LO SPIRITO DELL’UOMO PREMODERNO
Capitolo I
Lo spirito dell’uomo premoderno
Definire lo stereotipo dell’uomo vissuto in una determinata epoca, civiltà o popolo è, generalmente, compito dello storico. Ma quando si voglia tracciarne i caratteri e le affinità da un punto di vista ideologico, filosofico e umanistico, perfino religioso, rinchiudendolo in un recinto culturale delimitato, questo diventa assai più arduo e più complesso; crediamo perfino ingiusto e limitativo. Tali e tante sono le diversità e le particolarità tra individui, che in nessuna epoca si è potuta riscontrare una totale omogeneità dei singoli caratteri umani e ideologici. E’ vero, peraltro, che se si generalizza il concetto e si parla di spirito ideologico predominante, o di indirizzo e direzione verso cui tende tale spirito, in grado cioè di influenzare e determinare il pensiero e la morale dei più, allora si riescono a trovare analogie e assonanze, non solo tra singoli individui, ma anche tra civiltà e popoli delle diverse epoche. Ma è altrettanto vero che il valore aggiunto di queste ideologie predominanti è rappresentato dall’uomo singolo e da lui solamente, attraverso la sua visione universale delle cose umane, la sua creatività, la sua capacità di distinguersi dal luogo comune e dal pensiero di massa. Questi uomini eccezionali sono coloro che hanno consentito, in ogni epoca, di mantenere vivo e critico il dibattito culturale, facendo in modo che l’ideologia predominante non assumesse caratteri dogmatici e assolutistici. Questi uomini sono stati dichiarati molto spesso eretici dai loro contemporanei, martiri e santi dalle generazioni future. Essi hanno contribuito allo sviluppo critico del pensiero dell’uomo, della sua libertà e della sua dignità, permettendogli di avere una visione d’insieme più articolata e completa, non definitiva, del suo percorso verso il futuro. L’auspicio è che in ogni tempo nascano nuovi eretici, vivano e operino all’interno e nell’interesse della società e dello stato, in grado di apportare quell’elemento di criticità, ma anche di novità e di scandalo, quando necessario. In grado, cioè, di risvegliare le coscienze intorpidite, affinché possa nascere, in un prossimo futuro, l’”Uomo nuovo”, ovvero colui che sappia conservare il suo dono più prezioso e, nella sua metamorfosi, da artigiano sappia divenire artista. Definire l’uomo premoderno, dunque, significa collocarlo all’interno di una ideologia graduata e temporale, generalizzandone il contesto e cercando di estrapolarne gli aspetti e i caratteri più significativi, allo scopo di poter avere un confronto tra antico e moderno.
“Qual’è il senso della vita o della vita organica in generale? Rispondere a questa domanda implica una religione. L’uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili prive di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita” (A. Einstein, da Il mondo come io lo vedo)
L’era così detta moderna ha inizio, a grandi linee, nel Rinascimento, prosegue con l’Illuminismo e termina all’inizio del XX° secolo, per lasciare spazio a quella che Lyotard chiama “postmodernità”. L’era moderna è dominata culturalmente da una visione scientifica relativista, dualistica e radicale, che prima pretende di fissare i propri sommi principi razionalmente, secondo una concezione kantiana, per poi tentare di scomporli deduttivamente, separando e frammentando irrimediabilmente, nell’utilizzo di questo metodo, il mondo razionale dal soprannaturale. La separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica, operata dall’Illuminismo, ha, inoltre, consapevolmente o meno, rinunciato a quel fine comune spirituale che gli antichi attribuivano alla conoscenza. Nell’antichità la riflessione sistematica e metodologica mira alla ricerca della Verità ed è condotta riconoscendo che vi sono leggi che rientrano nelle facoltà umane, limitate e circoscritte, ma che oltre a queste leggi ve ne sono altre che non rientrano in quelle facoltà. Tale riflessione, in ogni epoca, fino all’avvento della cosi detta era moderna, mira a superare tali limiti, sviluppando un proprio metodo di ricerca che definiamo naturale, mitologico, religioso e filosofico. La scienza e la storia, intese come discipline a sé stanti, così come le intenderà l’uomo moderno, ne fanno parte integrante e non separata. Nell’era che precede la civiltà classica, l’uomo è capace di cogliere, attraverso una interpretazione simbolica della natura, il significato trascendente delle manifestazioni fenomeniche. I fenomeni fisici sono, per la sua coscienza ingenua e pura, il manifestarsi del Trascendente, dove il concetto del sacro viene inteso come ciò che proviene dall’Origine (ierofania) e non ciò che