare così il punto più basso; ma, d’altra parte, il solstizio d’inverno, che corrisponde nell’anno al nord, e segna l’inizio del movimento ascendente, è in un certo senso il punto più basso, e il solstizio d’estate, che corrisponde al sud, e dove termina il movimento ascendente, è – sotto lo stesso profilo – il punto più alto, a partire dal quale comincerà quindi il movimento discendente, che terminerà al solstizio d’inverno. La soluzione di questa difficoltà risiede nella distinzione che è il caso di fare tra l’ordine “celeste”, cui appartiene il cammino del sole, e l’ordine “terrestre”, cui appartiene invece la successione delle stagioni; secondo la legge generale dell’analogia, questi due ordini devono, nella loro stessa correlazione, essere inversi l’uno dell’altro, di modo che quel che è più alto nell’uno divenga più basso nell’altro, e reciprocamente; ed è così che, secondo l’espressione ermetica della Tabula smaragdina, “ciò che è in alto (nell’ordine celeste) è come quello che è in basso (nell’ordine terrestre)”, o ancora, secondo il detto evangelico, “i primi (nell’ordine principale) sono gli ultimi (nell’ordine manifestato)”. Guénon considera la questione talmente importante che ribadisce il concetto: la porta solstiziale d’inverno, o il segno del Capricorno, corrisponde al nord nel ciclo annuale, ma al sud in relazione al cammino del sole nel cielo; così, la porta solstiziale d’estate, o il segno del Cancro, corrisponde al sud nel ciclo annuale, e al nord in relazione al cammino del sole.

Sorge quasi spontaneo anche il collegamento del simbolismo delle due Porte Solstiziali al simbolismo di Giano. Giano (ianitor), che apre e chiude le porte (ianuae) del ciclo annuale con le chiavi, è il Nume dalla doppia e, talvolta, anche quadrupla faccia. Giano interpreta l’eterna conciliazione degli opposti: passato e futuro, avanti e indietro, interno e esterno, luce e tenebre.

Allacciandosi al lavoro di Guénon, il Cattabiani evidenzia il passaggio delle consegne da un guardiano all’altro delle Porte Solstiziali ad opera dei due Santi Giovanni, il Battista e l’Evangelista. I due San Giovanni hanno sostituito Giano, anche se a Dicembre il Sole nascente è diventato il simbolo del Cristo Bambino. Il Solstizio d’Estate, invece, apre la fase discendente e coincide con la nascita del Battista, come sottolinea la formula evangelica bisogna che egli cresca e che io decada (Giovanni,3,30).

E che dire della rassomiglianza fonetica tra Janus e Joannes (Giano e Giovanni in latino)? Si porterebbe ritenere che la collocazione delle feste dei Santi Giovanni in prossimità dei due Solstizi, non sia stata casuale, ma servisse non a cancellare ma, piuttosto, a riscrivere l’arcaico culto.

Il Vangelo di Giovanni, che si apre con le parole In principio era il Verbo, fa riferimento al Principio della Creazione cosmica e si collega, evidentemente, al nuovo anno, alla Rinascita della Luce, al risorgere invincibile dagli abissi, al chiudersi di una fase e lo schiudersi di un’altra. Come ricorda Julius Evola: nel simbolismo primordiale il segno del sole come Vita, Luce delle Terre, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo ‘anno’, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un mistero.

Al Rinascere del Sole si associò altresì, il simbolismo dell’albero sempreverde (per Evola l’albero della vita) che si leva innestando le proprie radici nell’abisso e quello dell’Uomo cosmico con le braccia alzate, tradotto, d’altronde, anche nella runa Algiz.

Così, i doni che il Natale porta ai bambini, come ci dice ancora Evola, costituiscono un’eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di Luce e di vita che il Sole nuovo, Il Figlio, dà agli uomini. Dono da intendersi sia in senso materiale che in senso spirituale.

Senza dubbio il Sole è il simbolo della Divinità Creatrice. Come era nei tempi antichi, così esso è ora. Tuttavia questo simbolo si allontana sempre più dal vero ideale rappresentato, per trasformarsi per i suoi impreparati adoratori, da simbolo, a Sole stesso. Poiché l’Oriente, l’Est, è il punto cardinale dove sorge l’astro del giorno, non ci dobbiamo meravigliare se tutti i popoli della Terra adorassero in esso l’elemento visibile del Principio invisibile. Non ci dobbiamo meravigliare se la messa fosse officiata in onore di Colui che è il datore delle messi. Ma fra l’adorare l’ideale in sé e l’adorare il simbolo fisico, c’è un po’ di differenza. Non vi pare?

Enrico Marongiu

La figura della donna nell’Antico Egitto

Il recente vento di cambiamento che ha preso a soffiare impetuoso nei paesi del Magreb, investendo in pieno anche l’Egitto, ha riscosso nelle menti collettive il ricordo di quella grandiosa civiltà, fiorita con grande splendore lungo il Nilo, il cui protagonista principale fu il popolo egiziano, dimostratosi capace di mitiche imprese e artefice di opere imponenti.

La grandezza di una civiltà è data non solo da chi si trova a governarla, ma è determinata, in buona misura, dal suo stesso popolo che condivide i fasti e paga le disgrazie, abbracciando il destino incontro al quale viene guidato, nel buono come nel cattivo governo.

Culturalmente, l’antico Egitto ha ancora da impartire lezioni di fresca attualità. Senza scadere nel nostalgico, è possibile affermare che la società di questo antico popolo ha ancora molto da dire e tanto su cui far riflettere.

La nazione egizia, nelle sue due componenti, maschile e femminile, ha contribuito a rendere grandi i faraoni che l’hanno condotta nei sentieri delle diverse vicende storiche di cui è stata nei millenni protagonista. La donna egiziana, nei diversi livelli societari, è stata interprete capace e attiva delle scelte politiche e militari dei sovrani, consentendo il compimento dei disegni strategici di grandezza imperialistica di questi ultimi.

La donna egiziana godeva di uno status sociale uguale all’uomo con un ruolo societario di vitale importanza e notevole rilevanza a qualunque livello: sacerdotessa, regina, operaia o moglie. Il suo ruolo era opposto a quello dell’uomo non perché fosse ritenuta inferiore, ma poiché i due sessi si contrapponevano l’un l’altro, come il giorno si contrappone alla notte, la luce alle tenebre. Ognuno aveva funzioni specifiche ugualmente rilevanti senza prevaricare l’uno sull’altra ma entrambi contribuivano, senza antagonismi, nel mutuo soccorso e nel reciproco fruire del giusto equilibro.

Socialmente, la donna aveva un ruolo attivo e la sua educazione era di egual livello rispetto a quella maschile. Se dotate, le ragazze avevano la possibilità di accedere alle scuole di palazzo e del tempio – ciò era consentito anche alle giovani di modesta origine, in possesso di notevoli capacità intellettuali – qui conseguivano diversi gradi di istruzione: da quella media a quella specialistica.

La dea Seshat – affiancata al dio Thot, protettore dell’attività intellettuale – è definita Signora delle piante e degli scritti, Signora della casa e dei libri. Numerosi reperti archeologici testimoniano l’esistenza delle precettrici reali, descritte come dame di corte il cui compito richiedeva grande istruzione, indispensabile per poter educare e formare le figlie del re. Ma l’istruzione specialistica consentì alle donne di raggiungere importanti incarichi come quello di giudice e di visir. La carriera amministrativa o religiosa partiva dal conseguimento della qualifica di scriba al quale faceva seguito un periodo di apprendistato. Terminato l’apprendistato i documenti a noi pervenuti raccontano di donne con le seguenti cariche: Intendente, Capo del Dipartimento dei Magazzini, Ispettrice dei magazzini reali, Ispettrice del Tesoro. Maggiordomo degli appartamenti reali, Soprintendente ai sacerdoti funerari, Soprintendente alle Prèfiche, Responsabile dei Domìni funerari.

Inoltre è documentata l’esistenza di donne – medico che svolgevano una mansione di tipo pediatrico mentre le ostetriche possedevano conoscenze meno scientifiche, pur ricoprendo un ruolo fondamentale nella società.

Quanto appena descritto avveniva nell’Antico Regno (2650 – 2150 a. C.), durante il Medio Regno (1955 – 1750 a. C.) le cariche amministrative femminili diminuirono per lasciare spazio alla Signora della casa: con questa definizione ci si riferiva alla moglie e padrona di casa a cui spettava l’intera direzione degli affari domestici. Nel Nuovo Regno (1504 – 1070 a. C.) la figura femminile scomparve del tutto dall’amministrazione statale e completamente affidata al personale maschile, il quale però si faceva sostituire dalla consorte nei periodi di sovraccarico lavorativo.

E’ ipotizzabile che il ruolo della donna sia stato riveduto e corretto nei periodi intermedi che decorsero tra l’Antico e il Medio Regno e tra questo e il nuovo Regno. E’ nei periodi di instabilità politica che la donna ebbe maggiore necessità di protezione poiché è innegabile la sua fragilità fisica, la storia in generale lo insegna. Pertanto questo “ridimensionamento” della presenza femminile nei ruoli portanti dell’amministrazione egizia, a nostro avviso, deve essere interpretata esclusivamente come una presa di coscienza del pericolo al quale una donna poteva esporsi in periodi difficili. I documenti attestano, senza ombra di dubbio, che il ruolo femminile in seno alla società egiziana non venne affatto svilito ma semplicemente trovò una collocazione più defilata, altrettanto importante. Nonostante i pericoli le donne egizie furono le prime ad esercitare affari di tipo imprenditoriale e commerciale in proprio, a questo riguardo sono numerose le attestazioni nelle varie epoche.

Altrettanto determinante fu il ruolo della donna nelle attività lavorative più comuni, nelle pitture viene rappresentata la donna mentre lavora nei campi come spigolatrice o intenta alla pulitura del grano, nella raccolta del lino, nella vendemmia e nella cura dei frutteti. La lavorazione del pane e della birra erano mansioni tipicamente femminili ma non di rado le donne partecipavano alle battute di caccia e di pesca nelle paludi del Delta e lungo il Nilo.

Tra le attività artigianali vi erano la filatura, la tessitura e la preparazione dei profumi. A queste attività erano connesse altre imprese come la Soprintendenza ai laboratori di filatura del Palazzo oppure la Direzione di grandi botteghe di tessitura. A corte, alcune donne, avevano il compito di organizzare le feste e i piaceri del re ed erano responsabili della buona riuscita dei banchetti e dei divertimenti reali.

Nel gradino più basso si collocavano le donne-serve, che avevano un ruolo di supporto nella preparazione del pane, della birra e nell’organizzazione della vita quotidiana in genere. Purtroppo non si hanno molte notizie su di esse ed è molto difficile, allo stato attuale, tracciare una linea di demarcazione tra il concetto di donna libera e quello di donna-serva poiché entrambe assumono delle sfumature differenti, appare verosimile che la condizione di “serva” possa essere applicata al lavoro svolto e non ad una condizione sociale vera e propria, ma si rimane comunque nell’ambito delle congetture.

Nella società faraonica la famiglia – fino alla II dinastia, 2800-2650 a. C. – fu dapprima poligamica e inseguito monogamica. La patria potestà e l’autorità del capo famiglia costituivano la pietra fondante della stabilità familiare. Al suo interno, la donna era giuridicamente subalterna e priva di qualunque ruolo rilevante. Infatti le era vietato prestare testimonianza in tribunale, né le era concesso amministrare direttamente i suoi beni e tanto meno le veniva riconosciuta la patria potestà sui figli, neppure in caso di vedovanza.

Il balzo di qualità ebbe luogo durante l’Antico Regno (2650-2150 a.C.) quando il singolo individuo venne riconosciuto come entità giuridica autonoma, distaccata dalla famiglia la quale si trasformò in gruppo di personalità indipendenti. Da un punto di vista giurisprudenziale, davanti alla Legge, tutti gli individui erano considerati uguali e lo Stato non riconosceva alcun privilegio sociale o economico. E’ in questa fase storica che la donna poté esprimere la propria volontà nel disporre i suoi beni essendo essa riconosciuta pienamente come persona giuridica in tutto uguale all’uomo.

Con i suoi difetti e le sue virtù, la donna ricopriva un ruolo societario portante e il giudizio da lei espresso godeva di notevole considerazione. All’interno del matrimonio i coniugi erano posti sullo stesso piano, entrambi disponevano a piacimento del proprio patrimonio, lo amministravano autonomamente e liberamente disponevano di esso. Nessuna tutela viene esercitata nei confronti delle donne. Al raggiungimento della maggiore età ogni figlio, se lo desiderava, poteva lasciare la famiglia d’origine e intraprendere una vita indipendente. Ciononostante la famiglia egizia non cadde nell’individualismo, infatti i sentimenti familiari furono sempre molto forti come è testimoniato dai reperti archeologici funerari e dagli scritti a noi pervenuti.

 

Rendile in misura doppia il pane che ti diede tua madre

e portala, come lei ti portò.

Tu fosti per lei un carico faticoso e pesante.

Ma lei non ti lasciò neppure quando giungesti in porto.

Il suo dorso ti portò.

I suoi seni ti nutrirono per tre anni.

Non si disgustò mai della tua sporcizia

e non si scoraggiò dicendo: che cosa si deve ancora fare?

Quando ti condusse a scuola,

allorché ti si insegnava a scrivere,

ogni giorno si prese cura del tuo nutrimento

portando il pane e la birra da casa sua.

(Papiro di Ani, 7,15-8,1. British Museum)

 

Il mantenimento dei legami familiari non era sancito da alcuna norma legislativa ma erano un dogma proprio della morale laica che inculcava profondamente tali sentimenti. Era importante che la famiglia fosse numerosa, pertanto era consigliato il matrimonio in età giovanile e, data l’elevata mortalità femminile per parto, gli uomini si sposavano più volte. Solo i faraoni e gli alti dignitari erano poligami, gli altri comuni cittadini erano monogami, ciò era dovuto a semplici motivazioni economiche. Infatti avere più di una moglie implicava spese elevate poiché tutte le consorti dovevano essere trattate in modo eguale.