vi fa ritorno, ovvero che ha subito una manipolazione profana. Egli, attraverso una lettura simbolica della natura, è capace di abbracciare e di comprendere in sé il significato universale della propria esperienza esistenziale, che va oltre l’illusione della realtà apparente. Perciò è persuaso che indagando la natura può conoscere se stesso e il proprio destino. Per questo si identifica e vuole sentirsi un tutt’uno con la natura e con l’infinito, vivendo il suo tempo in forma ciclica, dove nascita e morte, succedendosi in maniera perpetua, rappresentano il ripetersi dei fenomeni naturali e il loro avvicendarsi, così come accade al giorno con la notte. L’incontro tra la vita e la morte, tra la morte e la vita, tra il giorno e la notte e tra la notte e il giorno, viene considerato il “punto d’origine” del cerchio vitale e temporale: ad ogni morte corrisponde una nuova nascita e un passaggio di livello successivo, di elevazione o di regressione. Quell’uomo possiede la concezione del “Centro” come Origine del tutto, da cui le cose si separano e si contrappongono, generando il bisogno e la necessità del “ritorno” all’Origine unitaria. La cultura umanistica e quella scientifica, come su menzionato, negli antichi non conosce distinzione, ma forma un “unicum” spirituale. Anche il fine a cui tende, ovvero la ricerca della Verità o del Principio, è il medesimo, di natura spirituale. Da un punto di vista metodologico, due possono essere le vie da seguire per il raggiungimento del fine: il primo attraverso una “prassi”, che presuppone l’azione, ovvero la ricerca, lo studio e la riflessione verso la sapienza e la conoscenza dell’etica, allo scopo di stabilire il miglior agire umano; il secondo presuppone il conseguimento dell’episteme come fine, in cui si determina lo scopo dell’attività intellettuale. Esiste un filo comune che unisce e collega, tra di loro e con quelle più moderne, le antiche civiltà e il loro pensiero; ma oggi, forse per la prima volta, nella nostra epoca cosiddetta postmoderna, questo rischia seriamente di spezzarsi. Quel filo comune, su menzionato, che Eraclito chiama “Logos” riguarda essenzialmente il tramandarsi della tradizione spirituale ed è quella particolare sensibilità metafisica, mistica e religiosa che, ancora oggi, percorre e attraversa il pensiero dell’umanità nella sua millenaria storia. Per convenzione storica, tendiamo a separare determinati periodi di civiltà, come, ad esempio, avviene negando la derivazione della filosofia greca dalle dottrine ebraiche, egiziane, babilonesi e indiane, con la pretesa di tracciarne una netta linea di demarcazione, da giustificarsi col fatto che tra queste civiltà non vi sia soluzione di continuità. Questo è vero solo in parte, cioè solo quando ci si riferisce al metodo di ricerca e di realizzazione della propria cultura, del pensiero e della dottrina filosofica, in una parola della propria ideologia. E’ vero, infatti, che la tradizione orientale è essenzialmente dominata dall’interesse religioso, il cui patrimonio di conoscenza appartiene ad una casta sacerdotale ristretta, la quale la custodisce e la conserva, preoccupandosi di tramandarla nella sua purezza. Dunque il fondamento della sapienza orientale è la tradizione, mentre nella filosofia greca è essenzialmente la ricerca. Il metodo è differente, ma l’oggetto della sapienza orientale e della ricerca greca è il medesimo: il Principio. Un esempio per tutti valga la teoria interiorizzante della dottrina mistica vedica nelle Upanishad, che intende penetrare i misteri dell’esistenza e che asserisce l’identità fra l’Atman, l’anima o spirito singolo e il Brahman, l’anima o spirito universale, attraverso la circolarità delle reincarnazioni (metempsicosi). Da essa si evince una evidente assonanza con la visione filosofica della scuola pitagorica, nonché platonica, neoplatonica e con un certo tipo di concezione panteistica marcatamente spirituale. Il fine della ricerca greca è, dunque, la sapienza; si tratta però di un tipo di sapienza accessibile solo a chi “sente” il desiderio e la necessità di pervenirvi nella persuasione più intima e completa. Il vero sapiente è colui che “sa di non sapere”; colui, cioè, che perviene alla consapevolezza della propria esistenza in un mondo illusorio e privo di certezze, ma che aspira a conoscere la Verità. Pertanto, possiamo riassumere questa visione ideologica nel detto socratico: “Io so di non sapere, ma un giorno saprò”. Non si può definire, peraltro, il vero sapiente se non si stabilisca, in primo luogo, quale sia la sostanziale distinzione tra verità ed illusione. Il mito della caverna di Platone, in questo senso, è ben esaustivo: la via della conoscenza consiste nell’abbandonare il mondo sensibile per quello intelligibile, attraverso l’ascesi conoscitiva, che conduce alla contemplazione del Bene in se stesso. Il dovere del sapiente è quello di trasmettere la sapienza; tuttavia, pur avendo trovato la via della conoscenza ed essendo sostenuto dalla forza interiore della Verità, il sapiente ha il dovere di rifuggire dalla tentazione di allontanarsi dal mondo sensibile e di ritornarvi a vivere. Da questa premessa deriva una visione metafisica di tale orizzonte, inteso come fine-perpetuo, ma non come meta-traguardo finale. Tale è l’Idea platonica che, in quanto perfetta, viene intesa come l’orizzonte di un percorso esistenziale “autentico”, di crescita morale, etica e spirituale, in perenne tensione verso quella perfezione-conoscenza. Essa è autodeterminazione e rappresenta “la giusta via”, l’Origine e l’orizzonte dell’uomo premoderno: egli predilige, in luogo della casualità, la ricerca del senso e della direzione della propria esistenza. Cercare il senso dell’esistenza, infatti, significa ammettere a priori l’esistenza di un Essere Supremo, a differenza della casualità che tende ad escluderlo. Il meta-traguardo finale deve ricondurre l’uomo al cospetto del Trascendente, attraverso la conoscenza del sacro, che però non necessariamente deve avvenire in questa esistenza o dopo la morte. Questa vita, infatti, può essere intesa in senso neoplatonico, come una tappa intermedia, dove far prevalere la necessità di rivalutare i valori permanenti qualitativi in luogo di quelli contingenti, quantitativi e labili. In questa struttura ideologica si riflette la stessa struttura sociale di quei tempi, prima classica e poi medievale. Se nell’età classica della Grecia prevale lo spirito genuino della ricerca, dunque della libertà e della creatività individuale, nel medioevo prevale, analogamente all’era pre-classica, la visione di un mondo costituito gerarchicamente e sorretto da un’unica forza che dall’alto ne dirige e ne determina tutti gli aspetti. Tale concezione si ispira, sostanzialmente, ad una visione sincretica della dottrina filosofica stoica e neoplatonica, alla quale vengono ridotte ed adattate le dottrine aristoteliche e platoniche. La concezione del mondo è quella di un ordine perfetto e necessario, al quale l’uomo deve conformarsi, tramite il ruolo e il posto a lui assegnati. Pertanto la libertà e il libero arbitrio possono essere esercitati utilmente solo in vista di questa conformità. E’ veramente libero solo colui che attraverso il pensiero e la ricerca interiore sappia riconoscere e percorrere la giusta via: il Bene e Dio sono il Principio, il Mezzo e il Fine. Il medioevo, dunque, così come la cultura greca lo era stata per le tradizioni antecedenti, si configura come la continuazione delle culture che lo avevano preceduto, attraverso uno sviluppo dialogico e interpretativo del classicismo, che trova nel Cristianesimo il suo principale interlocutore. Temi e concetti classici, come l’idea del Bene, vengono posti al centro di questo fervido dibattito, non con l’intento di formulare nuove dottrine, ma di interpretarli nel giusto senso. Il principale problema, che il nascente Cristianesimo si trova a dover affrontare, è quello posto dalla visione platonica dell’idea-conoscenza e quello aristotelico del divenire nella ricerca dell’idea-conoscenza, ovvero di intendere la Verità come già data o di trovarla attraverso la ricerca individuale. Tale dicotomia, sappiamo, si è concettualmente ramificata, ponendo al centro del dibattito questioni e problemi come quelli del rapporto tra fede e ragione, tra essenza ed esistenza, tra conoscenza e scienza, tra dogma e ricerca e, dunque, tra essere e divenire. Ma, sopratutto, esso è il problema dell’ambito di libertà, del libero arbitrio, che l’uomo può avere nella ricerca della Verità, considerando, in primo luogo, i suoi limiti razionali. Nel medioevo la relazione autentica tra libertà e Verità assoluta, unita al desiderio per la conoscenza (l’eros platonico), è il presupposto necessario che conduce alla fede. Questa impostazione, che pone la fede come base per la conoscenza e come obiettivo della ricerca e non, viceversa, come sua premessa, determina che la ricerca senza il suo fine non avrebbe ne direttiva ne guida. Perciò, come sosteneva lo stesso Sant’Agostino, la fede diviene la condizione della ricerca, ma allo stesso tempo la ricerca è la condizione della fede, nel momento in cui ci si rivolge ad essa nel desiderio di chiarirne i problemi che suscita e di approfondirne incessantemente il suo significato più intimo. Problemi, questi, che l’Umanesimo sente particolarmente nel tentativo di ricostruzione del suo “uomo nuovo”, il