Colui che non si sposava o che non creava una famiglia, veniva considerato un egoista e perdeva la stima di tutti. Era infatti contemplata la possibilità di adottare degli orfanelli, qualora non fossero arrivati figli naturali.

L’intimità tra i coniugi e la loro uguaglianza viene espressa, nei componimenti poetici, attraverso il reciproco definirsi fratello e sorella, in luogo di marito e moglie. L’utilizzo di questi vocaboli era diffuso tra i giovani nelle liriche d’amore.

 

Mi sdraierò in casa

e fingerò di essere malato.

Verranno i miei vicini a visitarmi

e verrà mia sorella con loro.

Essa renderà inutile il medico

poiché essa conosce il mio male!

(Papiro Harris, r.II, 9, 11. British Museum)

 

Si desume quindi l’inesistenza delle unioni combinate,i giovani si sceglievano liberamente e  l’amore stava alla base del matrimonio.

Ripercorrere la storia dell’istituzione matrimoniale nell’antico Egitto non è semplice poiché le fonti sono avare. I documenti pervenuti su questo argomento risalgono al periodo della dominazione persiana nella regione tebana (525-404 a. C.), da essi si desume l’esistenza di due tipologie di contratto matrimoniale: patrilocale (la sposa si trasferisce a casa dello sposo) e matrilocale (lo sposo si trasferisce a casa della sposa). I riti di celebrazione matrimoniale rimangono tuttavia un mistero, alcuni studiosi immaginano che le famiglie dei due sposi si ritrovassero nel tempio dove i due contraenti ricevevano una benedizione; altri studiosi ritengono che i matrimonio venisse ufficializzato dalla coabitazione dei due sposi.

Non sembra che i matrimoni e le nascite dei figli venissero registrati in appositi registri, per lo meno tali registrazioni non riguardavano le unioni e le nascite di gente comune. E’ però molto verosimile che esistessero registri di questo tipo specialmente per i matrimoni di persone ricche. Il matrimonio era pur sempre un contratto di vita e, in caso di divorzio o di morte di uno dei due, si doveva procedere alla spartizione dei beni o ad un eventuale risarcimento della parte più debole, ma più semplicemente per una questione di tipo ereditario era necessaria la chiarezza.

L’amore coniugale e la reciproca fedeltà ricoprono un ruolo fondamentale nella morale sociale egiziana in misura maggiore rispetto ad una qualunque altra civiltà antica. La felicità familiare può essere raggiunta solo con la concordia coniugale. La dea Iside, in quanto sposa e madre, era la divinità protettrice della famiglia.

Circondare d’affetto la propria sposa non era l’unico atto d’amore che un marito doveva alla consorte, ma era suo dovere garantirle un buon tenore di vita in caso egli la lasciasse vedova. I numerosi testamenti pervenutici risalenti all’Antico Regno (2650 – 2150 a. C.), contengono generalmente un legato da parte del marito a favore della moglie, in misura uguale a quelli predisposti per ciascun figlio.

Durante il Nuovo Regno (1540 – 1070 a. C.) il contratto matrimoniale si evolve assumendo l’aspetto  di un accordo stipulato tra parti giuridicamente uguali che concorrono alla creazione di un patrimonio comune. Alla morte di uno dei due, chi sopravviveva poteva godere dell’usufrutto dell’intero patrimonio e disporre liberamente della propria parte, mentre l’altra parte andava agli eredi del coniuge venuto meno.

Lo scioglimento del matrimonio poteva avvenire anche per divorzio. L’esistenza del divorzio è documentata in diverse epoche, esso poteva avvenire solo per un giusto motivo e per volere di uno qualunque dei coniugi.

La donna divorziata poteva tornare a casa del padre, se ne aveva la possibilità, oppure si stabiliva a casa di un fratello o di un figlio.

L’adulterio era la causa più grave di divorzio e ripudio. Nel caso in cui ad essere accusata di adulterio fosse la donna, questa poteva difendersi giurando la sua non colpevolezza, il giuramento infatti estingueva l’azione del marito e le concedeva un indennizzo, qualora la moglie non giurasse era considerata colpevole.

Se invece l’adulterio era da parte del marito, la moglie poteva chiedere il divorzio e con esso un risarcimento.

L’adulterio era considerato la più grave delle colpe ed era punito molto duramente. La donna veniva privata del suo fascino con l’ablazione del naso e l’uomo subiva l’evirazione.

Quanto sopra descritto delinea un quadro riassuntivo della figura femminile della donna egiziana all’interno della società quotidiana. La figura regale femminile, nell’immaginario collettivo ha da sempre ricoperto un ruolo carico di fascino misterioso poiché essa è un tutt’uno con la divinità.

Per comprendere la teologia egizia è indispensabile riassumere quelle che sono le ideazioni egizie sulla Cosmogonia, intesa come dottrina del mito della creazione dell’Universo.

La mitologia creazionale egizia ebbe origine nei quattro grandi centri sacerdotali: Eliopoli, Ermopoli, Menphi e Tebe. Il dio creatore varia a seconda delle diverse cosmogonie.

La Teologia di Eliopoli pone al centro della creazione il dio Atum (nato da Nun, l’oceano primordiale) che salito su un’altura creò Shu con uno sputo (il vuoto) e la dea Tefnut (l’umidità). Dalla loro unione nacquero Geb e Nut (la Terra e il Cielo), che a loro volta generarono due coppie di fratelli e sorelle: Osiride, Iside, Seth e Nefti che procrearono l’umanità.

La Cosmogonia di Menphi riteneva che la creazione del mondo fosse opera di Ptah che attraverso il cuore e la lingua – rispettivamente il pensiero e la parola datrice di vita – generò quattro emanazioni di sé. Pertanto la divinità creatrice diede alla luce sia gli dei che le città e i distretti egizi e insegnò agli uomini l’agricoltura e l’artigianato.

La teologia ermopolitana affermava che una collina di fango sarebbe emersa dalle acque circostanti la città di Ashmunein (Ermopoli) e avrebbe dato origine alle otto divinità primordiali: quattro divinità maschili con la testa di rana e quattro femminili con la testa di serpente. Queste otto divinità formarono l’Ogdoade, da cui il nome di Ashmunein che significa “città degli otto”. In un secondo tempo, la leggenda passò a Tebe e qui avrebbe subito delle modifiche in base alle quali gli otto dei avrebbero creato un uovo dal quale nacque il dio-sole Amon.

La complementarità dei due sessi è essenziale per affermare e mantenere l’equilibrio cosmico. In particolare la figura di Iside racchiude in se tutte la sfaccettature tipiche dell’ideale femminile:

 

[…] Dea dalle molte facoltà,

onore del sesso femminile.

[…] Amabile, che fa regnare la dolcezza nelle assemblee,

[…] nemica dell’odio […]

[…] tu regni nel Sublime e nell’Infinito.

Tu trionfi facilmente sui despoti con i tuoi consigli leali.

[…] Sei tu che, da sola, hai trovato tuo fratello (Osiri), che hai

ben governato la barca, e gli hai dato una sepoltura degna di lui.

[…] Tu vuoi che le donne (in età di procreare) si uniscano agli uomini.