cui fondamento è rappresentato dalla dignità e dalla libertà, attraverso una grande sintesi di tutto il pensiero antecedente. Marsilio Ficino occupò gran parte della propria breve esistenza nella traduzione di testi classici proprio nel tentativo di dimostrare, attraverso un arcaico percorso che va da Zarathustra fino a Ermete Trismegisto, a Pitagora e Platone, per confluire infine nella religione ebraico cristiana e nel misticismo neoplatonico, che non vi è, in linea di massima, disaccordo fra Platonismo e Cristianesimo, fra magia e religione. Al contrario, in queste tradizioni così apparentemente diverse tra loro, vi è un comune nucleo di verità, che egli riassume nella formula “homo copula mundi”, rappresentato dalla dignità cosmica dell’uomo. L’uomo è il centro (copula), un’entità intermedia nel creato a metà strada tra l’animale e l’angelo. Per questo si trova perennemente di fronte alla sua responsabilità di scegliere, alla sua libertà di autodeterminarsi, tendendo verso la perfezione angelica o verso il degrado animalesco. Ciò nonostante l’uomo è costretto entro i propri limiti razionali, dai quali deriva l’impossibilità di conoscere Dio e i suoi attributi in forma razionale. Dalla finitezza della ragione umana, circa l’inconoscibilità di Dio e dei suoi attributi, deriva la necessità di una teologia negativa, che si rifà alla tradizione areopagitica, al misticismo tedesco, al neoplatonismo e alla teoria di emanazione, o processione, di Proclo. Dal misticismo tedesco, dalla tradizione areopagitica e dal Neoplatonismo deriva l’impossibilità di conoscere gli attributi divini, che non sia per via simbolica; da Proclo deriva la teoria della creazione come rapporto fra complicatio ed explicatio: le cose sono contenute in Dio e si pongono in essere svolgendosi e procedendo da Lui. Ma se la ragione umana è finita e ugualmente si pone in essere l’esistenza di Dio come certa, pur determinandola in forma negativa e di infinità, ciò rappresenta per la ragione stessa una sfida. Lungi dal ritenersi sconfitta, essa ripone nella ricerca l’obbiettivo di spostare sempre in avanti il limite di conoscenza a cui poter accedere. La teologia negativa si muove, pertanto, in una duplice direzione: da un lato la consapevolezza della finitezza e l’abbandono totale del credente in Dio; dall’altro lo stimolo continuo alla ricerca e alla tensione verso Dio nella conoscenza e nell’esplorazione della natura, nella quale Egli si manifesta e nella quale si può esaltare la libertà e la dignità dell’uomo. Data l’inconoscibilità di Dio, vi è la necessità’ di una religione universale, che si ponga al di sopra di tutte le altre, abbracciandole e contenendole tutte in sé nei principi di fratellanza, uguaglianza e tolleranza. Da tale prospettiva viene ispirato l’evento centrale di Pico della Mirandola, attraverso l’iniziativa del fallito congresso che avrebbe dovuto riunire, in un intento conciliatorio, i rappresentanti delle tre religioni rivelate. A tal proposito nel 1486 egli scrive novecento tesi ispirate alla filosofia, alla cabala e alla teologia, tratte dalle fonti più diverse, come Aristotele, Ermete Trismegisto, Tommaso d’Acquino, Platone, Avverroè. Il congresso viene proibito per il sospetto di eresia su alcune tesi, ma Pico si difende prima con una “Apologia” nel 1487 e poi con le “Conclusioni” che sviluppano le tesi incriminate. Viene imprigionato per eresia mentre tenta di fuggire in Francia e solo l’intervento di Lorenzo il Magnifico gli permette di ottenere il perdono di papa Alessandro VI e di riottenere la libertà. Oggi, più che mai, sentiamo il bisogno di riscoprire e di riflettere quell’antica passione umana, incoraggiando l’uomo a valorizzare le proprie facoltà intellettive e impedendo che venga dispersa e annullata la propria dignità in un dischiuso mondo del luogo comune e dell’opulenza mercantile, basata su fattori quantitativi. Bisogna riscoprire il mondo-della-vita-autentica, trasformando la scienza, che oggi si prefigura come un fine, in un mezzo. Apprendere la scienza significa sviluppare la capacità di utilizzo dei propri mezzi intellettuali, di arricchimento interiore e della propria capacità razionale; significa trasformare l’uomo, da modello conformato ad artefice attivo della propria esistenza da un punto di vista qualitativo e spirituale. Oggi più che mai, all’uomo che non voglia privarsi della sua dignità, occorre riscoprire e far rivivere taluni concetti di valore umano e universale. “Ecco perché i tiranni hanno paura. Possono ridurre all’ubbidienza milioni di uomini, ma non quell’uno che in sé ha ridotto in schiavitù la morte. Egli ristabilisce la dignità dell’uomo…” (Ernst Jünger da Tre Ciottoli).