[…] Sei tu la Signora della terra […]

Tu hai reso il potere delle donne uguale a quello degli uomini!

(Papiro di Ossirinco, Il Grande Inno a Iside, n.1380,1.214-216. II sec. a. C.)

 

La dea Iside presenta quindi una molteplicità di aspetti che convergono in essa e derivano dal sincretismo di tre divinità femminili, accomunate tra loro per la predominante natura di dee – madri: Mut, Hathor e la stessa Iside.

Nella religione egizia, la dea-madre ha un significato dualistico: da un lato ha un significato mistico-divino poiché è intesa come madre della triade divina e dall’altro riveste una visione cosmica di madre da cui dipende tutta la vita.

In quanto madre di Horo – il dio che si incarna nel sovrano regnante – Iside è la madre del re, dunque madre universale.

Il ruolo di madre universale è, al contempo, svolto da diverse altre divinità femminili venerate come incarnazione delle acque primordiali e del cielo e sono rappresentate con l’aspetto di vacca. La dea Hathor è la divinità che più spesso, nelle raffigurazioni, assume un aspetto antropomorfo con le orecchie bovine e le corna. Essendo considerata madre universale, è legata al ciclo del Sole di cui è madre e contemporaneamente figlia. In base alla leggenda la dea è emanazione dell’occhio di Ra nella sua doppia natura con duplice personalità: creatrice e distruttrice. Da selvaggia leonessa si trasforma in Hathor che, in epoche successive, verrà assimilata a Bastet, la dea dell’amore, della felicità, della melodia e della danza, le cui sembianze sono quelle di un gatto.

Particolarmente riferibile alla dea Hathor è la simbologia degli strumenti liturgici che però si ritrovano attribuiti, per sincretismo, a Iside. Gli oggetti simbolici e gli strumenti liturgici sacri alla dea, venivano ad essa offerti durante le cerimonie religiose più solenni. In totale gli oggetti erano nove e simboleggiavano la teologia e i miti della dea primordiale del cielo. Gli oggetti erano: la collana di menat (essa donava la vita eterna), la clessidra (simboleggiava il tempo cosmico), i due sistri (in grado di produrre una melodia liturgica che incantava le orecchie della dea), il mammisi (modellino dell’edificio di residenza del bimbo-dio, garante dell’equilibrio e dell’ordine cosmico), il vaso del latte (contenente il latte di origine divina che donava la vita), la brocca di menu (contenente l’ebbrezza che consentiva agli uomini di avvicinarsi agli dei), la corona d’oro (forgiata dal dio Tatenen, rendeva la dea simile a suo padre Ra e il cui corpo e d’oro puro), il simbolo della protezione delle Due Terre (simbolo cosmico complesso che intendeva rappresentare il legame tra l’Alto e il Basso Egitto e tra il mondo terreno e le divinità), la porta monumentale (qui era protetto il ba della dea, ossia la sua capacità di muoversi e di assumere qualunque forma).

E’ parte integrante dell’oggettistica simbologica sopra elencata anche lo specchio, esso è infatti strettamente connesso con la vita e la rigenerazione. Infatti l’offerta del doppio specchio – a simboleggiare gli occhi di Horo: il Sole e la Luna – appare con frequenza nei templi consacrati al culto di Hathor e di Iside.

All’interno della religione egizia sono ancora numerose le divinità femminili, ricordiamo le più importanti (dopo Iside e Hathor); si tratta delle dee Serqet, Meskhenet, Tueret e Ipet.

Tutte queste divinità ebbero una grande rilevanza nelle liturgie legate agli atti propiziatori delle figure regnanti femminili.

La dea scorpione Serqet concentrava in sé il pieno concetto di divinità femminile. In epoca arcaica essa veniva raffigurata come uno scorpione e proteggeva coloro che rischiavano la morte per soffocamento provocata dalle punture degli scorpioni o dei serpenti. Successivamente la dea venne rappresentata come una donna con uno scorpione sul capo. Durante il Nuovo Regno, nei rituali funerari per il faraone, la dea compare nella settima ora della notte e tiene con le mani la fune che imprigiona il serpente Apopi (simbolo del male). La dea aveva capacità taumaturgiche e trasmetteva i poteri magici ai suoi seguaci. Inoltre la dea Serqet – insieme a Iside, Nefti e Neith – era una delle quattro divinità protettrici dei vasi canopi.

Protettrice delle nascite e dei neonati, la dea Meskhenet simboleggiava la sedia del parto. Le metodiche di assistenza durante il parto erano rudimentali, ci si limitava infatti ad assecondare in modo naturale la nascita. Per agevolare l’evento furono inventate apposite sedie che costringevano la partoriente in una posizione raccolta, in questo modo i muscoli perineali si allentavano e favorivano l’espulsione del nascituro più rapidamente. L’invocazione alla de Mekhenet comprendevano norme igieniche e formule di carattere magico-religioso per la protezione della madre e del nascituro. La dea determinava, fin dalla nascita, la vita futura e la professione del neonato.

Emblema della dea-madre, la dea Tueret appare sotto nomi diversi e risale ad un’epoca più arcaica. Secondo la leggenda, nacque dalle paludi e dalle acque primordiali del Nun e personifica il caos liquido dal quale poi si è formata la Terra, divenendo così la dea dei riti lustrali. Raffigurata con la testa di donna e il corpo di ippopotamo con le mammelle rigonfie, in posizione eretta sulle zampe posteriori. Tueret vegliava sul sonno dei vivi e dei morti, proteggendo tutti con il segno geroglifico sa, un grosso nodo che rappresenta la dea stessa.

Alla dea Ipet competeva il ruolo di nutrice che allatta il re e anch’essa, durante l’Antico Regno,  viene rappresentata come un ippopotamo e successivamente – nel Medio Regno – si identifica con Nut: dea madre del cielo, protettrice dei morti e delle necropoli e pertanto viene assimilata ad Hathor. Durante la XVIII dinastia è adorata in modo particolare ad Eliopoli e Tebe. Nel tempio di Luxor la sua figura si confonde con un’altra Ipet, signora del gineceo di Amon e dea della fecondità e raffigurata con vesti principesche.

Questo sintetico excursus teologico riguardante la sfera delle divinità femminili consente di comprendere quanta importanza avesse la donna-dea. La sua potenza era di tipo positivo poiché donava la vita e la proteggeva per tutta la sua durata terrena e ultraterrena, un legame diretto tra queste ideologie religiose e la concezione della regina quale dea è ineluttabile.

Le regine, da sole o con un consorte al loro fianco, ebbero sempre un ruolo da protagoniste nel guidare il paese.

La storia d’Egitto racconta di numerose donne al potere, legittimamente sovrane. Il nostro ricordo va a cinque di esse. La regina Hatshepsut – quinto sovrano della XVIII dinastia – era la figlia maggiore del re Thutmosis I, sposata al fratellastro Thutmosis II e tutrice del giovane fratellastro-nipote Thutmosis III, riuscì a sfidare la tradizione religiosa e politica del tempo e a installarsi saldamente sul trono divino dei faraoni. Fu l’unica presenza femminile nella storia dell’Egitto ad essere rappresentata, sia come donna che come un uomo, vestita con abiti maschili, dotata di accessori maschili e addirittura della barba finta, tradizionalmente esibita dai faraoni. Dopo la sua morte Thutmosi III cercò con ogni mezzo di cancellare il suo nome e la sua immagine, condannandola alla damnatio memoriae. I monumenti di Hatshepsut furono abbattuti o usurpati da altri, i ritratti distrutti e il nome cancellato dalla storia e dall’elenco ufficiale dei re egizi. La regina Hatshepsut è il monarca di sesso femminile più famoso che l’Egitto abbia mai avuto in tutto il corso della sua storia.

La regina Teie fu una fanciulla di origine non regale, figlia di Yuia – alto funzionari statale con importanti incarichi militari – divenne regina sposando il grande sovrano Amenhotep III (XVIII dinastia, 1390-1352 a.C.). Fu la prima regina che ebbe un ruolo importante durante la vita del suo sposo, infatti partecipò attivamente alla politica estera e si preoccupò dei problemi del paese durante i primi anni di regno del figlio, nel nome del quale esercitò la reggenza. Fu assimilata alla dea Hathor e venerata come patrono locale mentre era ancora in vita. Teie fu la prima donna ad essere divinizzata durante la propria esistenza.

Nefertiti, da tutti ritenuta figlia di Ay, fratello di Teie, nipote quindi di Yuia e quindi cugina di Amenhotep IV, suo marito. Nefertiti e il suo sposo ,formarono una coppia molto legata dal punto di vista politico. Nel V anno di regno, quando il sovrano cambiò il suo nome in quello di Akhenaten, Nefertiti riceve un altro nome : Nefer-nefru-aten (Aten è perfetto nella sua bellezza). Sembra che dopo il XII anno di regno, abbia ricoperto a corte un ruolo di minor importanza, probabilmente per la presenza di Kiya, altra sposa di Akhenaten. Nefertiti morì durante il XIV anno di regno di Akhenaten.

Nefertari, grande sposa reale di Ramesse II (XIX dinastia) era probabilmente di origine tebana, ma non si hanno testimonianze sicure circa le sue origini. Il ruolo diplomatico svolto da Nefertari nei rapporti dell’Egitto con gli Ittiti è ampiamente documentato. Nefertari ebbe 4 figli maschi e 2 figlie: Meritamon e Nebettani, entrambe furono in seguito spose e regine di Ramesse II.

Tausert (1194 – 1186 a.C.) fu la quinta donna a governare l’Egitto come faraone, l’ultimo della XIX dinastia. Era la seconda sposa di Sethi II, dal quale ebbe un figlio, Sethi-Merenptah, che morì ancora bambino. A Sethi II succedette il figlio Siptah, che era ancora bambino quando salì al trono. Per tale motivo svolsero la funzione di reggenti la matrigna, Tausert, e un cancelliere di origine siriana di nome Bay. Anche se Bay incoronò Siptah, Tausert conservò sufficiente influenza e potere per farsi costruire una tomba nella Valle dei Re. Dopo sei anni di regno, Siptah morì. Tausert divenne allora faraone; adottò tutti i titoli reali e il nome di Sitra-Meriamon Tausert, che significa ”Figlia di Ra, amata da Amon, Tausert”. Tausert regnò sola, ma solo per due anni secondo l’egittologia moderna, durante i quali riallacciò i contatti con altri paesi e realizzò una politica di costruzione in Egitto. Sono state trovate placche col suo nome del Delta e il suo cartiglio compare in gioielli dell’epoca di Sethi II. Nella zona di Bubasti fu trovato un tesoro con vasi d’oro e d’argento che recano il suo nome. Come avvenne nel caso di Hatshepsut, Sethnakht ordinò la damnatio memoriae del nome di Tausert, usurpò la sua tomba della Valle dei Re e distrusse i cartigli. La sua mummia, parzialmente distrutta, è stata scoperta nel nascondiglio della tomba di Amenhotep II, accanto a quella di Siptah.

Al termine di questo breve viaggio nella società egizia ci sembra evidente l’alta considerazione di cui godeva la donna, a qualunque ceto sociale essa appartenesse. La ricchezza delle immagini femminili a noi giunte testimonia l’ispirazione artistica nelle varie epoche. L’arte egizia ha saputo valorizzare la perfezione del corpo e del viso femminile attraverso capolavori di sconvolgente bellezza e attualità.

Giuliana Mallei

Argia

Qualche anno fa, sulla stampa locale, comparve la notizia che la vedova nera, il famigerato ragno velenoso che si credeva estinto da decenni, godeva invece ottima salute e si riproduceva tranquillamente nelle campagne sarde.

Perché tanto interesse per un ragno di pochi millimetri di grandezza, con l’addome globoso di un nero lucido punteggiato di macchioline rosse?

In effetti già i suoi colori, nella muta simbologia della natura, hanno il loro significato; sono un perspicuo avviso: attenti, sono letale! Il veleno della malmignatta (Latrodectus Tredecimguttatus), è infatti decisamente potente, circa quindici volte più potente di quello del serpente a sonagli. Fortunatamente, però, la quantità di tossina che questo ragno può iniettare quando morde, è decisamente bassa; ciò non toglie che quando l’Argia o Arza o Ardza (questi sono i suoi appellativi in sardo) punge un malcapitato, le conseguenze possono essere talmente gravi da far cadere la vittima in crisi convulsive ed alterazioni della coscienza. Scrive il Jervis: “..il morso può non venire avvertito, o essere trascurato, cosa che facilita la non identificazione della causa dei disturbi. A qualche minuto dal morso si ha la comparsa di una sintomatologia di tipo tossico generale (malessere, sudorazione)  accompagnata da disturbi neurologici specifici: dolori violentissimi che partendo dalla zona colpita si irradiano a tutto il corpo e sono particolarmente intensi nell’addome, tanto da simulare un addome acuto peritonitico, o da poter essere da parte dei più incolti riferiti a coliche o doglie da parto; disturbi visivi; ansia vivissima con depressione, pianto e sensazione di morte; in seguito segni di confusione mentale, irrequietezza e particolare tendenza a tremito e spasmi dolorosi agli arti inferiori, tali da simulare a volte movimenti di danza o movimenti convulsivi; disturbi neurovegetativi come sudorazione profusissima, congestione del volto, ritenzione urinaria e a volte eccitamento sessuale”.

Comunque con l’appellativo di  Argia (in Sardegna), viene significato anche un altro artropode: la  mutilla, una piccola vespa solitaria, carnivora, senza ali, vistosamente colorata, che si può osservare aggirarsi intorno ai formicai in cerca di vittime. Dotata di un pungiglione di ben cinque millimetri e del relativo veleno, non ha niente da invidiare alle sue cugine gialle e nere (come anche nelle conseguenze della sua puntura!). In certe zone della Sardegna, la FrumigArgia è temuta e rispettata come il ragno di cui all’inizio e talvolta è identificata con esso nel mito dell’Argia,  anche perché entrambi richiedevano, quale cura tradizionale alla loro puntura, il ricorso ad una particolare terapia.

Proviamo a spostarci idealmente nel passato……, in una di quelle estati sarde nelle, quali tutta la comunità di un paese collaborava, sotto la polvere canicolare, alla mietitura e trebbiatura del grano; è proprio qui, tra i corpi seminudi, la stanchezza, il sudore e i piedi scalzi dei contadini, che si consumava il silenzioso assalto dell’Argia, sconvolgendo, non solo il povero e operoso contadino, ma infrangendo un momento di comunione e collaborazione dal quale dipendeva la sopravvivenza dell’intera stessa comunità. E’ proprio in questo contesto, ritengo, che l’Argia ha fatto il salto di qualità, divenendo mito fino a sollecitare speciali rituali praticati sino agli anni ’60 del secolo scorso e che oramai rimarranno nella memoria sociale e culturale della Sardegna.

In un ambito culturale primitivo nel quale entità soprannaturali regolavano e dominavano la vita delle comunità, l’Argia è stata elevata da piccolo ragno (seppur pericoloso), a Essere con capacità di possedere il corpo e lo spirito del colpito che, quale elemento di una comunità che si sente a sua volta colpita nella sua interezza, viene da questa soccorso con rituali di liberazione.

Sembra quasi che, nell’immaginario popolare, la  Divinità-Ragno, occupasse un posto di primo piano fra i pericoli reali o fantastici che insidiavano i nostri antenati, come se, oltre a colpire dolorosamente il corpo del malcapitato, riuscisse a tormentarne anche l’anima.

Come negli antichi riti legati alla fertilità (tramandati fin quasi ai nostri giorni), paura ed impotenza causavano la necessità di esorcizzare le minacce legate al soprannaturale, mediante scongiuri che, senza tralasciare il mito originario, si sono successivamente rimodellati sulle nuove esperienze religiose.

Dopo l’affermarsi del cristianesimo, le invocazioni protettive e gli scongiuri contro questo pericoloso nemico, che il contadino o il pastore imparavano a temere sin da bambini, si rivolgevano a Dio, alla Madonna, ai Santi che venivano comunque accomunati alle antiche divinità legate al Sole ed alla Luna.

Le Argie, nella nuova cultura, diventano anime malvagie e dannate che, tramite il velenoso morso, trasferiscono la propria pena nella persona colpita.

L’Argia, quale presenza e minaccia per la comunità, era sempre un essere femminile che poteva appartenere a diverse tipologie di ceto e stato civile, inoltre spesso proveniva da un altro villaggio pertanto estranea a quella vita sociale nella quale si insinuava (istrangia). Viceversa, prevalentemente maschile era la casistica dei casi di possessione.

Il rituale di liberazione era un esorcismo finalizzato ad individuare le caratteristiche dell’Argia colpevole. Questo rituale prevedeva l’esecuzione di musiche, canti, travestimenti e interrogatori in presenza della comunità, coinvolta in danze e scherzi carnevaleschi, per una durata di tre giorni;  terminava quando il parassita, ormai smascherato, abbandonava la propria vittima.

Quale conseguenza del fatto che l’Argia fosse considerato un essere femminile, il corpo esorcistico prevedeva la presenza e partecipazione di sole donne (tre o sette), mentre l’unica figura maschile era quella del suonatore.

Il gruppo interveniva con diverse metodiche al fine di esplorare l’Argiato sin quando le musiche, i suoni o il comportamento degli esorcizzanti non risultavano graditi all’essere che possedeva il malato. Il successo del rituale veniva decretato da una sorta di dialogo con il  ragno che, soltanto alla fine, permetteva al posseduto di rientrare nella sfera comunitaria.

Particolarmente importante era poi il ruolo del suonatore; egli doveva avere una profonda conoscenza dei balli tipici delle varie zone della Sardegna e pertanto era suo primo compito interpretare gli spasmi dolorosi degli arti inferiori del colpito come movimenti di una danza, di cui riproduceva il ritmo, ricercando e riproducendo una musica conosciuta che avesse la stessa cadenza, in un lavoro di sincronizzazione realizzato con l‘organetto o le launeddas.

Se questi suoni erano tipici di un paese o territorio differente, questo veniva identificato dalla interpretazione popolare, come l’area di provenienza dell’Argia e tale musica veniva proposta, per i tre giorni del rito, con le stesse modalità, accompagnando il bizzarro ballo del posseduto che danzava da solo o sorretto da altri ballerini.

La musica risultava essenziale anche nella caratterizzazione dello stato civile dell’Argia.

Chi era posseduto ballava e personificava la “sua”  Argia particolare e, dal suo riconoscimento, si differenziava il conseguente rituale: se era preda di una Argiabambina (pippia o  pizzinna), veniva cullato con ninne nanne tradizionali o improvvisate, che non erano rivolte all’ammalato ma piuttosto all’entità che lo possedeva, che veniva quindi invitata a tornare ai suoi giochi infantili e non fare più ritorno.

Chi veniva punto da una Argia-fidanzata, o maritata, o nubile, o sedotta (isposa, coiada,  bagadia,  cugliunada), veniva coinvolto in una rappresentazione amorosa fatta di canti d’amore, ricerca di partner, relative nozze e parto simbolico (prentoxia-partoriente); un rituale, questo, a forte tenore erotico nel quale, grazie all’alibi della possessione, potevano emergere comportamenti pretesto atti a violare i tabù sessuali che vincolavano la vita del paese.

La vittima di un’Argia-vedova (viuda), veniva compianta invece come morta, in quanto il parassita richiedeva una interpretazione di cordoglio e pianto per il proprio sposo, preparatoria al successivo rituale di rinascita che aveva lo scopo di riportarlo in vita.

Più statiche erano, infine, le figure dell’Argia-vecchia o malata (beccia o martura), che rifiutavano il ballo, erano caratterizzate da immobilità e torpore ed il malato veniva curato con la cerimonia del focolare domestico o con l’immissione in un forno tiepido.

Anche il travestitismo aveva la sua importanza in questi rituali di identificazione/liberazione/guarigione; all’Argiato venivano fatti provare diversi costumi femminili, sino a quando, l’alleviarsi dei sintomi indicava che l’abito indossato risultava gradito all’Argia perché corrispondeva a quello del paese da cui proveniva.

Le tecniche di esplorazione comprendevano anche l’interrogatorio esorcistico nel quale l’Argia si manifestava per bocca del posseduto, dichiarava apertamente la sua identità e provenienza, i motivi della sua pena ed esternava le sue pretese. Questa fase concludeva i tre giorni del rituale, plasmati sulla effettiva fisiologica durata dell’avvelenamento.

È importante notare di come il simbolismo rituale sopra descritto, possa oscillare tra il ruolo di esorcismo terapeutico e quello della festa, tra l’esaltazione della possessione e l’aspetto carnevalesco, dovendosi rapportare ai differenti orientamenti indotti dalla presenza o meno di una componente cristiana.

Nel tempo sono state date molteplici interpretazioni a questi rituali, collegandoli magari a miti lontani nel tempo e nello spazio; sicuramente, pur avendo punti di confronto con il tarantismo pugliese legato al culto di San Paolo, l’argismo sardo era nettamente differenziato, spesso scevro dalla radice cristiana e che conservava, soprattutto nella Sardegna centro orientale, caratteristiche ancestrali e fortemente pagane con chiassate, pantomime, rituali orgiastici, in apparente antinomia con la funzione ed il simbolismo di guarigione.

Oltre alla concretezza dell’avvelenamento, il mito che si era sviluppato sull’Argia non corrispondeva a nessuna realtà oggettiva anche se ciò non aveva alcuna importanza: chi veniva punto ci credeva …., era membro di una comunità che ci credeva.

L’Argia rientrava nell’atavico sistema di esseri soprannaturali, spiriti protettori o malvagi, animali magici che permeavano la quotidianità e richiedevano quella ritualità che, oltre  ad aiutare il contatto con il divino, stabilivano un’armonizzazione tra l’individuo che compiva i riti, e la sfera sociale nella quale agiva. La possessione  Argiatica infatti, creava uno stato nel quale il malato parlava con e attraverso l‘Argia, mentre, alle persone che lo assistevano, era permesso avere un rapporto diretto ed un dialogo col Nume Possessore.

Tutte le tecniche del rituale avevano un unico scopo: rafforzare i sentimenti di appartenenza dell’individuo in seno alla comunità di appartenenza. Per mezzo di un unico ritmo, un’unica veste e ruolo, si configurava un modello di comportamento coerente in ogni particolare, ovverosia, si realizzava il passaggio dal caos all’ordine in cui, in un contesto di forte socialità, la collettività si attivava prendendosi cura del malato e reintegrandolo al suo interno.

Mario Camboni


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Storia delle antiche religioni – Il dualismo Zoroastriano

Considerato il  fondatore dello  Zoroastrismo o  religione mazdea,  Zarathustra, o Zoroastro, fu un profeta e mistico iranico inviato dal sommo dio Ahura Mazda, il cui significato è  il Signore Saggio,  per guidare verso la salvezza l’umanità soggiogata dalla malvagità di  Angra Mainyu,  lo Spirito del Male.   Ahura Mazda ”Spirito che crea con il pensiero” (avestico) è, infatti, il nome dell’unico Dio, creatore del mondo sensibile e di quello sovrasensibile della Religione zoroastriana. Non  si conosce con precisione il luogo e il periodo in cui sia vissuto Zarathustra; gli studiosi lo collocano il tra l’XI e il VII secolo a.C. Ipotesi più recenti, attestate da una verifica filologica e archeologica ritengono, tuttavia, più plausibile una sua collocazione nell’Età del Bronzo tra il XVIII e il XV secolo a.C.. Geograficamente si ritiene che possa aver vissuto e predicato tra gli odierni Afghanistan e il  Turkmenistan. Egli è il compositore  delle  Gâthâ, le quali si presentano come composizioni liriche religiose facenti parti dell’Avestā. Si tratta di diciassette inni (hâti) suddivisi originariamente in cinque canti (Yasna): il Canto del Signore; il Canto della Felicità; il Canto dello Spirito del Bene; il Canto del buon dominio; il Canto del buon desiderio. La peculiarità delle  Gâthâ, che oltre ad essere la parte più antica e venerata, è rappresentata dall’utilizzo di una lingua differente dal resto della raccolta avestica, tanto da essere assimilata ai più antichi scritti della tradizione indiana: i testi sacri  Veda.  Nell’esposizione delle Gâthâ si possono, peraltro, intravedere svariati elementi esoterici, tanto da risultare tra i testi di più difficile interpretazione dell’intera tradizione indoiranica. Sono, inoltre, presenti elementi che mettono in risalto l’alta moralità e la spiccata religiosità del profeta iranico. Tale risulta essere, ad esempio,  il passo relativo al conflitto persecutivo attuato nei suoi confronti dai  seguaci dei vecchi culti, i cosiddetti  karapan, kavi e Usij, adoratori dei  Daêva, considerate le divinità dell’antico politeismo iranico. Quel conflitto fu causato prevalentemente dall’accusa rivolta ad essi da Zoroastro, che li apostrofò come mistificatori del sacro e adoratori della falsa religione. Persecuzione, quella, che lo indusse ad emigrare dalla propria terra, come viene desunto in un passo di un canto della Gâthâ (Yasna 46, 1): «Presso quale tribù potrò rifugiarmi? Dove fuggire? Vengo cacciato dalla mia famiglia e dalla mia tribù: né il villaggio, né i capi malvagi del mio paese mi sono favorevoli, come potrò servire  Ahura Mazda?». Nel suo pellegrinare Zoroastro scelse di farsi accompagnare da pochi discepoli, i drigu (i bisognosi), i frya (gli amici) e gli urvatha (i compagni) sostenendo, nel diffondere la sua hu mereti (la buona novella) che  tutto  ciò  che  di  benefico  esiste   è stato creato da Ahura Mazdā, mentre tutto ciò che è malefico è opera di Angra Mainyu (Spirito del Male). In quel particolare contesto sociale,  politico e religioso, il polso della situazione era tenuto da una casta di guerrieri, chiamati Mairya, veneratori del  Thraêtaona, (eroe uccisore del drago). I  Mairya eccedevano spesso nella violenza e nella pratica di cruenti sacrifici notturni di indole oscura, distinguendosi nell’uso spregiudicato della pratica sessuale, dell’esercizio della forza e del furore  (aêshma). La loro mitologia e il loro credo erano imperniati su un carattere infero e predatorio, i cui simboli di appartenenza erano di indole malefica. In contrapposizione a tanta violenza e sopraffazione Zarathustra assumeva una posizione avversa alle prevaricazioni e alla insaziabili scorrerie devastatrici di pascoli e raccolti. Piena di simbolico significato nella  Ahunavaitî Gâthâ viene narrata una sorta di parabola detta “del lamento dell’anima del bue” (Gêush  urvan). Tale lamento  simboleggia  la  voce di  un essere sofferente, abbandonato alla furia di crudeli predatori e sacrificatori, alla ricerca disperata di un buon pastore. In tale allegoria viene ulteriormente messo in rilievo il conflitto in essere tra  la società e il clero tradizionale, fondato sul rifiuto della pratica sacrificale del bestiame unito all’uso di bevande allucinogene, il sauma indoiranico, apostrofato da Zarathustra come “urina” (Yasna 48, 10). Zarathustra,in antitesi a tali eccessi, contrappose la sua dottrina fondata sull’etica e sul libero arbitrio. Relativamente all’etica in quanto basata sull’esortazione alla moderazione e al buon comportamento e all’invito a rinunciare ai tanti eccessi. Congiuntamente, nell’esercizio del libero arbitrio, esortò alla fede nel Dio unico Ahura Mazdah, indicando, ma non imponendo, la giustezza dell’esistenza come atto di libera volontà, da attuarsi nella scelta della lotta della Vita contro la nonVita, del  Bene contro il  Male, della Luce contro la  Tenebra. All’uomo era data, infatti, la possibilità di scegliere, come all’inizio liberamente fecero, lo Spirito Benefico (Spenta Mainyu) e lo Spirito Distruttore (Angra Mainyu).  L’insegnamento delle Gâthâ assume qui una nuova dimensione spirituale, spiccatamente introspettiva ed estatica, nel corso della quale a Zoroastro viene rivelata l’essenza dell’esistere come opposizione tra Verità  (asha) e Menzogna  (druj). In tale esperienza estatica i due Spiriti gli appaiono: “come due gemelli in un sogno” (Yasna 30, 3-4). Il dualismo di Zoroastro infatti non è, come si potrebbe erroneamente pensare, tra spirito e materia, bensì tra i due spiriti: Spenta Mainyucontrapposto ad  Angra Mainyu; pertanto esso è ontologicamente indirizzato esclusivamente su un piano di un esistenza spirituale, interiorizzata ed estatica. Tale insegnamento determina i due stati di esistenza, materiale e spirituale, differenti e ben distinti tra loro. Questa concezione viene distinta da Zoroastro nelle Gâthâ come Vita del pensiero (manah) e  Vita corporea (tanu), perciò materiale. Nella Ahunavaitî Gâthâ (Yasna 28, 2) troviamo una corrispondente asserzione a questo tipo di concezione: “Io che intendo servirvi mediante il Buon Pensiero (Vohu Manah), o Saggio Signore (Ahura Mazda), affinché voi rechiate a me secondo la Verità (Asha) i favori delle due esistenze, la corporea e quella del pensiero”. Nella futura rielaborazione zoroastriana, pur sensibilmente modificata, non verrà mai meno, tuttavia, la distinzione netta delle due esistenze: il cosidetto mainyava (spirituale) e il  gaêithya (materiale). Il dualismo concepito dal profeta iranico, pertanto, è esclusivamente di natura spirituale, in quanto i due spiriti, il Male al pari del Bene, vengono considerati poteri universali, capaci di influire realmente sull’esistenza materiale. La spiritualità benefica viene indicata all’origine della creazione materiale, mentre la malefica è, come è scritto in Yasna 30, 4, negazione della vita:  “l’una è all’origine della “Vita” (gaya) e l’altra della “non-Vita” (ajyaiti)”. Il racconto mitico dell’origine cosmica narra della creazione di un mondo ideale, concepito nella purezza dell’uomo e dell’animale, anch’essi ideali, che lo abitarono: era il regno della Luce di Ahura Mazdah, un mondo senza peccato. Ma venne il  tempo della lotta e della contrapposizione generata dalla comparsa di Angra Mainyu,  lo Spirito del Male. Nella cruenta lotta che egli condusse per oltre tremila anni, basata sulla negazione e sulla corruzione del principio di purezza originaria di Ahura Mazdah, riuscì infine a penetrare la Luce e a sopprimere l’uomo e l’animale ideali. Da allora la terra venne invasa da creature corrotte e di origine malefica, le quali vennero generate da Angra Mainyucon l’obbiettivo di scacciare per sempre il Bene dal mondo. Egli tuttavia non riuscì del tutto nel suo intento, in quanto erano compartecipi di questa tremenda lotta i semi benefici lasciati sulla terra dall’uomo e dall’animale ideali. Da questa mescolanza del Bene col Male, infatti, nacquero i primi esseri umani, ponendo fine, di fatto, all’epoca del mondo celeste senza peccato, fondato sulla purezza dell’origine. Fu il preludio della dolorosa storia conflittuale dell’uomo, tuttora chiamato a scegliere tra il Bene e il Male. Lo Zoroastrismo, dunque è un  monoteismo dualista: uno è il Signore Saggio, (Ahura Mazda) creatore di tutte le cose, due gli Spiriti avversi che si combattono per la supremazia sul cosmo: lo Spirito Benefico  (Spenta Mainyu) e lo Spirito Distruttore  (Angra Mainyu). L’esperienza estatica della  religiosità e dell’insegnamento zoroastriano è improntata, pertanto, su rapporti dualistici, altamente simbolico e di antitesi, tra la Luce, che rappresenta la Conoscenza e la Tenebra; ovvero tra manifestato e non-manifestato, tra attività e quiete, nonché sul legame e sull’influenza di questi elementi con la sfera cognitiva e quella appartenente alla vita materiale. Come si evince, dunque, monismo e dualismo non sono incompatibili fra loro, anzi, le stesse religioni si configurano e si determinano tra un dualismo estremo e un monismo assoluto, ponendosi in qualche punto definito tra i due estremi. Il monismo assoluto, che afferma un unico e indissolubile principio divino è rappresentato dall’Ebraismo e dall’Islam. Dal momento in cui subentrano fattori limitativi o influenzanti il potere di Dio, (il fato, il caos, lo spirito, la materia, il bene, il male, il libero arbitrio, etc.) le religioni si allontanano dal monismo assoluto verso l’altro estremo  rappresentato dal dualismo assoluto. Questo enumera come suo più rappresentativo esponente lo Zoroastrismo, il quale postula, come detto, due principi del tutto separati e indipendenti. Il Cristianesimo si colloca in una posizione oscillante, a seconda dei gradi limitativi che vengono assegnati al potere e alla sovranità di Dio, tra i due estremi. Esso oscilla da Lutero a Calvino, più prossimi al monismo assoluto, ad Agostino e a Tommaso d’Aquino, che si collocano in una posizione intermedia, fino all’ala del più estremo  Manicheismo. Il dualismo Cristiano, collocandosi tra queste due estremità, attinge sia dall’orfismo greco che dal dualismo mazdeo. Dall’orfismo in quanto si basa  sull’opposizione  fra spirito  e materia: il Diavolo cristiano rappresentava il Male, ma era anche messo in relazione con la materia in contrapposizione allo spirito. Il dualismo di Zarathustra rappresentava una originale ed innovativa concezione teologica nella storia della religione, in quanto, negando l’unità e l’onnipotenza di Dio, (una sorta di teologia negativa ripresa e sviluppata in seguito dal Neoplatonismo) essa tendeva in questo modo a preservarne la perfetta bontà. Egli fu il primo a sostenere il principio assoluto del Male nella personificazione di Angra Mainyu, il quale rappresenta il primo diavolo nella storia delle religioni. Pur se indipendenti e separati tra loro, i due principi spirituali zoroastriani giungono a contatto, generando un conflitto fatto di lotta cruenta e opposizione. La presenza di una divinità malvagia che si contrappone al Bene implica due importanti conseguenze: in primo luogo che l’origine del Male non è insita originariamente nella natura umana, ma in una entità esterna di concezione universalistica, da cui l’uomo si fa spesso governare. In secondo luogo il successo della creazione, ovvero del prevalere del Bene sul Male, non è affatto scontato, ma richiede la cooperazione dell’uomo  attraverso la capacità di scelta. Il Mazdeismo, benché assolva l’essere umano dal peccato originale, non è affatto deresponsabilizzante, nel senso che propugna quell’impegno sociale e spirituale necessario a determinare il valore e la dignità propria di ogni essere umano, attraverso la libera e responsabile ricerca della Verità e del significato della vita, ponendosi l’obiettivo di costruire una comunità globale in cui  regnino pace, libertà, e giustizia per tutti; e infine, nella  compiutezza del tempo di cui non si conosce l’origine, far prevalere inesorabilmente il Bene sul Male.

Sandro Secci

 

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